Tutti vorrebbero essere Don Draper. E’ vero, nelle scorse stagioni l’abbiamo giudicato, ci siamo chiesti che fine stesse facendo, quale spinta autolesionista potesse portarlo ad essere rappresentato perfettamente da quell’omino in caduta libera della celebre sigla. Eppure c’è sempre stato qualcosa di magnetico nel suo comportamento, qualcosa che trascendeva le sue azioni in quanto tali.
Lo capiamo ancor di più ora, davanti ad un Pete che sembra voler percorrere la stessa strada segnata dal predecessore e che comunque non ci conquista come fece un tempo Don; certo, non ha lo stesso fascino, ma non credo sia solo questo il punto.
I have it all/I have nothing, Don.
Nel giro di pochissimo tempo, una giornata, Pete passa dalla finzione della prima affermazione, rivolta ad un Don in (apparente, ribadisco) pace con l’universo e che proprio per questo irrita il nostro Campbell, alla verità disarmante della seconda frase, rivolta sempre alla stessa persona: quella che gli aveva detto di non rovinare quanto di bello poteva avere nella sua famiglia.
Ma come ci ricorda Ken Cosgrove Ben Hargrove Dave Alconquin sul finale di questo episodio, forse è proprio la vita in campagna ad averlo reso così: forse sono proprio quel silenzio e quella solitudine che gli fanno percepire tutto come troppo ordinario, troppo simile a qualcosa di così bello che per contrasto diventa invivibile.
Il problema è proprio questo: la vita di Pete è diventata ordinaria proprio quando lui ha sentito la necessità di essere visto, di essere notato dal mondo e stimato da questo. Seguire le orme del vecchio Don (che ha sempre avuto successo dappertutto, come anche Roger ci ricorda in questa puntata), avere un modello ed essere da lui accettato e riconosciuto sarebbe qualcosa di totalmente fuori dall’ordinario, che lo identificherebbe come uno diverso dagli altri perché depositario di un quid che non appartiene a tutti.
Ma vivere due vite, essere due persone diverse è devastante, oltre che terribilmente difficile: è complesso stabilire quali siano i limiti ed uno come Don, che a vivere nel nome di un altro si era già abituato da tempo, è riuscito a cavarsela proprio per questo motivo. Don non voleva avere una doppia vita per aspirare a ciò che non aveva nella sua: lui riconfermava quella scelta tutti i giorni perché per lui era un’esigenza senza domanda; Pete non è così. Lui vuole il riconoscimento che nessuno sembra avergli mai dato ma, lungi dal procurarselo come la maggior parte delle persone, punta i piedi come un bambino arrabbiato ed arrogante. L’evoluzione compiuta in questo episodio, la strada che parte dall’inizio con la soddisfazione di aver riparato il lavandino e finisce con il crollo della sottile impalcatura da lui eretta per stare in piedi, è davvero poetica come solo Dave Alconquin sa esprimere. Perché se Beethoven ha composto la Nona Sinfonia in condizioni pessime, Pete invece non conclude granché pur partendo da presupposti “troppo belli da sopportare”. Questo fa piangere Coe, e come dargli torto.
L’immagine dell’uomo anni ’60 (quello che non si alzerebbe mai a sparecchiare – non sia mai! – ma che ha nella fisicità opposta alla debolezza del gentil sesso la massima espressione della virilità) crolla costantemente davanti agli occhi di Pete: che sia davanti ad un Don in versione “uomo-di-casa-salva-lavandini” che distrugge il lavoro orgogliosamente fatto durante la notte precedente; che sia l’accenno della prostituta alla sua forza fisica (“Do you think you could lift me? That’s what I thought. You’re one of those guys who’s stronger than he looks”), demolita sia dalla prestanza fisica del più giovane Hanson/Handsome, sia dai pugni di una persona ben più vecchia di lui (e per di più inglese!) come Lane; ma soprattutto crolla il mito di Don Draper, che è per lui fonte di ispirazione per questa distorta ricerca di sé, ma che ormai sembra essere avviato al passo successivo, quello della presa di coscienza di quanto il baratro raggiunto sia stato profondo. Ecco perché Pete si arrabbia con Don, perché ora che si comporta come lui (o almeno lui crede sia la stessa cosa) Don non è lì a battere le mani.
Let me tell you, when this job is good, it satisfies every need. Believe me, I remember.
Se c’è una cosa che Mad Men sa fare bene è tratteggiare dei personaggi non necessariamente coerenti nei loro comportamenti, dato che l’essere umano è l’esatto opposto. Così, se qualche settimana fa potevamo simpatizzare con Pete e deprecare il comportamento di Roger da “attaccamento-alla-poltrona-senza-meritarsela-da-un-pezzo”, in questo episodio anche noi come tutto l’ufficio – ce lo ricorda proprio Joan ora che è tornata a lavoro – vorremmo prendere a pugni Pete; in compenso, Mister Sterling risulta – oltre che come sempre esilarante per certe uscite – oltre il passo stesso del fallimento. Spiace sentirlo dire “Now I guess I’m professor emeritus of accounts” come se fosse un contentino che si riceve quando non si è più in grado di svolgere bene la propria professione; e personalmente mi ha colpito quel “That was generous” rivolto a Pete quando lo coinvolge per la cena con Edwin Baker della Jaguar, come se avesse capito che ormai ha ben poco da chiedere.
La vita di Roger è ormai questa: insoddisfazione a lavoro e a casa nella sua ottica, depressione secondo l’occhio clinico di Don. Ma passando proprio a quest’ultimo: come sta davvero? Perché io continuo a dire che vederlo come appagato e in pace con l’universo non sia per nulla sensato: certo, riesce a parlare più del suo passato e riesce addirittura a pronunciare ad alta voce il suo vero cognome in relazione agli omicidi compiuti da Charles Whitman (e settimana scorsa l’assassino era un certo Dick… non mi stupirebbe se gli autori avessero previsto tutto), ma disegnare un cappio sui propri appunti durante una riunione fa più dipendente con un lavoro orrendo che non capo di un’azienda. Gli rimane la casa, il ruolo di marito che si toglie la camicia – divinamente – e ripara lavandini, e una moglie giovane abbastanza da accettare di avere un figlio (richiesto, però, in palese stato di ubriachezza e non so quanto sia vero che in vino veritas). Sembra che si comporti bene perché ha capito che è la cosa giusta da farsi, ma comprendere qualcosa razionalmente e buttare ciò che si prova fuori dalla finestra non è esattamente quello che farebbe una persona risolta.
I just seem to find no end to my humiliation today/Well, I decided to fly under the radar
Ciò che in questa puntata accomuna due personaggi così diversi come Lane e Ken è il loro approccio ad un’identità che non è quella che il mondo si aspetta da loro.
Lane, ad esempio, è alla costante ricerca del nuovo e viene sempre più trascinato indietro da una moglie che non riesce in alcun modo a staccarsi dall’Inghilterra; quando gli si presenta l’opportunità di gestire la Jaguar come cliente, ci prova ma fallisce miseramente. Certo, le cose non sono andate bene neanche gestite dal trio Draper/Sterling/Campbell, ma Lane non riesce comunque ad imporsi per il suo valore: gli rimane solo una scazzottata con cui provare la sua superiorità e un mucchio di domande sul suo ruolo nell’azienda. Quel bacio a Joan, durante un dialogo che fa il paio con quello della premiere, è più una richiesta d’aiuto e la nostra rossa lo capisce benissimo.
Ken scrive ancora storie, come ci viene raccontato, e decide saggiamente di non dire a nessuno di questa sua seconda attività: e passi per l’amica con cui hai un patto di lavoro (e che bella scoperta questa alleanza con Peggy!), ma la moglie orgogliosa (“Cynthia!”) che vuole raccontare a tutti di quanto sei bravo proprio non puoi gestirla. Da lì è un attimo: Roger lo viene a sapere – si dà per scontato da Pete, ma se fosse stato Don? – ed ecco che Ben Hargrove deve morire. La fine di Ken poteva essere triste come quella di Lane, non più in grado di riconoscersi e perso davanti alle sue incapacità: invece nasce Dave Alconquin, che lavora di notte e che sfrutta proprio quel Pete così massacrato dagli eventi (e non solo) per costruirci sopra qualcosa.
Un’altra puntata incredibile per Mad Men, che porta avanti questo inizio di quinta stagione sopra ogni aspettativa. La regia di John Slattery si fa apprezzare per alcune finezze in genere non presenti nella serie, come un raccordo sull’apertura di due porte o la dissolvenza incrociata sul volto di Pete: particolari, certo, che però hanno reso questo episodio qualcosa di ancor più memorabile proprio per la volontà di non voler proporre sempre un unico stile.
L’attenzione all’aspetto psicologico e all’inconscio, da sempre presente in Mad Men, tocca qui una delle sue vette più alte e per questo non si può che ringraziare la serie per essere tornata.
Voto: 9 (doveva essere 8 ½, ma con quel finale lì come si fa a non dare almeno 9?!)
Note:
– Il titolo Signal 30 si rifà al filmato che vede Pete a lezione di scuola guida, basato su scene di veri incidenti stradali che dovrebbero fungere da deterrente per qualunque follia dietro al volante. Il documentario è stato realmente creato nel 1959.
– L’angolo dell’approfondimento storico.
Il tema della macchina, ben presente in questo episodio, viene richiamato anche da un fatto di cronaca che si ricollega proprio al tema della sicurezza in strada: come si racconta anche qui, la Jaguar era appena stata ceduta alla BMC (British Motor Corporation); quello che non si dice è che uno dei fondatori, Lyons, aveva preso questa decisione – pur rimanendo alla guida dell’azienda – perché la successione rappresentava un problema, a causa della morte del figlio avvenuta per un incidente stradale.
[rps]
Leggere la recensione su Seriangolo dopo aver visto un episodio di Mad Men è ormai una necessità… Davvero complimenti per tutte le sfumature che sapete cogliere e per gli spunti offerti.
ma grazie! son contenta che ti sia piaciuta!
alla prossima allora! 😉
Complimenti, le tue recensioni si fanno sempre notare per l’attenzione ai dettagli (che in Mad Men sono fondamentali) e per la sensibilità emotiva. Continua così.
grazie oiT! =)
Grande recensione, riesci a dare un nome alle tante situazioni tra le persone senza dimenticare di inserirle nel periodo storico a cui appartengono. Brava!!
Comunque, questa 5° stagione mi sta colpendo molto, le dinamiche che ruotano attorno a Peggy, la figura più in crescita di questo inizio, anche storicamente idealizzata come la crescita della donna nel lavoro.
Mi sorprende molto l’assenza di Don, di quello conosciuto fin’ora almeno, la sua noncuranza sul lavoro,la pacatezza ,la passiva accettazione, e non mi convince più di tanto che si tratti solo della “honey moon” ,anche le espressioni del viso, le smorfie, gli sbuffi di noia ( anche nei confronti della giovane moglie) mi fanno pensare che ci sia dell’altro sotto. ( crisi di mezza età? Paura della morte?)
Capitolo Peter. Gli uomini della mia età capiscono benissimo quello che gli sta accadendo, quello che hai non ti basta più e bruscamente ti rendi conto che il tuo tempo è passato, che non sei adatto, che sei rimasto indietro ma ormai non si può fare nulla. Il confronto con Don è imbarazzante, i silenzi sul taxi nel ritorno dal party sono eloquenti, le smorfie di Don alle provocazioni di Peter anche.
Vedremo, intanto mi sono gustato questo 5° episodio, concordo sul voto finale, non si può dare di meno
grazie massimo!
son d’accordo con te per quanto riguarda don, a me tutta questa sua tranquillità non convince per niente, anzi, la trovo quasi inquietante. sì, forse una crisi di mezza età, ma dovuta principalmente ad una vita di eccessi dalla quale cerca di uscire ma senza aver compiuto davvero il percorso necessario per farlo.
Su Peter… beh, il confronto con Don è davvero impietoso nei suoi confronti. Se Don era una figura estrema, lui ne rappresenta una copia riuscita male, quasi una parodia.
Comunque se va avanti così questa stagione vince qualunque premio di qualunque universo..