Time zones reali ad indicare la differenza di fusi orari – perché se Don Draper rappresenta la serie e ora lui è bicostal, allora dobbiamo considerare tale anche quest’ultima stagione. Ma anche time zones metaforiche, che distorcono il tempo e che sono capaci di trasformare quanto di stabile c’era fino a due mesi prima, rendendo la realtà un quadro quasi incomprensibile e destabilizzante.
Nell’ultima puntata, in quel season finale che ha cambiato per sempre il volto di Don Draper per come lo abbiamo conosciuto, si respirava un’aria di positività per tutti i personaggi e anche per il protagonista – che, pur licenziato dalla sua agenzia e in apparenza abbandonato dalla moglie, aveva trovato finalmente il modo di ricongiungere le sue due parti più distanti e di farlo in nome di se stesso e dei suoi figli. Sono passati due mesi da quel momento, e questa premiere non fa che ribaltare continuamente il messaggio con cui ci aveva lasciato: i fatti non stanno più come nel season finale, anzi, sono cambiate più cose in questi due mesi che in qualunque altro gap temporale tra una stagione e l’altra.
Do you have time to improve your life?
Ci viene chiarito sin da subito, quando la grande attesa di vedere Don in compagnia, perché no, di Sally e a questo punto anche di Dick Whitman, viene disattesa da Freddy Rumsen che ci illustra, guardando noi che stiamo sul divano e che aspettiamo di vedere qualcun altro, una nuova proposta che parla proprio del tempo. Ma si tratta di una pubblicità che soprattutto (come scopriremo poi o come potremmo capire se solo ascoltassimo con più attenzione) è proprio scritta da Don, che però, come ormai abbiamo imparato, non è più quello che pensavamo di conoscere; non è più solamente Don. Quindi è normale che qualcuno ne prenda il ruolo parlando al posto suo; è normale che lo faccia parlando proprio di time, di quel tempo che così tante cose ha cambiato tra un Natale, un Super Bowl e quasi una Pasqua.
Aspettavamo Don perché era il centro del cambiamento: e invece lui arriva dopo ben sette minuti nei quali vediamo il mutamento degli altri, che sono tutti in luoghi (reali o meno) diversi da quelli in cui li avevamo lasciati. C’è una sincera e brutale schiettezza nella descrizione di quelli che sono rimasti, tale da lasciarci disorientati; e c’è invece, nel racconto che gira attorno a Don, il tentativo costante di mostrarci “come le cose siano sempre le stesse” salvo poi virarle all’ultimo, non permettendoci di capire cosa stia avvenendo e in che direzione stia andando davvero il suo cambiamento. La contrapposizione di questo episodio con la precedente premiere, quella The Doorway che diede inizio al percorso infernale di Don, è rimarcata per tutti i personaggi più importanti attraverso paralleli sottili, ma non per questo irrilevanti nel significato. E se la puntata stessa aspetta a mostrarci Don, forse è giusto anche qui partire dagli altri e dai loro cambiamenti inaspettati.
And I think you’re putting me in a position of saying “I don’t care what you think”.
La SC&P per come la conoscevamo non esiste più: Ted ci lavora ma da tutt’altra parte, Don è stato mandato via, Bert non compare nemmeno nella premiere e Roger dal lavoro sembra mancarci da un pezzo. Rimangono i Partners, genericamente intesi, e una schiera di persone che non sono nel luogo dove dovrebbero essere.
Tolto Pete (che pare l’unico ad essersi finalmente ritrovato ma non a caso sotto altre vesti – che no, non saranno hippie come dice Don, ma sono effettivamente diverse), tutti gli altri appaiono insoddisfatti, circondati da una cappa di angoscia e di impotenza che in questa premiere desolante toglie davvero il fiato. La speranza di goderci un po’ la visione di Peggy “direttore creativo ad interim” ci viene letteralmente soffiata sotto il naso, e non solo: il nuovo Don – che altri non è che uno della vecchissima scuola, uno che se ne frega di quello che dice una collaboratrice, soprattutto se donna – è apparentemente il responsabile di una certa stasi creativa del reparto (“Accutron is accurate”).
E se Peggy in The Doorway era copy chief alla CGC e la sua esistenza pareva procedere perfettamente, con un nuovo mentore e una nuova vita davanti a sé, qui ci appare oppressa da quelle che sono state le decisioni degli altri: il trasferimento di Ted, la casa in cui vive per colpa di Abe, il comportamento di Don, che ha portato al suo allontanamento e alla sostituzione da parte di Lou Avery; nessun mentore, ma neanche un collega che lotti con lei per ottenere qualcosa che abbia ancora senso. Davanti a tutto questo, il pianto finale, in ginocchio in quella casa che non le appartiene e in cui non ha alcuna voglia di stare da sola, pare l’unica consolazione; l’unico momento vero che non sia schiacciato da falsi sorrisi e finte frasi di circostanza che sembrano caratterizzare la maggior parte delle sue giornate.
I punti di riferimento scompaiono e tutto sembra procedere senza guide. Roger, che nella premiere della scorsa stagione compariva in una scena sdraiato sul lettino di un analista e parlava fissando un punto sopra di sé, ora termina la giornata fissando un soffitto, ma con ben altri pensieri per la testa. Se in The Doorway dietro ad ogni porta sembrava esserci solo l’illusione del nuovo (perché in realtà tutto era già stato visto e vissuto), qui pare che gli eventi lo abbiano condotto di nuovo a cercare una svolta, un modo per tornare a sentire qualcosa: e mentre In Care Of sembrava mostrarci un Roger in procinto di dedicarsi a quel figlio non voluto eppure presente e ineludibile, ora la cupa immagine di un uomo anziano circondato da altri corpi e con solo un telefono a coprirlo suscita compassione. In questa puntata lo scambio con la figlia e quei vuoti “ti perdono” che si dicono reciprocamente mettono in scena la pochezza di un rapporto che non c’è mai stato e che forse mai ci sarà. Un tempo lo sguardo rivolto al soffitto dello studio dell’analista faceva paura, perché apparteneva ad un uomo che sembrava non avere più alcuna gioia da vivere; questo è invece lo sguardo successivo, quello che non suscita più timore ma solo pena e compassione.
L’unico della vecchia guardia a comparire in ufficio, più o meno in pianta stabile, è Ken, che non a caso non è affatto a suo agio nella posizione che fu di Pete: ossessionato da gerarchie e rispetto dei ruoli, non coglie nemmeno il valore e l’importanza di Joan, che a dispetto di tutto ha probabilmente salvato un cliente e che nonostante questo viene ancora trattata come la segretaria, quella che in gerarchia è ad un livello decisamente più basso. Ken manca di prospettiva, in senso vero e figurato: il suo occhio ancora bendato non permette la visione stereoscopica, e quel lancio mal riuscito a Joan indica proprio quanto la sua posizione sia, in ogni ambito, fuori asse e poco pratica. Uno della vecchia guardia, sì, ma a mezzo servizio – e forse nemmeno quello.
He was thirsty. He died of thirst.
E poi c’è Don, o forse Dick, ma più probabilmente entrambi. Già nella premiere della quinta stagione l’avevamo osservato farsi la barba davanti allo specchio, ma lì era un’altra persona, quello che fingeva di essere a suo agio con una moglie che cantava per lui davanti a tutti i suoi amici.
Qui c’è un uomo nuovo che si fa la barba preparandosi a vedere la moglie, ma mentre pensiamo questo – alla luce di quanto accaduto nella scorsa stagione e nell’ultima puntata –, Time Zones comincia a mandarci segnali contrastanti. A cosa credere? Al cambiamento? Alla conferma dei soliti stereotipi di Don? Ma perché scegliere?
L’abbattimento della porta metaforica che ha contraddistinto tutta la sesta annata ha eliminato l’ostacolo, il muro che divideva il dentro e il fuori: Both Sides Now era la canzone che accompagnava Don e figli a vedere la casa in cui Dick era cresciuto, e I’m a man è la canzone che lo introduce nella puntata. Don è Un Uomo, senza particolari accezioni positive o negative: per ora quello che conta è che sia uno e uno solo, e importa perché è l’unica lente attraverso la quale possiamo capire tutto ciò che nella puntata lo riguarda.
Megan sembrava averlo lasciato e l’incontro in slow motion ci colpisce proprio perché non era così che sembrava sarebbero andate le cose. Dunque sono di nuovo insieme? Sì, ma anche no. Durante l’incontro sono così perfetti da sembrare finti e il rallentamento della scena fa percepire ancora di più un certo livello di falsità; e poi è lei al volante della macchina, è lei che invita Don nel suo mondo – e non il contrario, come era sempre stato da quando i due si erano conosciuti. Si amano ancora? Forse sì, forse no. Sembra esserci un sentimento sincero in alcuni momenti, ma la difficoltà di stare davvero insieme si percepisce tutta: in una donna che esce dal bagno coperta da una camicia e con poca voglia di festeggiare, che risalta per contrasto con la ragazza in reggiseno e marijiuana della scorsa premiere.
Le cose sono quindi cambiate? No, ma forse sì: Don mente di nuovo e si inventa scuse lavorative che noi sappiamo non esserci perché la SC&P l’ha allontanato; ma poi capiamo che sta davvero lavorando – di nascosto, mandando Freddy in avanscoperta al posto suo – e quindi forse la sua non è da considerarsi una vera bugia.
Di nuovo, messaggi contrastanti.
E poi il flirt con la vedova sull’aereo, la classica donna che Don si sarebbe portato a letto dopo cinque secondi – And I’m always hoping I was seated next to, well, someone like you – e che invece finirà col mostrargli il quadro di una situazione molto, troppo simile alla sua: la storia di quel marito, morto “di sete” e che l’azienda aveva mandato in ospedale per farsi curare, è pericolosamente simile a quella della SC&P che lascia Don a casa per dargli il tempo di riprendersi da un problema, quello dell’alcol e non solo, che lo aveva ormai condotto al di là del lecito lavorativo.
“Then a doctor told me he’d be dead in a year. All of them would be” risuona come un memento mori, perché ora che Don ha lasciato la porta aperta ha permesso alle sue due parti di ricongiungersi, ma quale strada sceglierà questo uomo nuovo per andare avanti? Di nuovo bugie, alcol, distruzione, o forse finalmente la verità?
Don è fuori ambiente in quasi ogni scena della puntata perché nonostante tutto si porta dietro la sua condanna di essere fuori dal tempo: un uomo che va ancora in giro con un cappello con la piuma, che vede la modernità (di vestiti, di pensieri) come indistintamente “hippie”, non può che essere costantemente fuori luogo in un mondo che è cambiato da un pezzo e che gira alla velocità della luce.
Non è certo una coincidenza che sia l’introduzione al film Lost Horizon sia il discorso di Nixon – in entrambi i casi visti solo da Don – siano incentrati su un desiderio di pace in tempi di guerra; di unità in momenti (stati interiori?) di divisione. Il tormento di Don non può ancora dirsi concluso: e quella finestra che non vuole chiudersi e che fa filtrare il gelo dall’esterno è lì a ricordarci come le porte abbattute non possano (per fortuna, purtroppo) più richiudersi; nemmeno quando non ci danno quell’unità, quella pace che speravamo di raggiungere.
Ci ricordano invece che chi ben comincia sarà pure a metà dell’opera, ma che l’altra metà non sarà certo una strada in discesa e che ancora tutto può accadere. E allora tanto vale lasciare la bottiglia chiusa, attraversare quel varco e starsene al gelo, ad ascoltare quello che la porta ormai spalancata ha ancora da dirci.
Time Zones è una puntata complessa, non solo perché come sempre sembra raccontarci tutto non dicendo veramente nulla, ma perché risulta volutamente straniante rispetto ai presupposti lanciati con il finale della scorsa stagione. Una nuova confusione fa capolino all’interno delle vite dei personaggi, sul finire di quel decennio che più di tutti ha cambiato le vite delle persone nel secolo scorso: difficile dire dove questa stagione, divisa in due parti di cui la seconda andrà in onda nel 2015, ci porterà, e soprattutto quale sarà la fine del nostro protagonista. Per ora ciò che sappiamo è che tutto, ma proprio tutto, è ancora possibile.
Voto: 8 ½
Bellissima recensione e bellissima puntata, condivido praticamente tutto! L’atmosfera straniante in una premiere di Mad Men comunque è abbastanza comune ormai, a me The Doorway aveva scombussolato molto di più a dire il vero; per le previsioni comunque siamo ancora all’inizio, condivido l’ultima frase. Tutto è ancora possibile, ed è bellissimo. Bentornato Mad Men!
Grazie Pietro =) E’ vero, anche The Doorway aveva atmosfere quasi alienanti (ricordo la questione del portiere Jonesy), ma in questa ho notato proprio la necessità di mostrarci esattamente quello che non ci aspettavamo dopo un finale come In Care Of, che era stato tutto sommato positivo pur nella tragicità di alcuni elementi. Credo abbiano voluto trasferire anche nello spettatore l’angoscia e il tormento della nuova visione di Don, che, dopo una vita passata ad essere “altro”, ora vede il mondo con occhi nuovi ma non necessariamente in modo migliore: è così almeno che ho interpretato quella porta-finestra che non si chiude e che conduce alla meravigliosa scena finale.
Puntata strana, molto strana. L’incontro con Megan è stato visivamente straordinario e la scelta dello slow motion ha accentuato sia la dimensione ultima di quell’incontro (chi ci crede che si amano davvero?) così come quella artefatta.
Due cose mi preoccupano per il prosieguo di questa half season: la SC&P senza Don e Pete (e con Roger e Bert a mezzo servizio e dopo aver perso gente del calibro di Lane e prima Sal, ma anche Megan) potrebbe diventare un luogo non così interessante come un tempo; l’altra è il rischio di un eccesso di metafora, il rischio cioè di perdere di sottigliezza comunicativa e lasciarsi andare a metafore o oggetti simbolici dal sapor troppo netto e/o comunque tanto carichi di significato da perdere in naturalezza. Quest’ultimo punto ha radici già nella prima stagione, che secondo me ha proprio il problema di calcare troppo la mano sulle porte, gli oggetti, gli ascensori, gli anfratti, cercando a volte di spiegare troppo.
Tempo che tutta la parabola dello spiffero, del fuori vs dentro, del martirio, possa portare a una banalizzazione dell’arco drammatico di Don. Ovviamente temo non vuol dire né credo né spero, solo temo. Sono però abbastanza convinto che Weiner e compagni per quest’ultima stagione possano aver preparato qualcosa di davvero sorprendente.
Ah, un ultima cosa mi manca davvero tanto: Betty.
Io invece credo che l’aspetto simbolico/metaforico sia quello che ha portato Mad Men ad essere Mad Men. A parte alcune scelte negli anni un po’ troppo esagerate – col senno di poi, il famoso dente marcio di The Phantom era forse un filo troppo – io trovo che gran parte del tormento interiore di Don possa essere ora solo narrato così. Hanno scelto questa via comunicativa, è più giusto portarla avanti che sopprimerla secondo me. Poi, chiaro che le esagerazioni son sempre da evitare, ma ad esempio la scena della finestra secondo me era funzionale nella premiere a darci un punto di vista più “stabile” sulla situazione di Don, dopo aver passato una puntata a dirci tutto e il contrario di tutto. Vedremo.
Comunque sì, Betty manca! e son curiosa di vedere il primo confronto on screen con Sally
Questo modo di narrare e di squarciare l’immagine pubblica dei suoi eroi è stato da sempre nelle corde della serie, toccando attimi di altissima qualità anche nelle prime stagioni, come ad esempio il famoso frammento di The Carouse (http://www.youtube.com/watch?v=suRDUFpsHus). In quella scena l’equilibrio tra la potenza del simbolo e la sua forza metaforica era perfetto: la presentazione è un modo per presentare Don, il Don pubblico, ma anche di parlare di come funziona la pubblicità e la comunicazione in generale, ma anche, infine e forse soprattutto, di parlare della sua vita intima, del suo privato, contenuto in pillole nelle diapositive.
Questa scena può essere così commovente proprio perché tutto è perfettamente dosato e dunque tutto esaltato.
In queste stagioni finali io ci intravedo un rischio di farla un po’ fuori dal vaso e non è il caso del finale di questa premiere, che anche a me è piaciuto molto, ma un discorso un po’ più generale, che ovviamente si riferisce soprattutto al trattamento fatto sul corpo e sul volto di Don. Non è una critica tanto all’esistente, quanto più alla destinazione che questa strada intraprese potrebbe avere se non tenuta sotto controllo.