Glee: quando il gioco si fa bullo, i losers cominciano a cantare 2


Glee: quando il gioco si fa bullo, i losers cominciano a cantare

I talenti sottovalutati, gli sfigati patologici, le cheerleader e i giocatori di football combattuti tra ansia di popolarità e bisogno intimo di esprimersi sono i protagonisti di questa barca di soldi pluripremiata.
Glee è una vera e propria musical dramedy, dove un annoiato professore liceale prende le redini del club che dà il nome alla serie, ovvero il coro di un liceo americano, seguendo la scia dei suoi sogni sfumati.

La ri-rivincita degli sfigati si compie ricalcando gli stilemi del musical classico, con il gruppo protagonista che ritorna vincente e coeso (quasi) ad ogni batosta.
L’anthem di trasporto “Don’t stop believing”, originariamente eseguita dai Journey, rappresenta la speranza soffusa a cui i protagonisti si aggrappano, per non soccombere sotto i quintali di granite lanciate loro in faccia dai bulli di turno. Questo senso di riabilitazione canora di gruppo, generata dalla sofferenza individuale, pervade tutta la serie, anche se i temi e le reazioni sono vari e non trovano sempre sfogo sul palco.

Cantarci su va bene, ma serve altro.
Glee è un fenomeno sui generis: fenomeno per il riscontro spettatoriale ed economico (la prolificazione di elementi vendibili tra singoli, biglietti per i concerti, gadget, pseudo-libri ecc. ricorda l’espansione pop dei Simpsons), “sui generis” per la commistione di caratteristiche appartenenti a generi e forme audiovisive differenti.

Ci sono tutti gli ingredienti necessari ad un’ottima commedia: dal villain cartoonesco (l’incommensurabile allenatrice delle cheerleader, interpretata dalla scene-stealer Jane Lynch) alle battute geniali. C’è la purificazione degli animi attraverso la musica, tipica del cinema musicale. In più gli stereotipi dei teen drama, a volte distrutti e riabilitati sotto una nuova luce. Ci sono le guest star che richiamano continue attenzioni, una scrittura brillante a sprazzi e un continuo barcamenarsi tra scene rincuoranti e rassicuranti, momenti grotteschi da rotolarsi dal ridere e relazioni amorose di cui a me personalmente non può fregare di meno, ma che rendono i personaggi più sfaccettati e non solo alla ricerca di un cono di luce che possa nutrire la loro necessità di apparire o essere accettati.

Poche serie sono capaci di commuovere e far ridere con tanta facilità e, soprattutto, non esistono antenati televisivi di Glee: le sue radici sono a Broadway, o nel cinema musicale.
A questo proposito le performance musicali si dividono in realistiche, semi-oniriche e completamente oniriche, ovvero immaginate come nei musical più classici. Quanto ci piace quando una cover ha inizio nell’aula delle prove, solo per abbattere quelle mura ed espandersi in tutto il suo calore emotivo all’esterno, dove gli spettatori possono scrutare i sentimenti più profondi dei protagonisti, senza intaccare i dialoghi diegetici con confessioni troppo trasparenti (non c’è esempio che possa fare senza rovinarvi la scena).

La fotografia patinata e il montaggio serrato rendono la serie solare e scoppiettante e si dà una scossa alla tipica staticità della regia seriale, ricorrendo solo saltuariamente a coreografie e scenografie barocche o labirintici movimenti di macchina.

Il citazionismo pop è un’arma a doppio taglio che non accontenta sempre e tutti.
Purtroppo il successo sensazionale di Glee ne ha un fatto un prodotto mainstream dalla frenata originalità. Di tanto in tanto vengono a patti con star dalla dubbia qualità, che vengono omaggiate a più riprese per accontentare i fruitori di itunes, Mtv e le top40 in generale, con la scusa che i protagonisti sono adolescenti contemporanei e quindi ascoltano un certo tipo di produzioni fecali. Il che significa che ogni cover di Rihanna è una cover di troppo. La percentuale di esibizioni ragionate e intrecciate con gli avvenimenti si è abbassata già dal primo hiatus della serie, dal quale sono ritornati festosi con un intero episodio dedicato a Madonna, nell’Aprile 2010.

Ma non lasciamoci ingannare da così tanta poppezza (o poppietà), perché gli autori di Glee (Ryan Murphy, Ian Brennan e Brad Falchuck) saranno dei gran paraculi, ma sanno scrivere, sanno divertire e, soprattutto, non perdono mai di vista l’intento primario di Glee che, incredibilmente, non è vendere per la Fox, ma celebrare l’importanza dell’arte e del suo insegnamento, della musica e della danza come forme d’espressione sublimi (nonostante varietà e reality show ci vogliano abituare al contrario).
Qualche domanda in più sorge quando si dedica un intero episodio a Britney Spears senza che nessuno ne senta il bisogno, a parte la sua immagine in cerca di riabilitazione.

I momenti più riusciti (e più usuali, per fortuna) sono quelli dove si riesce a dare forza ad un sentimento attraverso l’esibizione, che quindi diventa sublimazione performativa degli eventi e non solo riproduzione musicale fine a se stessa (e di esempi da farvi ce ne sarebbero a valanghe).
Glee non è una serie (esclusivamente) per teenager né per omosessuali, come i simpaticoni coi paraocchi si ostinano a sostenere. L’atteggiamento “camp” è innegabile (il gioco sui limiti di gender) ma l’umorismo di Glee, come le altre componenti, ha diverse sfumature, capaci di divertire e appassionare chiunque.
Il musical è stato una volta il genere per eccellenza e, nell’era post-oro e post-lost della televisione, in cui le serie “di genere” tornano alla ribalta, si prospetta come una delle opzioni più interessanti e sincretiche. Siamo sicuri che ci interessino ancora le serie con i soliti poliziotti eroici o quattro adolescenti alla ricerca della verginità perduta?

Glee offre molto di più e, se il prezzo da pagare è sopportare le cover di un “artista” osceno di tanto in tanto, allora ne vale proprio la pena.
Per chi dunque avesse avuto dei dubbi: sappiate che Glee non è High school musical, ma ha una profondità maggiore e un messaggio più complesso, tra la tolleranza, l’amicizia e l’esorcismo musicale del dolore. Allo stesso modo il processo per arrivare a quel messaggio è più che coinvolgente, ammesso che non siate dei metallari irremovibili.

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2 commenti su “Glee: quando il gioco si fa bullo, i losers cominciano a cantare

  • Eus Fey

    Ti ringrazio. Quel dai “13 in su”, a mio avviso, è quello su cui gli autori dovrebbero concentrarsi, di tanto in tanto scadono nel cliché di una serie SUI teenager PER pre-teenager.