Con questo nono episodio ci inoltriamo sempre più nel nuovo corso intrapreso già dalla scorsa settimana e a guadagnarne non sono solo i personaggi, arricchiti dalle nuove dinamiche, ma anche il ritmo narrativo stesso, ora più controllato e meglio gestito.
Sulle titubanze circa la prima parte della terza stagione si è fatto un gran parlare: il pubblico di riferimento si è trovato diviso tra chi non ha apprezzato una prima sezione giudicata troppo verbosa e rarefatta e chi invece ha trovato nell’inseguimento di Hannibal una nuova direzione, meno rispettosa del percorso che ha caratterizzato le prime due stagioni ma ugualmente affascinante nella disamina dei personaggi principali della serie. In ogni caso, già dallo scorso episodio Hannibal è in parte rientrato nel più sicuro racconto fatto di indagini alternate a dialoghi di unica intensità, con in più il pregio di adattare per la televisione una narrazione particolarmente nota, quella già esplorata in Manhunter e Red Dragon (sebbene con stili ed esiti ben differenti).
Quando si è alle prese con uno slittamento temporale all’interno di una serie, non sempre si è in grado di riuscire a trasmettere allo spettatore la reale sensazione del tempo passato, soprattutto se tra un episodio e l’altro c’è l’abituale iato settimanale e non un più considerevole stacco di tempo reale (che caratterizza, ad esempio, le differenti stagioni). L’impresa, quindi, non era facile: anche stavolta, però, gli autori di Hannibal hanno dimostrato le loro straordinarie capacità e ci si ritrova improvvisamente – non senza qualche sfasamento comprensibile – catapultati tre anni dopo, quando le cose sembrano essere cambiate ma non lo sono fino in fondo. Si è aperto il racconto su Dolarhyde senza però dimenticare le dinamiche che hanno reso questa serie il gioiello estivo che ormai da tre anni rappresenta.
– You called us murder husbands.
– You did run off to Europe together.
Questo nono episodio si può tematicamente dividere in due grosse aree narrative: una prima parte dedicata ai personaggi finora noti e al tanto anticipato confronto Will-Hannibal che aveva concluso “The Great Red Dragon”, ed una seconda tutta incentrata sul personaggio interpretato da Richard Armitage.
Hannibal vive da tre anni ormai a metà tra la squallida realtà fatta di psicologi da due soldi ed una noiosa prigionia, e il suo necessario castello mentale nel quale proiettare se stesso ed i suoi personalissimi giochi mentali. L’arrivo sulla scena di Dolarhyde significa poter di nuovo ritrovare Will, l’unica persona che sia stata davvero in grado di stuzzicare la sua mente e di coinvolgerlo emotivamente ad un livello fino a quel momento mai provato. Il riconoscersi attraverso l’odore, il ricostruire in una maniera così animalesca quanto intima la nuova vita dell’uomo che ha dinanzi significa confermare ancora una volta come tra i due si sia formato un legame apparentemente indissolubile (e quanto piace a Fuller giocare con il sottotesto omoerotico che li coinvolge).
Will ha provato a costruirsi una nuova vita, una sua personalissima famiglia grazie alla quale sopprimere alcune delle sue più forti paure, come la tentazione sempre presente di ricadere in quel vortice oscuro che lo aveva quasi trascinato nell’abisso nel corso della seconda stagione. La sua volontà di sentire, di provare, lo conduce non solo ad aumentare considerevolmente il numero dei cani (ed il nuovo arrivato è la più diretta rappresentazione di quanto sia in grado di entrare in empatia con le vittime), ma soprattutto a desiderare l’equilibrio perfetto di una nuova relazione familiare che possa soppiantare quella distorta costruitasi con Hannibal e, finché è durata, con Abigail.
It takes two to catch one.
Sono i flashback, che hanno il compito di riempire alcuni dei vuoti narrativi lasciati in sospeso nei due anni precedenti, che simboleggiano quanto in profondità il tema della famiglia sia importante per Hannibal: d’altronde questa stagione (ma si può dire tutta la vita del dottor Lecter) si è fondata sull’immagine di Misha e sul profondo simbolismo che la sua morte ha saputo rappresentare. La famiglia diventa il tema fondamentale di un episodio che ne mostra alcune rappresentazioni, ognuna più disfunzionale dell’altra: si parlerà – seppur brevemente – di famiglia per quanto riguarda Dolarhyde, la si rivede in Alana e Margot ed è alla base del “ritorno” di Abigail ed il suo addestramento (lo sgozzamento del cadavere di Jacob Hobbs è, come spesso accade a questa serie, tra il camp ed il gore).
Anche se Hannibal non è riuscito mai a vivere davvero una propria famiglia, sa che il rapporto che intrattiene con Will è unico: il loro incontro dimostra ancora una volta quanto il serial killer sia abile nel manipolare la mente dell’altro, leggerne e decifrarne con semplicità le scelte, finanche nella composizione della propria famiglia (avere un figlio di un altro significa non rischiare di passare i propri geni malati a qualche vittima inconsapevole), feticcio di una normalità che Will disperatamente cerca e spera d’aver trovato. L’incontro tra i due significa il ritorno della “fame” per l’uno e degli incubi per l’altro; Molly – che lo spettatore conosce appena e per la quale non può certo ancora provare affezione – sembra essere solo funzionale al racconto, privo di un tratteggio autoriale deciso (ed interessante).
Il nucleo familiare perfetto, nella distorta mente di Hannibal, era quello vissuto con Will ed Abigail: proprio quest’ultima viene richiamata nei ricordi della sua formazione, della sua “morte” e rinascita prima dell’effettiva chiusura: così come aveva cercato di fare il padre naturale, Abigail verrà uccisa da Hannibal come atto d’amore, supremo ed ultimo momento di una relazione malata che scimmiotta quella che nessuno di loro è stato così fortunato da avere.
La disperata ricerca di una propria stabilità famigliare sembra coinvolgere anche Alana, la quale non solo ha continuato la sua relazione con Margot iniziata sotto le più improbabili circostanze, ma adesso la conferma nel figlio che insieme hanno avuto, il vero discendente della famiglia Verger, proseguendo a modo loro il sogno che era dell’erede di famiglia. Alana ha, finalmente per lei, totale potere sulla vita di Hannibal Lecter e sembra volerne fare uso fino in fondo: le sue minacce allo psichiatra nascondono da un lato la volontà di rivalsa per tutto ciò che le è accaduto, ma dall’altro anche una sotterranea volontà di proteggere Will dal controllo assoluto di Hannibal. La donna, adesso, sembra vivere una seconda giovinezza e non è detto che questo non possa giovarle, narrativamente parlando.
Ancora defilato Jack Crawford che però sembra, nel dialogo finale con Hannibal, essere tornato quell’uomo che, per la propria idea di bene superiore, non esita a condurre Will sulla via della perdizione: lo avevamo visto nella prima stagione e si conferma qui con ancora maggiore evidenza (e più freddo calcolo). Un plauso al recupero da parte degli autori del personaggio di Freddie il cui compito, insieme a quello di Zeller e Price già visti nello scorso appuntamento, è quello di riportare al suolo una storia che nei precedenti sette episodi spesso e volentieri tendeva ad abbandonare la gretta materialità per una narrazione quasi totalmente onirica (ma per questo spesso troppo rarefatta).
Trust me, I’m smiling.
Prosegue intanto la trasformazione di Dolarhyde, confermata dal riferimento diretto del titolo della puntata, che va a concludere (con l’appuntamento scorso) quello del quadro di Blake (o almeno uno dei due), simbolo della rinascita verso cui il killer si sta muovendo. Anche l’uomo dal labbro leporino ha il sogno di una famiglia e l’idea di uccidere quelle felici è forse l’estremo disperato tentativo di vivere quelle sensazioni attraverso di loro.
Quasi tutta la seconda parte di questo episodio è dedicata a Dolarhyde e alla sua trasformazione – resa visiva dall’apparizione della coda – nel Great Red Dragon. La prima perplessità di questa grossa narrazione è il tempo a disposizione: restano solo altri quattro episodi che possono raccontare tutto il corso complesso e doloroso che Harris ha descritto nel suo romanzo Red Dragon. Riusciranno gli autori a mostrarne l’intera complessità senza dover accelerare eccessivamente su alcuni punti? In questo episodio, ad esempio, vi sono degli aspetti (come il breve flashback con la nonna) che si possono comprendere davvero fino in fondo solo conoscendo il materiale di partenza: sapranno gli autori non necessariamente poggiare su quelle conoscenze pregresse che non tutti gli spettatori possiedono, senza finire in una sterile riproposizione del materiale originale?
A questa domanda sembra però rispondere in parte la concretizzazione umana del personaggio del killer: si intende la scoperta del nome, del lavoro, degli elementi alla base dei suoi comportamenti psicotici e violenti. Richard Armitage si conferma perfettamente in grado di illustrare le caratteristiche più intime e dolenti di Dolarhyde con una recitazione che gioca abilmente di sottrazione. Non c’è modo migliore di questo, dopo i voli pindarici e di grande eleganza che per più di due anni hanno caratterizzato Hannibal Lecter ed i suoi omicidi, per dare in pasto allo spettatore un nuovo serial killer, più “ordinario” ma non per questo non in grado di attrarre l’interesse di chi ne segue l’evoluzione.
Ecco quindi che l’incontro con Reba (interpretata da Rutina Wesley di True Blood, ben lontana dal trash necessario per quell’interpretazione) si rivela uno dei momenti più intimi ed emozionalmente coinvolgenti dell’episodio: Dolarhyde con il suo labbro leporino può nascondersi dalla persona con cui sta interagendo perché l’altra non può vederne il difetto fisico, ma solo sentirne le titubanti parole e provare ad interagire con la sua intimità. È questo blocco narrativo ad innalzare ulteriormente la già ottima prima parte che non può che concludersi con la telefonata tra i due serial killer: l’uno interessato alle turbate menti umane, l’altro che ha bisogno di conferme ed è felice – come predetto da Freddie – delle attenzioni che sta ricevendo dopo una vita di ombra ed oscurità.
Pur rispondendo al personale gusto di ciascuno degli spettatori, è innegabile che questa seconda parte di stagione si stia avviando a sublimare i propri punti forti narrativi tornando su un racconto più “materiale” ma forse per questo ancor più ricco di quanto fatto finora. A differenza dell’inseguimento europeo di Hannibal, infatti, anche i sempre ben scritti dialoghi tra i vari personaggi sembrano girare meno in tondo – necessario quando la storia personale resta ferma senza nuovi stimoli esterni –, trovando nel mezzo narrativo del nuovo serial killer e nello slittamento temporale una nuova linfa che possa raccontare le evoluzioni ed i cambiamenti di ciascuno di loro. Per questo Hannibal sta vivendo una nuova stagione il cui unico avversario è solo il breve tempo rimasto a disposizione.
Voto: 9
Non condivido il giudizio positivo sulla puntata. La prima parte della stagione mi aveva lasciata perplessa. La seconda mi sta, letteralmente, annoiando. Il nuovo assassino non mi suscita alcun brivido o alcun interesse e trovo ormai poco intriganti anche le vecchie/nuove dinamiche tra i protagonisti. La scelta narrativa di spezzare la stagione in due, con un gap di tre anni tra la prima e la seconda parte, era probabilmente rischiosa. Mi sembra che la serie abbia perso il proprio mordente e si stia ripiegando su se stessa. Non commento nemmeno la telefonata finale tra Hannibal e Red Dragon. Io la sospendo sempre l’incredulità, ma qui si sfiora il ridicolo. Che un troglodita con gravi difetti di linguaggio chiami un manicomio criminale e si faccia passare al telefono un cannibale, spacciandosi per il suo avvocato, mi sembra una trovata parecchio buffa. Che bisogno c’era di escogitare una comunicazione diretta tra i due? Volevano mantenere Hannibal in gioco con questo mezzuccio? Mah… Mi avevano abituata a ben altre raffinatezze.
Serie un pò troppo pompata ….infatti in questa stagione sta perdendo pezzi per strada.
E’ incredibile come questa serie riesca a colpirmi e farsi amare sempre di più. Io amo la moglie di Will, con lei è normale (basta vedere la battuta sul cane e su sè stesso) ed essendo lui il mio personaggi preferito fin dall’inizio soffro sempre molto quando lo vedo interagire con Hannibal, che ormai odio a tutto spiano.
Credo che le critiche dei commenti, all’apparenza giuste, si rivelino sbagliate nel momento in cui non si ha conoscenza del libro. Molti aspetti del romanzo di Harris rimangono, ma, per necessità di modernità, essendo un libro scritto negli anni ’70, altri sono stati inevitabilmente cambiati. C’è da dire che forse un pò di fedeltà a livello narrativo poteva rimanere, ad esempio [edit] A differenza del romanzo il povero Graham qui è reso un inetto che ha fortuna e paura persino della sua ombra. Peccato. In toto continua ad essere una bella serie con molti punti a proprio favore, sempre più incentrata sul Noir/Thriller che non sull’Horror.
[Non è possibile parlare di avvenimenti successivi alla puntata in questione nemmeno usando il tag spoiler. La Redazione]
A me finora questi due episodi “del nuovo corso” hanno lasciato un pò perplessa. Non perché non li trovi belli, ben fatti o noioso, ma sostanzialmente perchè mi sembrano niente più e niente meno che la (terza) trasposizione del (bellissimo) Red Dragon (il libro) e sinceramente non sentivo la necessità di una terza trasposizione di Red Dragon.
Bisogna dire che anche la prima parte della serie, che a me è piaciuta parecchio (a parte un paio di episodi: il terzo e il quarto), difettava molto dell’elemento sorpresa essendo in buona parte tratta da Hannibal (il libro e film trasformato qui da sequel a prequel).