Che l’adattamento di un anime sotto forma di live action sia una battaglia già persa in partenza è qualcosa a cui la storia del cinema e della televisione ha ben abituato qualsiasi spettatore. Quando si tratta di adattare One Piece, una delle storie più longeve della storia dei manga (1091 capitoli) e degli anime (1074 episodi), abbiamo quindi – in teoria – la ricetta annunciata per il disastro.
Nonostante le difficili premesse, e prima ancora della visione della prima stagione rilasciata da Netflix in un blocco unico di otto episodi, la sensazione prevalente era quella di grande rispetto nei confronti dell’anima del prodotto, della sua derivazione rispetto a uno stile preciso, e della voglia di riuscire a raccontare la storia di One Piece con un mezzo narrativo completamente diverso. Questo anche grazie al coinvolgimento dell’autore del manga Eiichiro Oda nella supervisione e nella produzione dello show.
Sarà riuscito Netflix a spezzare la maledizione dei live action e a creare un prodotto capace di rimanere in piedi da solo?
L’analisi del prodotto prenderà in esame i personaggi uno a uno, poiché vero nocciolo di una storia character driven, nella quale la caratterizzazione di ognuno dei protagonisti è decisiva nella costruzione della trama. Inoltre questa prima stagione segue la struttura dei primi capitoli del manga e suddivide i propri episodi creando delle riuscite trame verticali dedicate a massimo un paio di personaggi ad episodio.
Monkey D. Luffy
È impossibile iniziare questa analisi senza prima parlare di uno dei personaggi più riusciti della serie, nonché caposaldo di quanto l’opera rappresenta: Luffy è un ragazzo con un sogno gigantesco – diventare il Re dei Pirati – e con i mezzi necessari per farlo – ha mangiato un frutto del diavolo che lo ha reso un uomo di gomma, dai poteri potenzialmente sconfinati. Ciò che rende particolarmente riuscito l’arco del personaggio nella serie è l’aderenza, con i dovuti scostamenti, al materiale originale, complice uno dei casting più riusciti dell’intera saga. Iñaki Godoy riesce a portare in scena l’animo scanzonato di Luffy, il suo approccio fiducioso alla vita e alle sfide che li aspettano, con un ottimo equilibrio tra una rappresentazione più semplicistica (tipica di un certo numero di protagonisti di battle shonen – genere che One Piece ha contribuito a definire nella sua lunga storia editoriale) e la necessità di farne la bussola morale della ciurma. Non sempre Luffy riesce a essere convincente come nei primi episodi – e tanto ha a che fare con l’eccessiva velocità con cui alcuni comprimari vengono introdotti (è il caso delle storyline di Nami e Sanji, in particolare) – ma il risultato complessivo è quello di un arco narrativo riuscito e convincente dall’inizio alla fine.
Roronoa Zoro
Forse non è ancora lo spadaccino più forte del mondo, ma Roronoa Zoro è sicuramente uno dei personaggi più famosi del web, avendo catalizzato l’attenzione dei lettori fin dal lontano 1997. Mackenyu aveva un compito non facile: riuscire a essere fedele al personaggio originale, da sempre caratterizzato da un mix di coolness e fiducia incrollabile verso il suo capitano, creandone una versione che risultasse realistica e che facesse presa anche sul nuovo pubblico. Il risultato è sicuramente all’altezza delle aspettative, e ciò lo dimostra sia il flashback che riguarda il sogno di diventare il più forte spadaccino del mondo (condiviso con l’amica-rivale Kuina), sia la scena della prima sconfitta che subisce, che contribuisce a renderlo più umano e a dargli un obiettivo più concreto da raggiungere.
Usopp
Quando parliamo di Usopp, ci riferiamo ad uno dei personaggi meglio riusciti del live action, nonché uno dei mini-archi introduttivi meglio riadattati rispetto al materiale di partenza. Non è facile trarre ispirazione da un materiale di partenza così ampio e dettagliato (la media per ogni personaggio è quella di una ventina di episodi per arco dell’anime), e riuscire a sintetizzarlo creando un episodio da serie-tv moderna, che ha delle tempistiche e delle esigenze ben diverse. Nel caso di Usopp la serie di casa Netflix non sbaglia un colpo, dividendo la storia in due episodi che sono forse i più convincenti di questa prima stagione, rispetto ad un materiale di partenza anche meno ricco ed emozionante rispetto a quello dei suoi compagni. La voglia di Usopp di diventare un pirata e la sua propensione alle bugie (o meglio, alle verità rielaborate) lo rendono un personaggio a cui è impossibile non affezionarsi fin dalle prime inquadrature. Anche la ciurma di Krahador/Kuro funge da villain particolarmente riuscito, e il ritmo più diluito degli eventi rende la coppia di episodi più che all’altezza del riferimento cartaceo e televisivo.
Sanji
Quanto detto finora non si applica a tutti i personaggi – nonostante un casting che anche questa volta ha fatto centro – con la conseguenza che la storia di Sanji risulta particolarmente appiattita e scevra del potenziale che portava con sé. È proprio con Sanji che iniziano ad emergere i problemi di un adattamento del genere rispetto al contenitore di otto episodi, collegati alla necessità di creare uno spannung narrativo che coincida con il finale della stagione, pur non avendo questo tipo di tensione all’interno della storia originale. Sanji è il personaggio la cui introduzione paga di più il prezzo di questa costruzione narrativa, e la mancanza di due episodi introduttivi (come fatto con Usopp), in luogo del singolo episodio che lo riguarda, pesa moltissimo sulla valutazione generale dell’efficacia della sua introduzione. Si tratta di un’occasione persa che va a pesare in modo rilevante sul personaggio e sulla stagione, perché si perde l’occasione di sottolineare sia quanto Luffy sappia essere convincente e persuasivo, sia quanto molto dipenda dalla storia del singolo personaggio che il capitano cerca di arruolare. A differenza di Usopp, il Sanji della versione originale mostra maggiori reticenze alla prospettiva di arruolarsi nella ciurma (qui non ne ha nemmeno il tempo). L’insistenza di Luffy, insieme all’intero staff del Baratie che cerca di spingerlo a seguire i suoi sogni lontano dal ristorante, danno origine a una scena dolceamara dalla carica emotiva devastante: Sanji dice addio al primo posto che ha chiamato casa con le lacrime agli occhi, ringraziando la sua famiglia per tutto quello che gli ha insegnato. La scena della serie Netflix invece non riesce a comunicare lo stesso pathos, perché manca una costruzione di base che riesca a rendere realistico l’insieme di emozioni che vuole far provare allo spettatore. Si tratta di una duplice disdetta, sia per il materiale di riferimento (anche molto più impattante di quello di Usopp) sia perché la serie aveva già dimostrato di sapersi discostare dal canovaccio originale e scrivere dei personaggi autonomi rispetto alle loro controparti cartacee ed animate.
Nami
Nonostante il personaggio di Nami sia introdotto fin dalle prime battute della stagione – con un’ottima costruzione del fragile legame che la lega a Luffy e Zoro – è proprio nel momento di maggiore tensione che iniziano ad emergere i difetti in sede di scrittura. La necessità di far coincidere l’ultimo mini-arco introduttivo con la resa dei conti finale – compresa del confronto tra Luffy e il nonno viceammiraglio – rende gli episodi dedicati a Nami particolarmente confusionari. La sensazione prevalente è quella di un contenitore di storie che sulla carta hanno un potenziale indefinito, che non riesce però a tradursi in un episodio efficace e dall’impatto emotivo significativo. Mettendo da parte l’effetto nostalgia di tutti gli spettatori di vecchia data (che l’arco di Nami l’hanno visto più e più volte), va purtroppo constatato che gli episodi a lei dedicati mancano di mordente. Flashback e realtà odierna si susseguono a ritmo incessante, con delle transizioni che non sono sempre ben integrate nel contesto, e l’eccessiva velocità e il ritmo incalzante tolgono alla storyline di Nami la potenza emotiva che poteva avere sullo schermo. La girandola fatta di spicchi di mandarini non regge il confronto con quella simbolica del rapporto tra Nami e il capo del villaggio, e anche il disegno del nuovo tatuaggio passa inosservato rispetto al volume di eventi trattati. La celeberrima scena del cappello, quando Luffy offre il suo aiuto a Nami – che finalmente si fida abbastanza per poterlo chiedere – è emozionante in quanto tale, ma non è preceduta dalla costruzione che meriterebbe per farla diventare, a pieno titolo, una delle scene più significative della stagione.
Il live action di One Piece è un progetto particolarmente ambizioso, e gli autori della serie sembrano consci della portata delle aspettative dei fan storici della serie: l’approccio seguito è quello giusto, e la scelta di soffermarsi sui personaggi e le loro motivazioni – così come le loro ricche backstory – paga bene in termini di riuscita della stagione. In particolare, proprio quando le situazioni sono scritte rispettando la natura della storia e i temi portanti della trama – l’importanza dei sogni, il legame tra i personaggi e l’anima degli stessi -, la riscrittura di molte situazioni passa in secondo piano, creando degli episodi riusciti e degni di nota. Non è stato così in tutti i casi, e a partire dalla seconda metà di stagione il volume di avvenimenti pesa negativamente sulla struttura di tutto il progetto.
Al netto di qualche errore, tuttavia, One Piece sembra una scommessa che Netflix ha vinto, considerati anche i dati della prima settimana di streaming; il modo in cui i personaggi sono stati introdotti non può che far ben sperare per l’adattamento dell’arco successivo (quello di Alabasta) che presenta molte più connessioni con il mezzo seriale, e la cui storia sarebbe perfetta per la seconda stagione della serie.
Voto: 7 –