Gli ultimi episodi di Mad Men andati in onda quest’anno hanno chiuso la serie affidando tutta la loro importanza ad un titolo di presentazione ricco di significato: “The End of an Era”, la fine di un’era. Ed è da qui, dalla storica conclusione di uno show di questa portata, che bisogna partire se si vuole consigliare questa serie.
Tra i nomi con cui più persone hanno cercato e cercano tutt’ora di schematizzare la storia della televisione – e in particolare della serialità televisiva americana –, è il termine “Golden Age” (età dell’oro) a farla quasi sempre da padrona. È abbastanza evidente come il problema (dei critici, degli studiosi, nostro) sia quello di essere troppo vicini alla materia trattata per adoperare una categorizzazione che risulti il più oggettiva possibile: da qui deriva la tendenza a definire un particolare periodo, con tutte le sue evoluzioni, come la vera (o seconda, o terza) Golden Age.
Stando alla suddivisione adoperata da Robert J. Thompson, una seconda età dell’oro si sarebbe conclusa nel 1994, quando E.R. arrivò sugli schermi; dunque dovremmo dedurre che la terza età dell’oro sia iniziata proprio in quegli anni, con un modo diverso di raccontare le storie televisive che avrebbe tracciato i prodromi della serialità degli anni ’00 – quella che di fatto porta dritto a noi.
Quello che conta, tuttavia, è che in questo percorso attraverso gli anni ’90 si arriva ad un anno in particolare, il 1999, e all’avvento di una serie destinata a cambiare il modo di raccontare l’essere umano in televisione: si parla ovviamente di The Sopranos di David Chase, che ha visto la formazione artistica – e in nuce la creazione stessa di Mad Men – di Matthew Weiner.
Il potere della nostalgia
Si tratta di una lunga introduzione, ma essenziale a comprendere – anche solo tangenzialmente – la portata eccezionale del periodo televisivo di cui ha fatto parte Mad Men, e per cercare di avvicinarsi a capire (soprattutto se non si conosce la serie) perché si possa a buon diritto parlare della fine di un’era, e non solo quella del decennio rappresentato nello show.
Partiamo quindi da qui, dagli incredibili anni ’60: Weiner decise di ambientare il suo pilot – scritto inizialmente nel 2000 e rielaborato negli anni passati a lavorare su Tony Soprano & co. – proprio nel 1960 e di incentrare le vicende raccontate su un gruppo di pubblicitari, i “Mad Men” del titolo: uomini (e donne) che lavoravano in Madison Avenue e che, come ci informa il pilot sin dall’apertura, avevano coniato questo nome per se stessi. Parte tutto da qui: persone che di mestiere cercano frasi, immagini, suoni che convincano la gente a comprare e che inventano un nome addirittura per pubblicizzare se stessi, autodefinendosi a loro volta come prodotto, come modello di ispirazione.
Del resto, non sono (anche) questo gli anni ’60? Il decennio che più di tutti ha segnato il cambiamento su qualunque livello possibile e immaginabile, il periodo storico a cui tutti guardano quando pensano a creatività, libertà, rottura degli schemi. È già a partire dall’ambientazione storica che Matthew Weiner colpì nel segno; e lo fece ancora di più decidendo di riprodurre tale epoca nel modo più fedele possibile, grazie ad un lavoro impeccabile che ha portato davanti ai nostri occhi arredamenti, vestiti, ricostruzioni fedelissime quando non addirittura originali dell’epoca.
Tutto in Mad Men – e sin dall’inizio – urla chiaramente la necessità di mettere in scena una rottura, pur ancora nascosta sotto le pieghe del finire degli anni ’50: il mondo stesso dei pubblicitari è un universo fatto di apparenze e di volontà nascoste, di ipocrisie malcelate e di doppi significati – “What you call love was invented by guys like me to sell nylons”, e con questa frase siamo solo al pilot. Ma è anche un mondo volutamente legato al passato, che trova come bilanciamento della sua voglia di cambiare una necessità profonda di ancorarsi alle proprie origini, di tenersi ben saldi alle fondamenta perché la svolta è dietro l’angolo, e i punti di riferimento scompariranno a breve.
Non a caso uno dei temi fondamentali della serie è la simbolica morte dei padri (intesi come la vecchia generazione, foriera di valori ormai in decadimento) e la confusione – mista a eccitazione, mista a terrore – che caratterizza invece i figli di questa epoca, divisi e attratti da forze uguali e opposte che li tirano in direzioni diversissime.
A rappresentare il vero termometro del cambiamento nella serie troviamo le donne: è la loro trasformazione (a volte rapidissima, altre volte lenta, quasi mai priva di dolore) a guidarci attraverso “i favolosi anni ’60”, che in molte occasioni per loro sono esattamente l’opposto di come ce li immaginiamo. Sono anni in cui si passa dalle gonne lunghe alla “mini” di Mary Quant, in cui la donna capisce che nella vita c’è altro oltre a essere moglie o al massimo segretaria; ma sono anche gli anni in cui scopre che il mondo in cui è inserita fa molta più fatica di lei ad accettare un tale cambiamento. Il potere alle donne? Weiner ci permette, con maestria, tatto e a volte anche immensa crudezza di osservarne il processo (più di presa d’atto, a volte, che non di effettivo mutamento) senza scadere in alcun cliché in stile “l’unione fa la forza”, ma anzi rappresentando diversi generi di donne, persino in conflitto tra loro, ognuna alle prese con differenti gradi e livelli di ricerca di indipendenza.
È un periodo difficile, complesso da analizzare, ma allo stesso tempo è forse il più noto, il più facilmente riconoscibile. Anche per chi quegli anni non li ha vissuti è facile sentire un senso di appartenenza, mediato certo da quanto è stato rappresentato negli anni successivi e da quanto noi stessi siamo debitori di quello che allora è stato creato, cambiato, rivoluzionato. Weiner ha giocato molte delle sue carte su questo elemento, ed è per questo che l’aspetto sociale-artistico non smette mai di fare da sfondo più o meno importante agli eventi dei personaggi rappresentati. Sempre sul limite, quasi mai padrone della scena, l’assetto storico risulta fondamentale per ambientare correttamente le vicende dei protagonisti; e al contempo diventa elemento chiave per rielaborare un passato che sembra lontano, che in realtà è vicinissimo a noi, e per il quale non possiamo che provare un senso di nostalgia – anche se non lo abbiamo mai vissuto.
Don Draper – uomo del passato, uomo contemporaneo
Quando si tratta del periodo televisivo nato a fine anni ’90, spesso si parla di nuove figure portate sullo schermo associate all’immagine dell’antieroe: non più personaggi eticamente corretti, o piccoli peccatori dal cuore d’oro, ma figure a tutto tondo, con un’interiorità sempre più complessa e comprensibili solo grazie ad un approfondito lavoro psicologico – e non è un caso che tutto nasca da Tony Soprano, il boss mafioso che soffre di attacchi di panico e che cerca aiuto nell’analisi.
Forse per questo, e per molti altri motivi, più che usare una vecchia categoria come quella dell’antieroe dovremmo usarne una molto più semplice, forse scontata, ma decisamente più calzante: esseri umani. Certo, non persone che possiamo incontrare tutti i giorni (quanti Gregory House potremmo incrociare nella vita? Quanti professori di chimica che diventano signori della droga?), ma persone che potrebbero realmente esistere, con i loro pregi ma di sicuro con enormi buchi neri nel loro passato e nel loro presente, che li spingono a cercare altro e che li lasciano in uno stato di insoddisfazione, frustrazione, ricerca di sé. Non siamo stati tutti almeno una volta nella vita in questa condizione?
È da queste basi che bisogna partire quindi per parlare del protagonista, Donald Draper (Jon Hamm), uno di quei “Mad Men” pubblicitari di cui si scriveva poco sopra, anzi, forse il Mad Man per eccellenza: elegante, intelligente, terribilmente affascinante, donnaiolo, fumatore e bevitore incallito, che troviamo nel pilot come direttore creativo dell’agenzia pubblicitaria Sterling Cooper.
La complessità dell’essere umano di cui parlavamo viene portata da Weiner all’ennesima potenza con l’introduzione di un tema – quello del doppio, dell’identità nascosta – che non è certo originale di per sé, ma che viene raccontato per anni in un modo talmente dettagliato e approfondito che per lo spettatore che segua la serie con un minimo di attenzione risulta impossibile non rimanere affascinato dalla lenta e inesorabile caduta di Don Draper.
Senza ovviamente entrare nel dettaglio ed evitando il più possibile gli spoiler, è possibile dire che Mad Men tratti la lentissima presa di coscienza dell’essere umano di una lacerazione identitaria che gira intorno ad una sola, semplice, ma devastante domanda: chi sono? Il “caso Draper”, un po’ perché tratta di un uomo disegnato come il più distante degli irraggiungibili, un po’ perché cristallizzato in un’epoca passata, sembra inizialmente distante da noi, sembra quasi non riguardarci: gli anni passano, tra una stagione e l’altra di Mad Men, si affermano nuovi stili di vita, e Don Draper è sempre lì, restio al cambiamento delle mode, dell’arte, delle rivoluzioni. In questa mossa di Weiner, dai risvolti ovviamente non raccontabili in questa sede, si nasconde tuttavia anche un aspetto più pratico: illuderci che quello che stiamo vedendo non ci appartenga davvero, che Don Draper sia un uomo del passato con problemi che non ci riguardano, che non parlano di noi. E invece il lavoro sulla maschera (tema così abusato a partire dalla letteratura, eppure così ancestrale, così nostro), sul rifiuto di una parte di sé, sulla negazione ma in fondo sulla disperata ricerca di una sintesi che liberi dal dolore interiore non sono altro che rappresentazioni dell’uomo contemporaneo, alla ricerca di sé, della propria identità, dell’origine del trauma.
Mad Men è uno dei tentativi più riusciti di analisi di un’interiorità complessa, traumatizzata e peggiorata da processi di autonegazione durati anni; e lo fa raccontando il crollo del gigante con i piedi di argilla, la fragilità dell’umana condizione, il dolore della decostruzione, i passi falsi, i piccoli avanzamenti, le ricadute. Non è facile portare sullo schermo un personaggio del genere (e lo è ancora meno quando lo stesso tipo di approfondimento viene dedicato anche ai comprimari, il cui livello di analisi narrativo-psicologica non è da meno); non è di certo fattibile se non andando a toccare corde legate all’inconscio, dei personaggi ma anche nostre. Ecco che quindi Weiner si affida, soprattutto col passare delle stagioni, a fortissimi simbolismi che, lungi dall’essere didascalici, diventano l’unico modo per raccontare quel percorso in maniera diretta, mirata al nostro subconscio.
Quando si vuole consigliare una serie come questa, la difficoltà più grande si riscontra nella trama: ma quindi, cosa succede in Mad Men? Una delle più grandi critiche mosse dai detrattori, infatti, è che, guardando le puntate, “non succede davvero niente”. Non è ovviamente così, e il modo più efficace per descrivere ciò che accade è dire la cosa più semplice: Mad Men è la storia (di un uomo) inserita nella Storia (dell’Uomo). Di sicuro bisogna avere un po’ di pazienza con i primi episodi, per imparare a prendere il passo del racconto di Weiner; una narrazione a cui non tutti sono obbligatoriamente abituati, perché procede per stratificazione, per sedimentazione: pennellata su pennellata, livello su livello, anche le cose all’apparenza più insignificanti prima o poi acquisiscono colore – e del resto, non è forse questa la materia di cui è costruita la vita?
“The End of an Era” è l’ultima fase dell’ultima stagione della serie, come si ricordava all’inizio. È la fine degli anni ’60, il decennio più sconvolgente del ventesimo secolo; è la conclusione della storia di Don Draper, un’icona dell’immaginario collettivo anche per chi abbia solo sentito parlare della serie; ma soprattutto è la fine di un’epoca – di un’età dell’oro? – che ha toccato livelli di scrittura così alti da diventare magari non irraggiungibili, ma di sicuro pietre miliari della storia della televisione.
Recuperata tutta qualche mese fa, semplicemente una serie di un altro livello, il solo paragone con altre la sminuirebbe; per ora sta là, sull’Olimpo delle serie tv, insieme a poche altre.
Grazie Federica,
semplicemente per avermi fatto ri-vivere questo lungo viaggio terminato mesi fa.
Grazie a te per averla letta e apprezzata! 😉
Splendido post, splendida serie, indescrivibile cosa ha significato nella storia della tv, e cosa per ognuno di noi a livello personale, siamo tutti Don Draper e Peggy Olson, in fondo.
Grazie a te Anna! Uh, non sai quanto ho dovuto scavare in me stessa per scrivere di Don.. in generale in questi anni, ma soprattutto col series finale. Trovare punti di connessione con personaggi scritti così bene è praticamente inevitabile, e questo è proprio perché sono rappresentazioni dell’essere umano, tanto da poter essere considerati tali quando si procede a un’analisi narrativo-psicologico-drammaturgica. E sì, capita solo con le eccellenze 😉
Grazie per questo articolo, Federica Barbera. Mi è piaciuto molto, perché va dritto al nocciolo della questione Mad men senza divagare. No perché a volte leggendo in giro articoli su Mad men ho come l’impressione che siano delle masturbazioni (senza happy end) degli autori e nulla più.
La questione dell’identità, appunto. E mica roba da poco. Secoli di Letteratura, e poi il Cinema, e anche l’ Arte figurativa, si sono cimentati su questo tema.
L’identità di Don, certo, e poi anche quella dell’America tutta, fondata sulla mercificazione, sulla prostituzione nel senso più ampio, sulla vendita di sogni al mondo, e sul trionfo del consumismo.
E parlando di sogno americano, ho pensato spesso a quella frase di Tony Soprano, quando parla dello “strong, silent type” alla Gary Cooper. E’ come se Weiner avesse deciso di mostrarci cosa ci fosse dietro quel tipo d’uomo, dietro quella incarnazione dell’american dream che Don rappresenta all’inizio della serie, con la sua famiglia perfetta, la casa perfetta, il lavoro perfetto. Dietro c’è un impostore, figlio di una prostituta, un uomo dall’identità lacerata.
Dici molto bene, Mad men parla al nostro inconscio. Weiner è un lacaniano, ha disseminato la serie di simboli, e infatti, dopo la visione di ogni episodio io mi sentivo come dopo una seduta psicoanalitica; oppure a volte provavo un senso di inquietudine che non si giustificava a livello cosciente, per quello che avevo visto.
E ognuno poteva trovarci qualcosa di diverso, dentro. Ogni episodio poteva parlare diversamente all’inconscio di ognuno.
Poi, sulla faccenda che secondo alcuni “non succede niente”, beh… io prima della visione di ogni episodio avevo una certa ansia, perché il viaggio di Don troppe volte mi è sembrato il mio. Per gli ultimi episodi, la mia ansia è diventata molto grande. La sorte di Don mi interessava molto più di quella di qualunque altro personaggio di una serie TV che io possa mai aver visto.
Non volevo che finisse male, non poteva finire male.
E parlando del finale, senza fare spoiler, l’ho trovato perfetto. Bellissimo, geniale. Il miglior finale possibile.
Basta, potrei parlare di Mad men per ore, ma non lo farò. Mi manca moltissimo, e temo che il vuoto che ha lasciato nel panorama TV non potrà essere colmato.
All’orizzonte non vedo alcuna serie che possa coinvolgermi a livello profondo come questa, che riesca a “farmi male” in questo modo.
Grazie a te Teresa per le belle parole. È vero, c’è molto di quella immagine dello “strong, silent type” cui faceva riferimento Tony Soprano, e non stupisce, visto che moltissime intuizioni di Weiner su Don si vedono proprio nelle ultime due stagioni dei Sopranos.
Sulla questione “non accade niente” ho voluto menzionarla proprio perché è la cosa che mi capita di sentire più spesso da parte di persone che si sono fermate ai primi episodi, e ho voluto farlo proprio per far capire che non è affatto così. Poi certo, piacere a tutti non è possibile, quindi che ci sia qualcuno a cui non piace il modo di raccontare di Weiner è possibilissimo, però condivido in toto il tuo discorso sull’ansia generata davanti agli episodi. Quante volte non vedevo l’ora di piazzarmi davanti allo schermo e, una volta lì, quasi non vedevo l’ora che finisse perché mi stava facendo davvero del male? Un sentimento ambivalente, eppure così significativo.
Del finale ho già parlato nella recensione, ma non mi stanco mai di dire quanto sia stato eccezionale, quale meraviglioso completamento abbia offerto alla storia di Don Draper – e non solo. Non so se e quando avremo di nuovo una qualità del genere in tv.
Sto recuperando questa serie grazie al vostro consiglio, e ne sono veramente affascinata. Grandiosità e meschinità si fondono nella vita di ogni singolo personaggio. Li amo tutti, anche quelli in cui all’inizio non mi riconoscevo. Per fortuna sono solo alla fine della seconda stagione, sono felice di averne molte davanti…grazie!
Si può essere ancora qui a rileggere queste righe nel 2024?
Si. Si può.
Soprattutto quando le righe sono così belle e quando la storia che narrano è così perfetta.
Mad Men è stata esperienza di vita. Non riesco mai a trovare parole diverse. Come poche altre serie TV viste. Lost, Americans, Leftovers, Breaking Bad: serie che sono andate oltre la bellezza, la storia, i personaggi e che sono state momenti unici e ormai irripetibili.
Grazie ancora Federica.
Grazie ancora Mad Men.
Ma grazie, Alessandro! Che sorpresa trovare un commento su Mad Men in questo caldo agosto 2024! Lo so, lo so, ci sono state tante serie eccellenti negli anni successivi, ce ne sono e ce ne saranno. Ma noi, discepoli della Madison Avenue, sappiamo cosa questo show ha rappresentato per noi e per la serialità stessa, quanto abbia scavato dentro ai personaggi e al pubblico al tempo stesso. Davvero una serie unica e irripetibile, e forse meglio così.
Grazie a te! =)