“Physicians generally should not treat themselves or members of their immediate families. Professional objectivity may be compromised when an immediate family member or the physician is the patient;[…]” (Code of Medical Ethics).
Traduzione: “I medici generalmente non dovrebbero trattare se stessi o membri della propria famiglia. L’oggettività professionale potrebbe essere compromessa se un parente stretto o il medico stesso è il paziente”.
Ci stiamo avvicinando alla fine della serie e, con la puntata precedente “Body and Soul”, House M.D. decide di giocare la carta imprevista della malattia di Wilson. Dopo averci fatto sospettare per parte di questa stagione che il vero malato potesse alla fine essere proprio Greg, le carte in tavola vengono completamente ribaltate e si decide ci colpire il nostro protagonista non sulla salute – per la quale ormai la sua corazza è già inspessita da tempo – ma sul suo punto più debole: l’amicizia con Wilson, quel sottile non detto che ci ha sempre fatto capire che, senza l’uno, l’altro non può esistere.
L’intera vicenda viene mostrata, questa volta con grande maestria, connessa al “caso della settimana”: spesso abbiamo visto come il paziente di turno fosse solo funzionale a far riflettere le varie persone del team o più semplicemente ad introdurre tematiche importanti (fede vs. scienza, per dirne una). Questa volta le due parti della puntata, quasi del tutto slegate tra di loro se si escludono pochi riferimenti da entrambe le parti, sono accomunate proprio da quel codice medico riportato in apertura: cosa succede quando un dottore tratta un familiare o se stesso? Si presentano qui tre casi: la madre della bambina, che si è dedicata anima e corpo allo studio del caso di sua figlia; Wilson e se stesso; Greg e Wilson (che non saranno parenti, ma poco ci manca).
I’m here as a doctor
Sono tre variazioni sul tema, che però ci fanno capire come l’obiettività e il coinvolgimento non riescano a convivere in nessun caso in un modo risolto, ma solo in un eterno conflitto che porta a decisioni rischiose e potenzialmente letali.
La madre di Emily ha sviluppato un distacco tale da permetterle di curare la bambina come paziente a scapito di tutto il resto: quando il padre fa l’elenco di tutto ciò che lei non sa della figlia, Elizabeth risponde con una lista di dati scientifici che sicuramente avranno contribuito a tenere in vita la bambina, ma che certo da soli non possono bastare. Il confine tra le due parti – coinvolgimento e obiettività – viene usato invece come arma, quando Elizabeth, davanti al team, prende delle decisioni mediche scavalcando gli altri, perché per le sue scelte ha bisogno del consenso dei genitori e lei se lo dà da sola (“As a doctor, I need a parental consent. See above”).
Alla fine le condizioni di partenza saranno quasi totalmente ribaltate, soprattutto a causa del tentativo di sperimentazione che Elizabeth ha condotto sulla figlia: quale medico, quale ricercatore consiglierebbe ad un paziente una nuova cura che è stata testata solo su una persona? Nessuno. Ma un genitore per un figlio fa qualunque cosa, ed ecco che di nuovo il confine labile viene scavalcato: non importa quanto Elizabeth cerchi di essere obiettiva, non importa quanto possa urlare ai quattro venti “I’m here as a doctor”: lei è prima di tutto una madre e questo l’ha portata a prendere decisioni non ponderate, a scapito della stessa Emily. L’ha protetta come paziente, facendole evitare tutti quei posti che avrebbero potuto farle del male, ma si è dimenticata come madre che quella davanti a lei è una bambina, con tra l’altro poco da vivere; al contempo, il suo essere genitore l’ha fatta comportare da pessimo medico: da entrambe le parti, non c’è vittoria. C’è solo la possibilità, intravista nel finale, di permettere all’altra metà della coppia, il padre, di ricordarle tutte le cose di cui Emily ha bisogno e che non appartengono alla sfera medica: andare all’acquario, giocare alle giostre, buttare via i pinguini che causano brutti sogni. L’unica vera via è il compromesso e, se questo non è possibile all’interno della stessa persona, allora è necessario essere in due.
I’m not here as a doctor
Se la madre di Emily, dichiarando di essere in ospedale come dottore, finisce con essere più vicina ad una madre che non ad una scienziata, House inizia il suo percorso nel modo che più di tutti può avvicinarlo a Wilson: “non sono qui come medico”, come a dire “non sono qui per cercare di risolverti come un qualunque altro paziente, sono qui per starti vicino (nel mio personalissimo modo)”. Diventa molto presto chiaro che anche qui le due parti, quella di amico/parente e di dottore, si mescoleranno in quella che sarà una notte dura e soprattutto dai risvolti imprevisti.
Wilson è un oncologo che per la prima volta nella sua vita prova sulla sua pelle quello che i suoi pazienti sentono tutti i giorni; non importa per quanti anni abbia svolto il mestiere, perché è solo in quel momento che capisce esattamente cosa voglia dire sapere di avere “the c-word”, quel cancro che ancora oggi spesso viene chiamato così perché la parola sembra racchiudere in sé la malattia, il tabù, l’impossibilità dell’accettazione.
Quando un medico cerca di curare se stesso, è il caos: non accettando alcuna soluzione proposta da altri – quelle stesse che lui avrebbe consigliato ai suoi pazienti – Wilson decide di prendere la strada più dura, bombardandosi di chemioterapici per ridurre il più possibile il tumore, ma con il rischio di rimanerne ucciso. E House, che come sempre capisce molto in fretta la situazione, si ritrova a fare esattamente quello per cui non era arrivato: sarà il suo medico, sarà lui a seguirlo in questo viaggio che potrebbe essere l’ultimo, ma che potrebbe anche essere il primo passo per salvarlo.
Greg si sacrifica per lui, rischiando penalmente in caso di insuccesso della procedura, dandogli tutto il suo Vicodin e sentendosi chiamare nel peggiore dei modi da un Wilson molto più vicino all’inferno di quanto si aspettasse. La terapia ha un buon successo – ma non pensiamo che sia tutto risolto, è stato solo il tentativo di ridurre il tumore ad aver funzionato e non sappiamo ancora in che termini, sappiamo solo che non l’ha ucciso; li vediamo tornare in reparto insieme (Wilson in una forma un po’ troppo buona, ad essere onesti), con un’espressione da parte di entrambi che sembra davvero dire tutto. Il finale è esilarante nella sua follia commovente: l’idea che Greg abbia organizzato una festa mentre il suo migliore amico rischiava la morte si apre a tante di quelle analisi da poterne parlare per giorni, ma qui poco importa. La risata finale di Wilson, davanti a quella follia così irrispettosa eppure così fraterna, è uno dei migliori finali di puntata di sempre.
Un plauso va a Robert Sean Leonard, davvero magistrale in questo episodio, e a Hugh Laurie, non solo nelle sue vesti di attore ma anche in quelle di regista: alcune scelte davvero apprezzabili, come le inquadrature inquietanti dei cavalli alle giostre, si mescolano ad una profondità introspettiva nuova, che indaga i volti dei due amici quando stanno per prendere la decisione che potrebbe cambiare le loro vite per sempre, andando sempre più vicino, quasi a scrutare i veri pensieri che si muovono nelle loro teste.
Puntata particolare, eppure costruita benissimo sotto tutti i punti di vista: non sappiamo ancora dove porteranno gli eventi apertisi in questa puntata, ma sappiamo con certezza che House M.D. chiuderà con il botto.
Voto: 8 ½
Note:
– Il caso di Emily viene risolto da Chase nello stesso modo in cui vengono rappresentate le scoperte finali di House: non è la prima volta, certo, ma che sia lui il leader del gruppo mi sembra ormai indiscusso.
– C’è un errore di allestimento nell’ufficio di Wilson: se, durante la discussione con House, vediamo il poster di Vertigo a destra rispetto alla scrivania, sul finale troviamo di nuovo Touch of Evil, mentre Vertigo è su un’altra parete. Se non volete farvi beccare, non usate film così famosi!