Come vi abbiamo raccontato nella prima parte di questa iniziativa, quest’anno abbiamo deciso di non fare classifiche di serie TV andate in onda quest’anno: ci sono ormai troppi show per poter dire quale sia migliore o peggiore, e di sicuro sono troppi per poter essere visti tutti e valutati con criteri che siano il più possibile informati. Abbiamo quindi deciso di puntare sui consigli, su quelle serie che ciascuno di noi in redazione vorrebbe suggerire a voi lettori ma anche ai nostri amici e parenti, così da non perdersi per strada uno show che magari non è canonicamente da classifica, ma che secondo noi ben rappresenta questo 2023.
Le prime 12 serie consigliate dalla Redazione di Seriangolo le trovate qui: proseguiamo con le altre 12, anche in questo caso in un ordine assolutamente casuale! Fateci sapere nei commenti quali serie consigliereste voi!
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The Bear – Hulu
Dopo un fortunatissimo esordio, acclamato da critica e pubblico, non era semplice tenere testa alle aspettative, ma The Bear è riuscita a reinventarsi e a eguagliare, se non superare, il livello qualitativo della prima stagione. La decisione di scandire gli episodi con il countdown delle dodici settimane che separano i protagonisti dall’apertura del nuovo ristorante di Carmy ha infatti permesso agli autori di tenere alto il ritmo della narrazione, lasciando però al tempo stesso il racconto libero di respirare, grazie a dei focus mirati su tutti i membri della brigata del locale di Chicago. The Bear ha così dato vita a una serie di storie di crescita personale e professionale, in cui i traumi privati e le difficoltà socio-economiche vissute dai personaggi non vengono mai edulcorati o messi da parte, nonostante il sottofondo di speranza e ottimismo che li permea. Facendo tesoro della struttura seriale, lo show ci ha regalato alcuni episodi memorabili, che si ergono a vere e proprie lezioni magistrali di scrittura, messa in scena e recitazione. Per citarne due tra tutti: “Fishes”, l’episodio flashback natalizio pieno zeppo di guest star – da Jamie Lee Curtis a Bob Odenkirk, passando per John Mulaney –, che rappresenta un impietoso affondo nella travagliata storia della famiglia Berzatto, e “Forks”, in cui seguiamo il cugino Richie in una parabola di rivalsa e scoperta del proprio valore sulle note di “Love Story” di Taylor Swift. Fortunatamente rinnovata per una terza stagione, la serie di Christopher Storer si conferma come uno dei gioielli del panorama seriale contemporaneo, un prodotto imprescindibile per tutti gli amanti della buona cucina ma, soprattutto, della buona televisione.
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Jury Duty – Amazon Freevee
Se c’è qualcuno al mondo che si è trovato nella posizione più vicina a quella di Truman Burbank, personaggio fittizio di “The Truman Show”, quello è Ronald Gladden, protagonista (a sua insaputa) di Jury Duty, serie di Amazon FreeVee la cui definizione richiede più di qualche parola. Lo show, che dichiara la sua natura sin dall’inizio, è una comedy, un mockumentary, ma anche un esperimento, almeno per il suo protagonista: Gladden, un appaltatore, venne infatti scelto dopo un annuncio in cui si chiedeva la disponibilità a partecipare a un documentario sulle giurie statunitensi, prendendo parte a un vero caso dibattuto in un vero tribunale. La serie ha dunque l’impostazione tipica di un documentario, se non fosse che tutti i partecipanti – a parte Gladden – sono attori e che il caso, in realtà, non esiste. Jury Duty per tutti questi motivi è una serie al contempo scripted e non scripted, perché le interazioni con un inconsapevole protagonista portano a inevitabili improvvisazioni e cambi di trame in corsa; Ronald Gladden, convinto di fare davvero il suo lavoro di giurato, si trova suo malgrado a confrontarsi con situazioni e personaggi al limite, uscendone sempre in modi sorprendenti. La forza della serie risiede nell’incredibile lavoro fatto da autori e attori, ma anche e soprattutto nella bravura (e fortuna) di aver scelto tra i tanti un ragazzo eccezionale, che tra molte risate e anche qualche lacrima riesce almeno per un po’ a ridarci fiducia nell’umanità. “Ma come, è possibile che non si sia accorto di essere in una specie di reality?” è la domanda più frequente: guardate fino all’ultima puntata per credere, e se non vi basta c’è anche un backstage per ogni singolo episodio. Bonus: c’è James Marsden che interpreta se stesso in versione egocentrica e boriosa, e varrebbe da solo il prezzo del biglietto.
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Hijack – AppleTv+
Prendete una classica storia di dirottamento aereo ma cambiate una cosa fondamentale: i dirottatori. Non più la “classica” figura del terrorista islamico o extraeuropeo, ma un commando di persone inglesi che prende il controllo di un volo partito da Dubai con l’obiettivo di schiantarsi nel centro di Londra. Già così dovreste dare una chance a Hijack, serie AppleTV+ con protagonista Idris Elba, ma c’è molto di più. Intanto com’è costruita, perché la storia si dipana di fronte ai nostri occhi praticamente in tempo reale: sette puntate per sette ore di volo, cercando in questo modo di avviluppare lo spettatore in una spirale di ansia abbastanza riuscita, facendoci stare contemporaneamente sia sul volo che a terra, in mezzo a tecnici e politici che tentano in tutti i modi di trovare una soluzione. La serie si concentra non solo sul dirottamento, ma anche sulla vita dei protagonisti, che ovviamente non sono affatto quello che sembrano al primo sguardo. Le loro vite e le loro storie personali si intrecciano a doppio filo con quello che succede, rendendo ancora più drammatiche e movimentate le scelte di sceneggiatura. Con un paio di colpi di scena ben assestati l’attenzione non cala mai, impegnando il pubblico a capire il perché del dirottamento e tenendolo col fiato sospeso fino all’ultimo sul destino dell’aereo e di quelli che a terra guardano il cielo con il naso all’insù. Hijack è stata una delle migliori miniserie dell’anno: uscita in estate, è stata un po’ snobbata dal grande pubblico, ma se avete sette ore di tregua tra pranzi e cene festive, siamo sicuri che vi ritroverete a stringere i braccioli del divano come se fossero quelli del seggiolino di un aeroplano.
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Dead Ringers – Amazon Prime Video
Rachel Weisz è tra le attrici che non ha ancora ricevuto appieno il giusto merito per le sue capacità attoriali, nonostante le varie occasioni in cui ha dimostrato il suo talento. È certamente una di queste la serie Prime Dead Ringers (remake dell’omonimo film del 1988 di David Cronenberg), in cui l’attrice si sdoppia; qui interpreta le sorelle Beverly e Elliot, il cui rapporto morboso e asfissiante può apparire chiaro sullo schermo solamente grazie alle tante sottili sfumature di Weisz. Dead Ringers è una miniserie incentrata sul tema della natalità umana, su che cosa devono affrontare le donne quando si tratta del parto e in che modo la scienza può e vuole immischiarsi nel funzionamento di tale aspetto naturale. La serie è un thriller su due piani che si sviluppano in parallelo: da un lato ci sono le vicende personali delle sorelle, il cui rapporto subisce un profondo scossone all’arrivo di Genevieve, di cui Beverly si innamora; dall’altro poi c’è la parte più sociale, la formazione di una clinica per la natalità guidata dalle sorelle (ma con finanziamenti non sempre limpidissimi) e i limiti che le gemelle sono disposte a sfidare per quello che considerano il bene superiore. Dead Ringers è una serie molto potente sotto diversi punti di vista, capace di toccare alcuni temi profondissimi della coscienza umana, raccontando un mondo futuristico che ormai futuristico non sembra, e come le relazioni umane siano intensamente complesse e spesso intricate. La serie è consigliata quindi a chiunque, ma soprattutto a chi apprezza un racconto lento ma profondo su alcune tematiche di grande rilevanza nel mondo contemporaneo, e vuole farlo godendosi una recitazione di altissimo livello.
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Reservation Dogs – FX
Un titolo che cita apertamente un film cult – Reservoir Dogs di Tarantino – e una scrittura brillante compongono una delle migliori serie degli ultimi anni, sicuramente la più sottovalutata. Reservation Dogs, show creato da Sterlin Harjo e Taika Waititi, è importante per tanti motivi: intanto è il primo show in cui tutto il cast principale e la writers’ room sono composti da nativi americani, è ambientato in Oklahoma – terra d’origine del creatore Harjo, anche lui cittadino Seminole – e racconta una storia di formazione ambientata in una riserva indigena. Si tratta di una serie corale che, tuttavia, ha come personaggi principali quattro ragazzi adolescenti di età diversa che si fanno chiamare, per l’appunto, “Rez Dogs”: Bear (D’Pharaoh Woon-A-Tai), Elora (Devery Jacobs), Cheese (Lane Factor) e Willie Jack (Paulina Alexis). Al centro del racconto ci sono la vita e le difficoltà che i ragazzi affrontano crescendo nella riserva: in particolare sin dall’inizio della serie sono messi di fronte alle conseguenze della morte per suicidio di un loro caro amico, che sognava di fuggire in California. A dispetto da quello che potrebbe sembrare, il tono della serie non è puramente drammatico, ma ha il registro di una dramedy con un perfetto equilibrio tra parti leggere e divertenti e altre più riflessive e profonde. La terza – e ultima – stagione ha una scrittura impeccabile: ogni episodio è diverso dall’altro e tutti i personaggi ricevono la giusta attenzione ed evoluzione in vista della fine del loro percorso di caratterizzazione. In questa annata, in particolare, assume grande importanza la rivisitazione del folclore e delle tradizioni dei nativi americani, tra spiriti-guida – questi immancabili in tutta la serie – e altre creature soprannaturali che accompagnano e arricchiscono il percorso narrativo dei protagonisti.
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The Last of Us – HBO
Nata come adattamento televisivo dell’omonimo gioco del 2013, The Last of Us ha esordito quest’anno su HBO non senza una considerevole mole di dubbi da parte degli appassionati videoludici. Nonostante l’entusiasmo per il ritorno in voga di un gioco che ha quasi rivoluzionato la sceneggiatura videoludica, è davvero difficile riuscire ad adattare sul piccolo schermo storie e personaggi che sono stati inizialmente ideati per un medium così interattivo. Ci si chiedeva, insomma, se potesse mai essere possibile riuscire a trasferire quell’irresistibile immedesimazione che i videogiocatori provano senza l’interazione tipica dei videogiochi. Tuttavia, a dispetto di tutti questi dubbi, la nuova serie di Craig Mazin e Neil Druckman ha colto nel segno, riuscendo a prendere dal gioco tutti gli elementi più affascinanti e “universali”, tenendo sempre la rotta su ciò che di più umano è presente della trama del gioco. La cruda avventura di Joel ed Ellie – interpretati dagli ottimi Pedro Pascal e Bella Ramsey – è stata messa in scena con intelligenza e con uno spiccato rispetto verso il prodotto originale, visibile non solo in alcune scelte registiche pressoché identiche a quelle del gioco, ma anche e soprattutto nella capacità degli autori di riuscire a mostrarci una storia squisitamente umana: una storia di resistenza all’orrore e sulla peculiarità e complessità che i legami umani assumono quando sono inseriti in contesti così disperati e apocalittici. Questo spessore narrativo è riuscito a donare modernità a una storia ormai vecchia di più di dieci anni donandoci non solo momenti di azione avvincenti, ma anche frangenti di incredibile emotività, capaci di toccare temi profondi e di esplorare il concetto di moralità quando questo si scontra con un mondo ormai alla deriva. Si può dire senza troppi dubbi, insomma, che The Last of Us si è distinta quest’anno come il migliore adattamento televisivo di un videogioco mai creato fino ad ora.
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Blue Eye Samurai – Netflix
Era possibile replicare il successo e la qualità di Arcane? Fra tutte le piattaforme streaming, Netflix può spesso vantare una marcia in più nell’animazione nonostante l’agguerrita concorrenza, e Blue Eye Samurai è arrivata come un fendente della lama della protagonista: elegante, preciso, discreto, lasciando una copiosa scia di sangue. Ambientato durante il periodo Edo, in cui il Giappone chiude il suo arcipelago agli stranieri, lo show segue le vicende di Mizu, mezzo-sangue europeo-giapponese, nella ricerca di vendetta verso un padre sconosciuto colpevole della sua maledizione: essere a metà fra due mondi ed essere paria in entrambi. Una trama all’apparenza così semplice si rivela un racconto profondo e sfaccettato, costellato di personaggi memorabili. La vita dei protagonisti, con le sue convinzioni e certezze, viene scossa fino alle fondamenta con la delicatezza di un racconto davvero brutale, a cui è concesso di esprimersi e svilupparsi al meglio anche grazie alla lunghezza degli episodi, che si spingono ben oltre la ventina di minuti canonici concessa alle serie animate. Blue Eye Samurai è una storia fluida, dove i protagonisti affrontano con titanico coraggio una società che mette su un piedistallo tradizioni, apparenza e ruoli di genere, ma valuta una vita umana poco più che le lame forgiate per porvi fine. Blue Eye Samurai è una storia brutale, in cui i combattimenti fino all’ultimo sangue nascono come duelli d’onore e subito sfociano in lotte sanguinose dove il linguaggio del corpo esprime una volontà di vivere quasi disperata. Blue Eye Samurai è una storia che non basterà mai a chi si lascerà stregare dalla violenta eleganza delle sue scene e dalla feroce fragilità dei suoi personaggi. Grazie all’entusiasta risposta del pubblico, la serie è già stata rinnovata per una seconda stagione.
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Abbott Elementary – ABC
Sulla carta, Abbott Elementary non ha assolutamente nulla di diverso dalle decine di comedy-mockumentary che l’hanno preceduta. Ha una storia d’amore “dannata”, dei protagonisti cristallizzati che riusciranno a maturare in modo più o meno efficace, una “quest” stagionale che occupa i loro sforzi (in questo caso, la voglia di rimanere una scuola pubblica e non diventare una charter school). Eppure, Abbott Elementary è un successo proprio perché riesce a far bene senza virare dal canone tipico della comedy. La serie ha un buon tempo comico, degli ottimi protagonisti (tra tutti, la preside della scuola, Ava) e una storia semplice ma gradevole, che si fa seguire episodio dopo episodio senza risultare troppo ripetitiva. Fin dai primi minuti del pilot, Abbott Elementary si fa spazio nella routine settimanale dello spettatore, riuscendo a diventare un piacevole appuntamento fisso; non sarà mai portatrice di chissà quali novità nel mondo seriale, eppure riesce a colpire per la semplicità e la verità dei sentimenti espressi. La storia tra Janine e Gregory – la protagonista della serie e il nuovo supplente – può risultare prevedibile, eppure coglie appieno i lati positivi e i passi falsi di quanti l’hanno preceduta (Pam e Jimmy in The Office, Jake e Amy in Brooklyn 99), costruendo una storia che riflette i tempi moderni e il nuovo modo di vedere le relazioni: due persone che si piacciono, che sono consapevoli del loro vissuto e della crescita che ancora devono fare. E poi, la tenerezza con cui Gregory ammette a Janine di prendere i suoi consigli sul serio, proprio perché provengono da lei, è quel tipo di dolcezza di cui ognuno di noi ha bisogno nella vita di tutti i giorni.
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Beef – Netflix
C’era una volta una piccola casa di produzione cinematografica indipendente fondata da tre esperti del settore e chiamata A24 in onore di un’autostrada italiana che gli amici stavano percorrendo; questa piccola casa di produzione ha cominciato a investire in modo intelligente in film a budget contenuto ma con idee originali e con il tempo questo ha pagato portando addirittura a vincere un sacco di premi Oscar nel 2023 con Everything Everywhere All At Once. Oggi l’A24 è una casa di produzione importante e affermata e il fatto che fosse dietro la promozione della serie Beef ha attirato da subito molto interesse; per fortuna però lo show di Netflix creato da Lee Sung Jin è stato capace di farsi riconoscere e apprezzare per le proprie qualità e non solo per le firme importanti dietro la sua realizzazione. Si tratta infatti di una dramedy – la struttura e il tono sono quelli anche se alcuni episodi sforano il format dei canonici trenta minuti – con protagonisti assoluti Steven Yeun e Ali Wong, che interpretato rispettivamente il tuttofare fallito Danny Cho e la piccola imprenditrice Amy Lau, i quali si conoscono a causa di una lite in auto che pian piano deflagra in una vera e propria faida fatta di dispetti, vendette e ritorsioni dagli esiti inimmaginabili. Il tema principale dello show è la gestione della rabbia e il fatto che questo sentimento così esplosivo possa generare reazioni a catena tali da trasformare le persone e cambiare il corso delle loro vite, principalmente in negativo. Yeun e Wong sono dei protagonisti eccezionali perché interpretano due personaggi principalmente egoisti e antipatici, che trovano l’uno nell’altro la valvola di sfogo necessaria per far esplodere tutta l’energia repressa che accumulano nelle loro infelici esistenze individuali. Per questo e molto altro, Beef è una delle serie imperdibili di questo 2023.
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Our Flag Means Death – HBO Max
Our Flag Means Death torna, dopo un sorprendente esordio nel 2022, con una seconda stagione piena di humour e di avventure al 100% queer, colmando il vuoto lasciato dalla fine della prima annata. La narrazione riprende dalla rottura a cui abbiamo assistito nel finale di stagione fra Stede ed Ed, mostrandoci come i due capitani affrontano la crisi con metodi diametralmente opposti e l’impatto che questi hanno sui due equipaggi, con effetti tra l’esilarante e il terrificante. Nonostante il focus sulla coppia, la serie non si dimentica della sua anima corale, sfruttando le storyline di tutti i personaggi, sia gli storici membri degli equipaggi che i nuovi personaggi introdotti nella seconda annata, per approfondire e portare quasi a una naturale conclusione i temi affrontati nella prima stagione: il bisogno di comunità e la ricerca di se stessi. Ogni incontro, ogni saccheggio e ogni battaglia rappresentano per i protagonisti un passo verso una maggior consapevolezza di sé, dei propri bisogni e necessità, anche se in alcuni casi può significare rinunciare a una parte di sé che si riteneva fondamentale. In completo stile Our Flag Means Death, i personaggi e i temi trattati si spogliano dei tipici stereotipi di genere, mostrandoci che è possibile creare tensione senza sfruttare i soliti trope delle rom-com, come la cattiva comunicazione, e allo stesso tempo dando spazio a una maggiore libertà di espressione della propria sessualità e identità di genere. Anche con questa seconda stagione Our Flag Means Death ci presenta un nuovo modo di fare commedia e di raccontare l’esperienza umana che trascende l’epoca storica, facendo emozionare e divertire il pubblico; una stagione da recuperare assolutamente.
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The Fall of The House of Usher
Un racconto horror che ci proietta in una dinamica familiare più complessa e sinistra di quello che sembra: questo è ciò che troviamo in The Fall of the House of Usher, miniserie firmata Mike Flanagan e ispirata all’omonimo racconto di Edgar Allan Poe. Una vicenda corale, che dedica spazio a tutti i suoi personaggi e in particolare ai figli di Roderick Usher, i quali perdono la vita in modi tanto tragici quanto sospetti. Nel corso degli episodi vengono approfonditi gli oscuri intrecci familiari spingendo a una riflessione sull’incontro tra dimensione domestica e crudeltà umana, quando egoismo e sete di potere la fanno da padroni in un contesto che dovrebbe essere il più sicuro per ognuno, e che qui si trasforma in un’inevitabile trappola. Più si entra nelle vicende degli Usher, più si intuisce che dietro al lusso si nasconde un prezzo ben più alto da pagare, determinato proprio dai capifamiglia. Roderick narra la storia – attraverso l’escamotage di un intimo dialogo con un vecchio amico – e sempre più appare tormentato dall’accaduto e da raccapriccianti visioni sui figli; abbiamo così una storia di famiglia amara con un’estetica macabra ben curata, che rimanda certamente a quella di Poe, con toni scuri e atmosfere cupe. Le scene si fanno via via più terrificanti e accompagnate dall’onnipresente alone di mistero, tenendo ben saldo il filo della narrazione: ogni episodio rende più chiaro il destino degli Usher, segnati da una maledizione incancellabile di cui solo alla fine della miniserie viene svelata l’origine. Puntata dopo puntata l’attenzione resta alta e sempre più si desidera arrivare alla scoperta della verità sulla tragica fine della famiglia, attraverso episodi che scorrono velocemente nonostante la lunga durata, e una narrazione che lascia con il fiato sospeso contribuendo all’ottima resa del prodotto, che si attesta sicuramente come ben riuscito.
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Cunk On Earth – BBC Two
Quando si parla di Charlie Brooker, la mente va inevitabilmente subito a Black Mirror, una delle serie più influenti degli ultimi anni, trasmessa sula BBC e che, grazie al ritorno targato Netflix, ha raggiunto ogni angolo del pianeta. Brooker, però, non si limita a riversare la sua vena creativa nel declinare il nostro difficile rapporto con la tecnologia, reale o meno che sia, ma ha voluto anche raccontare la nostra contemporaneità, con un tono molto più ironico e dissacrante; prima con Death to 2020 (arrivato su Netflix), e poi con la serie di cui vi vogliamo parlare, lo splendido mockumentary Cunk on Earth (della BBC ma arrivato da noi su Netflix). La premessa è molto semplice: seguendo la giornalista tutt’altro che professionale e informata Philomena Cunk – interpretata da una fantastica Diane Morgan – scopriamo la storia della civiltà umana. Insomma, immaginiamoci un Alberto Angela che usa come fonte primaria Reddit mentre ci racconta la vita di Giulio Cesare. Il risultato è ovviamente esilarante, con gag di altissimo livello, una narrazione appassionante che, nonostante gli innumerevoli elementi di finzione, riesce incredibilmente a dare una rappresentazione accurata della natura umana, grazie allo sguardo a tratti ingenuo ma sempre onesto di Philomena. Ciò che rimane di più, però, sono le interviste di Philomena, che si trova faccia a faccia con ricercatori ignari (in teoria) del suo ruolo di attrice, che cercano di mantenere un minimo di professionalità di fronte a domande che farebbero perdere la pazienza a chiunque – un po’ come succedeva con i Borat e Ali G di Sasha Baron Cohen. Cunk on Earth è quindi una serie da non perdere, un piccolo gioiello che dimostra come il mockumentary possa ancora offrire qualcosa di fresco ed estremamente godibile.
Due serie mi hanno particolarmente colpito quest’anno seppur la loro produzione sia cominciata anni fa e non sia ancora conclusa, l’action drama israeliano Fauda che, fra una sparatoria e l’altra, fa trapelare tante sfumature e piccole preziose verità sul conflitto israelo-palestinese drammaticamente riesploso lo scorso 7 Ottobre (Netflix) e il nostro teen drama Mare Fuori che nonostante uno stile naive e il mio essere decisamente fuori target, mi ha letteralmente conquistato (RaiPlay).
Con l’occasione vi auguro uno splendido anno nuovo, che spero ricco di tante nuove e belle serie (nonostante gli scioperi dei mesi scorsi…) e ancora grazie, davvero grazie per tutto quello che fate e per come lo fate.
Grazie a te Boba Fett, per i consigli e per le bellissime parole, grazie di cuore da parte di tutta la redazione! E buon anno anche a te! ?
A parte per Abbott elementary che trovo abbastanza banale e non molto divertente, il resto lo condivido appieno!