Sempre più dark. Sempre più coinvolgente. Person of Interest marcia a vele spiegate verso il season finale, tra cospirazioni, trame oscure, segreti e interrogativi sempre più interessanti, senza però mai dimenticare il Mistero più grande di tutti…
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“If you want a mistery, try the human heart.”
Gli ultimi due episodi di Person of Interest proseguono le trame e sottotrame legate alla Machine, al suo concepimento e probabilmente alla cospirazione governativa che si cela non tanto dietro la sua creazione, quanto dietro il suo uso. Ciò nonostante, queste due puntate, per certi versi speculari, non dimenticano di farci addentrare in quel mistero che Finch non manca di sottolineare: quello delle interazioni umane. Il passato di Reese e Finch torna prepotentemente a galla, mostrando le loro due storie parallele di rinunce e solitudine, di segreti e aspirazioni che hanno finito per togliere loro la vita.
Non è un caso che in entrambi gli episodi ci vengano mostrate due simili foto dei nostri due protagonisti, a immortalare quei momenti di felicità che sono stati loro strappati, lasciandoli nella frustrazione di essere vivi in un mondo che li considera morti (concetto spesso anche ironicamente ripetuto).
Il merito della serie è quello di aver saputo raccontarci nel corso di questa prima stagione l’umanità dei due personaggi in maniera profonda e coinvolgente, a tal punto che anche i casi di puntata (tra l’altro non si registrano più stand-alone dai comunque bellissimi Identity Crisis e Baby Blue) non possono prescindere da un coinvolgimento emotivo dei protagonisti, tale da innalzare la serie ben al di sopra di un normale procedurale con personaggi/pupazzi messi lì solo per raccontare l’ennesimo caso di omicidio risolto. Sono proprio queste implicazioni a livello personale a rendere possibile che un caso di violenza domestica come quello di Many Happy Returns non venga trattato con la razionalità e la freddezza di un’indagine volta solo alla risoluzione di un crimine, ma si carichi anche di una rabbia, di un profondo senso di solitudine e di una frustrazione che portano ad affrontare il tema in modo non solo intelligente, ma anche senza paura di portarne a galla i lati più oscuri e drammatici.
L’umanità dei nostri protagonisti è ciò che li porta spesso al rischio di varcare il limite che intercorre tra l’essere dei vigilanti e degli esecutori, tra l’essere dei giudici e l’essere dei boia, in nome di una sete di vendetta verso un proprio passato che si odia forse persino più di se stessi. Ciò dà alla vicenda quell’atmosfera dark e quella cupezza davvero rara da vedere in prima serata e soprattutto sulla CBS.
Mai come in questo episodio, si ha l’impressione di quanto, malgrado tutto, il nostro eroe sia inadatto a compiere il suo lavoro. Il proprio lato oscuro è talmente predominante da superare il senso della ragione e della moralità, facendolo apparire fuori controllo, spietato, quasi spaventoso (e in questo va fatto un plauso a Jim Caviezel, davvero sorprendente in alcuni frangenti nel passare da feroce giustiziere a cane bastonato). John Reese è un uomo più combattuto che mai, per certi versi ancora immaturo. Cresciuto uccidendo persone per ordine dei suoi superiori/padri, è la violenza l’unico modo che conosce per comunicare il suo dolore. Non ancora disciplinato, finisce per sembrare più spesso un adolescente frustrato da mille dilemmi e che deve ancora imparare a controllare i propri impulsi. Verso quella sua solitudine impossibilitata a trovare vendetta o redenzione si ha una tale pietà e compassione che viene quasi voglia di dare a John una pacca sulle spalle e auguragli anche noi come Finch “Happy Birthday, Mr. Reese”.
Proprio Finch si mostra ogni episodio di più come una figura sempre più importante nella sua funzione di consigliere e mentore, accomunato a Reese da una stessa sofferenza che però è convertita al bene (quando invece quella del nostro protagonista, ed è questo il tratto più affascinante, è innatamente e inconsciamente votata al male). L’approfondimento sempre maggiore del rapporto tra i due non manca comunque di essere strettamente connesso alla trama: non solo scopriamo che fine ha fatto probabilmente il tizio del quarto episodio (che ci aveva lasciato col dubbio se Reese l’avesso ucciso o no, ma è chiaro che sia finito nello stesso carcere messicano del criminale di questo episodio), ma anche la storia della Machine finisce per essere tutt’altro che scollegata dalla trama, con la scoperta che la defunta fidanzata di Reese, Jessica, era stata un numero più volte tirato fuori dalla struttura e che Finch non aveva potuto aiutare dalla sedia a rotelle su cui era bloccato. Trattasi di un nuovo colpo di scena che una volta di più ci mostra la sicurezza con cui il materiale narrativo viene maneggiato.
Il successivo episodio, No Good Deed, non per niente il pre-finale, è quello che però più approfondisce la genesi della Macchina e lancia definitivamente il mistero su dove sia ubicata, su chi ne sia a conoscenza e chi e cosa stia tramando per poter abusare del suo potere. Lo scopriamo attraverso il “caso di puntata” di Henry Peck (che ha il volto di Jacob Pitts, uno dei protagonisti di Justified), a rischio di morte solo per aver fatto domande e per essersi avvicinato alla scoperta della Machine. Quel che è più interessante è che forse lo stesso Finch venga per un momento attraversato dall’idea (seppur non palesata) di far fuori il ragazzo per lasciare sepolti alcuni segreti. Solo che anche Finch è cambiato, al contrario di coloro che cospirano dietro di lui, forse perché ancora legato a quella vita che poteva avere, a quei 4 anni di felicità (monologo senza chissà quali guizzi, ma recitato con un’intensità davvero stupefacente da Michael Emerson) che lo rendono più umano degli altri, più fragile e rispettoso della vita altrui. A ricordarcelo questa volta è Grace, che scopriamo essere stata la sua fidanzata (e che tra l’altro è interpretata da Carrie Preston, la Arlene di True Blood, e che, oltre ad essere la compagna anche nella vita reale dell’attore, era già apparsa in Lost come madre di Benjamin Linus, il personaggio che proprio Emerson ha reso immortale).
La cosa più bella sarà ora scoprire quale delle storyline andranno a chiudere nel finale di stagione (se ne chiuderanno una) e se decideranno di connettere le singole sottotrame una all’altra o se rimarranno spunti su cui tornare nel nuovo ciclo: dalla vicenda Elias, fino allo scontro CIA/FBI, passando per la misteriosa hacker che sfida Finch, l’ex-collega di Reese tornata in azione, la polizia corrotta dell’HR e la cospirazione governativa sulla Macchina, ce n’è davvero per tutti i gusti, per quello che finora è un affresco perfettamente orchestrato di un mondo in cui ognuno è spia e spiato, osservatore e osservato, custode di segreti, traditore, con desideri di rivalsa e potere. Perfetto a tal proposito il contrappunto musicale tra God is an American e I’m afraid of Americans, che ben svela come dietro l’ambizione al controllo totale e all’onniscienza sulle vite di ogni singolo individuo si nasconda un pericoloso Complesso di Dio forse proprio del DNA di un’intera nazione.
Person of Interest si conferma una delle serie più innovative dell’anno (ironico, se pensiamo che è forse sul canale meno incline alla sperimentazione) e soprattutto con una serie infinita di strade da percorrere, che sinceramente non vediamo l’ora di scoprire una dopo l’altra.
Voto 1×21: 8½
Voto 1×22: 9
D’accordo su tutto. Hanno fatto di un mezzo fallimento un gioiello.