Dopo ben tre anni di attesa, Noah Hawley ha deciso di tornare a raccontarci le storie che piacciono a lui: quelle strane, contorte, quasi grottesche, ma che nascondono – spesso non troppo velatamente – dei significati molto più profondi dell’azione, dello humor nero e del mistery che impregnano ogni scena di Fargo.
Questa volta ci troviamo nel 2019, a Scandia, una città borghese del Minnesota, dove nel pilot la casalinga Dot viene arrestata durante una furiosa lite scoppiata durante una riunione scolastica tra genitori. La stagione quindi parte già con una sequenza che è Fargo allo stato puro, e si può subito notare come la regia di questa serie non abbia perso minimamente lo smalto dei giorni migliori. Ma è anche l’occasione per sorridere amaramente, come spesso questa serie ci ha insegnato a fare – anche se, a onor del vero, più la storia va avanti e sempre meno ci si diverte, anche se rimane immutata l’amarezza. Un evento del tutto casuale durante un episodio totalmente assurdo, quindi, rivela che in realtà Dot non è proprio una tranquilla casalinga di periferia, è molto, molto di più.
Questa stagione di Fargo ha chiaramente come cuore pulsante tutto l’universo che ruota attorno alla violenza sulle donne: il patriarcato nella sua forma più atavica, il femminicidio, la prevaricazione sociale, il tema della salute mentale, l’impunità degli aggressori.
La figura interpretata da un quasi irriconoscibile Jon Hamm – scelta di casting chiaramente mirata, perché da sex symbol passa esattamente nella squadra opposta, dove giocano gli uomini da odiare e ripudiare da cima a fondo – è quella dello Sceriffo Roy Tillman, vero e proprio padre padrone della Contea e incarnazione precisa del più bieco patriarcato che si potesse disegnare. È un patriarcato inteso in senso molto più ampio di quanto non si intenda nella discussione sociale e nel linguaggio di oggi: Tillman si sente talmente l’uomo alfa perfetto che non solo prevarica, rapisce, stupra, picchia, tortura e uccide delle donne a suo piacimento (restando ovviamente sempre impunito, anche grazie al suo status), ma è una figura di vero e proprio patriarca-padrone di tutto quello che lui sente come suo. Oltre alla Contea che abbiamo già citato, è molto interessante il rapporto che ha con il figlio Gator (interpretato da un magnifico Joe Keery), suo vice-sceriffo.
Conosciamo Gator nel tentativo di rapire Dot e di riportarla a “casa”, in Nord Dakota: in questo momento il personaggio è tale e quale a quello del padre, solo molto meno sveglio e intelligente. Ma man mano che la storia continua, conosciamo sempre più a fondo il rapporto padre-figlio ma soprattutto in che ambiente Gator è cresciuto, il rapporto quasi fraterno che lo lega a Dot e il legame con una madre che si è visto portare via da un padre criminale, che gli ha rovinato la vita, facendolo diventare un bullo a sua immagine e somiglianza, ma ancora più pericoloso perché evidentemente con un quoziente intellettivo molto più basso.
La svolta arriva quando Gator, pur di compiacere il padre anche quando cominciano a venirgli i primi dubbi sull’operato del genitore e in generale della sua “squadra”, diventa cieco dopo la tortura di Munch (altro personaggio incredibile di cui parleremo tra poco) e all’improvviso vede la verità. È un ribaltamento interessante non solo dal punto di vista della metafora, ma soprattutto perché ci regala una riflessione importante: le figure come Roy Tillman sono pericolose per le donne e vanno fermate anche perché quasi sempre rovinano anche la vita dei figli. Il Male che li muove odia e uccide le donne, rovinando nel contempo il futuro delle giovani generazioni che si ritrovano a portata di mano un modello del genere. Il vero Gator è quello che commosso chiede a Dot se davvero ha incontrato sua madre, anche se in cuor suo sa che il padre l’ha ammazzata tanti anni prima. In quel momento c’è una tenerezza in Gator (anche grazie alla bravura di Keery che è costretto a recitare senza l’ausilio dell’espressione degli occhi) che ci fa odiare ancora di più gli uomini come Tillman e che ci rende molto bene l’urgenza di agire quanto prima per arginare questo fenomeno dilagante del machismo tossico e violento.
E poi c’è lei, ovviamente, quella Tigre nascosta sotto le mentite spoglie di Dot, ingenua casalinga che vive una vita agiata e tranquillissima in una villetta con un uomo buono e un po’ svampito, e una figlia intelligente lanciata verso il futuro. Ma da dove nasce la Tigre che vede Munch in Dot? Dal dolore, dalla sopraffazione, da una giovinezza rovinata da un uomo violento e pericoloso.
Dot è il cuore pulsante di questa stagione di Fargo, è un personaggio incredibile, scritto in modo perfetto: perché lei non è una Terminator per nascita, ma è dovuta diventarlo per puro istinto di sopravvivenza. Per quante Dot, però, ci sono altre donne che non possono diventare tigri, che ad un certo punto si arrendono al loro tremendo destino perché non c’è nessuno che le aiuta?
Tuttavia, Dot è anche incredibilmente umana: l’episodio “Linda”, probabilmente il più bello della stagione e uno dei migliori dell’universo di Fargo, ci mostra la vera anima del personaggio, in quel meraviglioso lucido sogno che tutti abbiamo sperato essere vero fino all’ultimo. Ma nel mondo di violenza e prevaricazione in cui siamo immersi era letteralmente impensabile che quello che stava vivendo Dot fosse la realtà: tutta l’umanità del personaggio è riassunta anche nei colpi di sonno che ha fino a quando arriva alla tavola calda (dove poi si addormenta veramente), colpi di sonno che riassumono l’immensa stanchezza che deve provare, non solo fisica ma soprattutto mentale e che ci ricorda che la Tigre è un essere umano che ne ha subite di ogni e che fino a quel momento ha fatto un miracolo per uscirne viva. Torniamo quindi al punto di partenza: Dot è una su un milione; il pensiero corre a tutte quelle donne che, senza essere aiutate e senza prevenzione, non ce l’hanno fatta.
Come una buona stagione di Fargo che si rispetti, anche questa ha una parte totalmente inspiegabile, una scheggia impazzita rappresentata da Munch (nome evocativo), simbolo di esoterismo e del mistero della storia dell’umanità.
Ha un’età indefinita, ha attraversato le epoche finché non è più invecchiato: non ci viene spiegato il come e il perché, ma quella di Munch è una figura che rappresenta l’animalità atavica dell’uomo. Prima agisce senza nessuna remora morale solo per soldi, poi si scopre essere fedele a chi lo aiuta, poi ancora brutalmente violento con chi ha tentato di esserlo con lui. Ma soprattutto l’unica persona che riesce a comprenderlo e a “domarlo” è proprio Dot, con quell’incredibile sequenza finale, grottesca e rivelatoria al tempo stesso. La Tigre da domare diventa domatrice, perché usa l’arma forse più semplice di tutte: l’umana comprensione.
Ma Fargo non è solo Dot, è anche e soprattutto Indira e Lorraine (che di cognome fa Lyon non per caso): sono due donne con principi morali e attitudine verso l’altro agli antipodi, ma che si ritroveranno incredibilmente alleate nella speranza di salvare Dot da quel mostro di Tillman. Soprattutto l’evoluzione di Lorraine è molto interessante: il suo essere così spietata è probabilmente nient’altro che una forma di autodifesa e di sopravvivenza; è quando vede le foto di cosa ha dovuto subire Dot nella vita precedente che si apre un varco in quella durezza e capisce che può usarla non solo per difendersi, ma anche per attaccare quella gente che si permette di trattare altri essere umani come oggetti. L’interpretazione superlativa di Jennifer Jason Leigh fa poi il resto, un’attrice che negli ultimi anni sta vivendo una parte di carriera molto significativa.
Insomma, questa stagione di Fargo è tornata senza ombra di dubbio sui livelli delle prime, con un linguaggio tutto suo che non ha perso minimamente lo smalto, ma che anzi sembra essersi rinvigorito dopo un giro a vuoto con l’annata precedente. Un plauso alla scrittura e alla regia, ma anche e soprattutto a un cast che ha reso perfetto ogni personaggio che abbiamo conosciuto.
Voto: 8
Curiosa la coincidenza che vede due opere stilisticamente agli antipodi, questa stagione di Fargo e il film di Paola Cortellesi, affrontare lo stesso, gigantesco e drammaticamente importante (sotto)tema; nel film la violenza contro la donna reclama diritti e libertà, qui mette in luce rancori e vendette malate. E anche se col tempo certi elementi stilistici propri dei Coen tendono un po’ a sbiadirsi (all’inizio, alla vista di Munch, ho pensato all’ennesimo killer dalla dubbia acconciatura!), poi però le storie e i personaggi dalle mille sfaccettature emergono in tutto il loro splendore.