Prendete uno dei libri più importanti e influenti degli ultimi vent’anni, una piattaforma dalle disponibilità economiche illimitate, una giovane drammaturga di grande talento (Sarah Gubbins), una delle maggiori autrici della scena televisiva (Jill Soloway), una delle più celebrate registe contemporanee (Andrea Arnold), un cast perfetto e fatene una serie TV. Non può che risultarne uno dei migliori show dell’anno.
I Love Dick è prima di tutto l’adattamento dell’omonimo libro semi-autobiografico di Chris Kraus, scrittrice e artista americana che nel 1997 lo pubblica per Semiotext(e), la casa editrice del marito Sylvère Lotringer. Al centro della storia la stessa Chris, regista dalla carriera non proprio brillante, sposata con Sylvère, critico d’arte che durante un anno sabbatico si trasferisce in California per trovare ispirazione. Chris, che all’ultimo momento decide di accompagnarlo, finisce per infatuarsi di Dick, un misterioso e affascinante sociologo del posto. Negli anni successivi il volume diventa amatissimo negli Stati Uniti e in Inghilterra tanto da vivere una vera riscoperta grazie a diverse ristampe e all’impatto sui social network di alcune artiste e influencer dichiaratamente femministe che l’hanno utilizzato come una sorta di manifesto identitario, tanto che una cantautrice come Lorde ha postato la foto con il libro sottolineando che a regalarglielo è stata Lena Dunham, solo per citare un esempio tra i tanti.
Chris Kraus si serve della forma epistolare per narrare in prima persona i tumulti interiori di una donna che si avvicina ai quaranta, insoddisfatta del proprio matrimonio e della propria carriera artistica e che utilizza proprio questo malessere, assieme all’ossessione per Dick, per raccontarsi da cima a fondo, finendo per scrivere un ritratto articolato e densissimo della propria formazione intellettuale e sessuale.
Presentata nell’ottava pilot season di Amazon Video (settembre 2016) – comprendente I Love Dick, Jean-Claude Van Johnson e The Thick (tutte promosse) –, la serie creata da Jill Soloway e Sarah Gubbins era senza dubbio quella più interessante per numerose ragioni: l’enorme credito conquistato negli anni dall’autrice di Transparent, uno stile di regia sperimentale e vivace, l’importanza del libro che lo show si propone di adattare e un cast perfetto. A interpretare la protagonista c’è Kathryn Hahn, già nella prima serie della Soloway e protagonista della sorprendente quanto sottovalutata Happyish; il corpo di Griffin Dunne è scelto per incarnare Sylvère; mentre a uno statuario Kevin Bacon è affidato il ruolo del Dick che dà il titolo alla serie.
This isn’t about love, this is about obsession
Fin dai primi minuti del pilot Chris ci viene presentata come la giovane, pasticciona e disorganizzata moglie dell’intellettuale di successo, colei che una volta arrivati nella comunità di Dick non viene chiamata neanche per nome, ma semplicemente the Holocaust wife, ovvero l’accompagnatrice di Sylvère il quale sta conducendo una ricerca sulla portata estetica dell’Olocausto. Dall’incontro con Dick inizia però un percorso liberatorio assolutamente anticonvenzionale, che non parte da una orgogliosa voglia di riscatto, ma mette in evidenza la difficoltà di questo cammino attraverso la graduale scoperta delle proprie fragilità e la progressiva accettazione delle stesse.
La serie, tramite il personaggio di Chris, mette al centro l’analisi della condizione femminile in un preciso contesto socio-culturale, posizionando la lente d’ingrandimento sul settore creativo, fondendo alla perfezione la riflessione sulla donna e quella sull’artista. Dal libro di Chris Kraus alla serie di Soloway e Gubbins l’ossessione diventa il fulcro di un lavoro che utilizza il desiderio inappagato e il concetto di catastrofe come opportunità, sfruttandone gli stimoli che ne derivano, soprattutto quando al centro del discorso c’è un’infatuazione che ha a che fare col piacere fisico. Dick non è un uomo qualsiasi, bensì proprio quel tipo di maschio che disprezza le donne come Chris, che sottovaluta il loro ruolo sociale e le loro capacità artistiche; in questo modo l’ossessione e il desiderio si fondono con la competizione, con la voglia di rivalsa e di riscatto. Dick è realmente uno stronzo e la sua caratterizzazione è millimetrica nel mettere in evidenza l’impatto di un uomo del genere su una donna come Chris, la quale è allo stesso tempo un personaggio unico e sfaccettato ma anche una sorta di simbolo universale, una vera e propria musa per Soloway e Gubbins.
Non solo è impossibile sciogliere la problematicità e la complessità del rapporto tra Chris e Dick, ma è anche insensato perché è proprio in quella stratificazione di istanze che risiede la sua forza. Se da una parte c’è il discorso sull’ossessione, sulla femminilità repressa, sulla capacità di conoscersi ed essere in grado di compiere le scelte giuste con coraggio e determinazione, dall’altra però c’è la progressiva consapevolezza che quella per Dick costituisce un’ossessione distraente, un fascio di luce accecante che la protagonista decide di fissare anche per non concentrarsi sul proprio fallimento, che sia il frantumarsi del matrimonio con Sylvère o la carriera da regista che non accenna a cambiare passo o l’assenza di reale autodeterminazione.
I suppose I should thank you, Dick. All this time I thought we were writing letters to you. But we were writing letters to love.
Tante volte in televisione e al cinema abbiamo visto protagonisti circondati da donne, anti-eroi più o meno convenzionali la cui complessità era tale da aver bisogno di non una ma almeno due controparti femminili, le quali in questo modo non potevano che essere incasellate in ruoli, in tipi, in immagini parziali della femminilità e del desiderio. Non si tratta di una cosa sbagliata in sé, ma senza dubbio di un punto di vista molto chiaro, sicuramente maschile.
I Love Dick ribalta la prospettiva e affianca alla protagonista due uomini molto diversi l’uno dall’altro quantunque non privi di significativi punti di continuità e interpretati in maniera eccellente da Kevin Bacon e Griffin Dunne.
Dick (che nella serie è un artista) si presenta come un eroe eastwoodiano, un uomo di poche parole che sembra uscito da un romanzo di Hemingway, lontanissimo dai sofismi a cui è abituata Chris (ma da cui al contempo è anche fortemente attratta, perché la questione è molto più complessa di così), affogata in un mondo di logorroici maschi bianchi con in mano le redini della cultura. Dick è un corpo estraneo, connotato da un senso di vaghezza costante che lo porta a non specificare nulla, non elaborare teorie, non leggere più libri e non dare nomi alle cose, costituendo grazie alla sua sostanziale opacità quasi un’incarnazione del concetto di mistero.
Sylvère è un uomo che per tante ragioni si comporta in maniera antitetica, che per insicurezza tende a ostentare il proprio sapere, per carattere preferisce razionalizzare il mondo a lui circostante dividendolo in categorie intellegibili e per il contesto culturale e professionale da cui proviene è portato a esibire la propria cultura e la propria eventuale superiorità intellettuale. Sylvère è allo stesso tempo attratto e impaurito da Chris, dalla sua irrazionalità e dalla sua capacità di vivere senza apparente controllo; soprattutto, è attratto dal modo in cui Dick riesce (gli sembra riuscire) a gestire questa cosa, da come riesce a rimanervi estraneo, al sicuro nella sua torre d’avorio, comportamento che agli occhi di Sylvère rappresenta una sorta di emblema della mascolinità.
Gli ultimi tre episodi costituiscono un momento di grande evoluzione per entrambi, innescato dal faccia a faccia in cui hanno la possibilità di specchiarsi l’uno nell’altro, di rivelarsi in maniera più o meno diretta le reciproche paure e da lì in poi intraprendere un percorso di conoscenza di se stessi inedito. Dick viene riportato con i piedi a terra proprio da Chris, la quale nel settimo episodio smaschera la sua goffaggine e le sue insicurezze, rivelando un uomo che nei momenti di intimità è il contrario di quanto ci si poteva immaginare. Sylvère invece troverà il bandolo della matassa mettendosi in gioco in prima persona, passando da gelido accademico a performer.
This isn’t about love, this is a Manifesto.
Dopo aver presentato i personaggi e intavolato la narrazione principale e quelle secondarie, I Love Dick con il quinto episodio si prende una pausa dal racconto tradizionale per cambiare completamente registro, ampliando lo spettro di indagine e tentando di costruire un ponte tra la messa in scena audiovisiva e la forma epistolare della materia letteraria, realizzando così un episodio sperimentale che sarà difficile dimenticare.
Jill Soloway alla regia dimostra non solo coraggio ma anche un’inventiva fuori dal comune realizzando un’operazione molto simile a quella effettuata da Donald Glover nel settimo episodio di Atlanta, sporgendosi in maniera decisa dalle parti del film-saggio. “A Short History of Weird Girls” ha una struttura antologica e racconta nel profondo l’intimità di quattro donne, le quali rivolgendosi alla macchina da presa si aprono allo spettatore mostrandogli le loro contraddizioni con incredibile onestà e trasparenza. Attraverso la figura di Dick e il differente ruolo che essa ha per le quattro donne, Chris, Devon, Paula e Toby riflettono sulla loro sessualità, sulle discriminazioni di genere e di razza, sui traumi che hanno costellato le rispettive formazioni e sulle frustrazioni che hanno accumulato nel corso degli anni.
Jill Soloway in poco meno di mezz’ora compie un viaggio emozionante ed empatico nella vita delle “sue” donne, affrontando con coraggio le loro esistenze e tendendo un filo che collega famiglia, lavoro e relazioni sentimentali in modo dialettico e inscindibile, realizzando un mini saggio audiovisivo sulla misoginia, sul razzismo e sulla prevaricazione di genere nella società contemporanea.
I fell in love with Jesus because he looked like a hot 1970s yogi.
Un significativo cambiamento rispetto al libro è costituito dalla location, che a conti fatti rappresenta, oltre che un personaggio aggiuntivo della serie, anche uno dei maggiori motivi del suo fascino a causa delle sue irripetibili caratteristiche. La comunità di Dick invece che essere nella California meridionale è situata a Marfa in Texas, città che Jill Soloway afferma di aver scelto proprio perché unica nel suo genere, distinta da una luce incredibile e posizionata in altura, ma soprattutto popolata da una varietà di persone di assoluto interesse: gli artisti, ovviamente, che a Marfa costituiscono una piccola comunità, ma anche persone che ogni giorno tentano di superare il confine e famiglie che invece vivono lì da più di due generazioni.
Sulla base di questa scelta le autrici e in particolare le due registe principali, Jill Soloway e Andrea Arnold, mettono in scena un luogo magico, una città dei sogni, soprattutto perché vista dagli occhi di una protagonista abituata all’ingessata intellighenzia della East Coast e folgorata dal paesaggio a perdita d’occhio e da una comunità di artisti che si presenta come una cattedrale nel deserto, una roccaforte costituita da tutto ciò che si è sempre desiderato. Marfa è un crogiolo di culture e desideri, il luogo della libera espressione che si contrappone a quello del lavoro, dove l’attenzione al superfluo sovrasta quella verso il pragmatico, dove le emozioni vengono prima delle cose pratiche e dove l’arte può divampare liberamente scavalcando ogni steccato. Allo stesso tempo però si tratta anche di un luogo completamente slegato dalla realtà, in gran parte popolato da privilegiati che non sanno nulla o quasi del mondo esterno, salvo le teorie artistiche e letterarie di cui si occupano. Le autrici fanno di Marfa un posto estremamente politicizzato, uno spazio su cui proiettare le loro visioni del mondo, un crocevia di culture, identità e inclinazioni sessuali, esaltato anche dalla sua controparte sonora grazie alla splendida miscela di brani compresi nelle musiche della serie.
Every letter is a love letter.
Sebbene il quinto episodio rappresenti la vetta dal punto di vista della sperimentazione visiva e narrativa, è l’intera I Love Dick a presentarsi come una delle serie più innovative degli ultimi anni, non solo perché racconta in modo sfaccettato la femminilità e per lo sguardo con cui rappresenta i rapporti uomo-donna, ma soprattutto per come trasforma questi eccellenti contenuti in immagini (quasi sempre) in movimento. Gli artefici di questa riflessione stilistica sono soprattutto Jill Soloway, Andrea Arnold e Kimberly Peirce, che donano alla serie una prospettiva fortemente femminile, alle quali si aggiunge Jim Frohna, unica presenza al maschile alla regia e non a caso autore di “This Is Not a Love Letter”, episodio in gran parte dedicato al confronto tra i due uomini protagonisti.
Il romanzo epistolare di Chris Kraus viene tradotto attraverso un linguaggio inedito per la narrazione televisiva, che per rappresentare un racconto in gran parte in prima persona e mettere in scena un’identità fieramente indisciplinata e anarchicamente vitale come quella della protagonista decide di rompere le regole del decoupage classico e fare abbondante uso di jump cut, fermo immagine e didascalie a tutto schermo, proponendosi come una delle rivisitazioni televisive più intelligenti della lezione della Nouvelle Vague francese e in particolare del cinema di Jean-Luc Godard.
Nella diversificazione di stili, di materiali audiovisivi e formati che caratterizza I Love Dick c’è anche lo spazio per integrare la narrazione seriale principale con frammenti di videoarte. Ogni episodio infatti è aperto e spesso anche interrotto da brevi clip realizzate da registe d’avanguardia (tra cui Jane Campion, Chantal Akerman, Sally Potter, Naomi Uman) i cui filmati, oltre a unire arti visive e impegno politico, si pongono in diretta dialettica con gli episodi in cui sono inseriti.
Ci sarebbero tantissime altre questioni da affrontare per tentare di interpretare in maniera esaustiva questa serie e – consci che tanti argomenti sono rimasti per forza di cose fuori da questo contributo -, non possiamo che consigliare caldamente la visione di quello che è senza dubbio uno degli show più interessanti degli ultimi tempi, una riflessione di enorme portata, dall’inedita complessità e che non può che riguardare tutti gli spettatori. Perché delle tre parole che compongono I Love Dick non sono le seconde due a racchiuderne il senso, nonostante la loro roboante invadenza (e l’oggettiva importanza), ma quella iniziale, composta da una sola, piccola lettera. La serie è infatti prima di tutto un racconto di scoperta interiore, un percorso di self-reflection sul passato, presente e futuro, un’indagine sulla femminilità, ma anche sul desiderio, sulla coppia e sull’arte.
Voto: 10
10 ? Azz . mi tocchera’ di provare a vedere sta serie.
Assolutamente sì.
caro Palmieri, chiedo scusa, ma stavolta non concordo, non tanto sul giudizio quanto sulla valutazione. Capisco l’entusiasmo quando un’opera colpisce ma qui, secondo me, si va un po’ oltre. “I love Dick” è interessante, merita ben oltre la sufficienza ma il 10 è proprio un’esagerazione. Jill Saloway si conferma autrice e regista di tutto rispetto, ci sono momenti di altissimo cinema e altissima scrittura (su tutti “A Short History of Weird Girls”, è vero) ma il film è discontinuo, certe volte si innalza, tocca punte alte (l’esibizione degli artisti in gruppo), altre invece annaspa (la visione degli operai del cantiere) e soprattutto ripete. I personaggi non hanno evoluzione, Chris con la sua ossessione, Sylvère con la sua incertezza, Dick statico e basta. A me sembra che “I Love Dick” vada bene nella staticità della rappresentazione, non so dire meglio (certe sequenze, certe situazioni, certe sottolineature), pecchi molto invece nella dinamicità del racconto. Bene nell’ironia (quel tipo di intellettuale, quel tipo di artista, quel tipo di università), male nelle sottolineature drammatiche (ad esempio le crisi di Chris, il bagno all’aperto, il mestruo).
Non vorrei però aver esagerato al contrario con le riserve, perché “I love Dick” resta uno dei lavori più interessanti degli ultimi mesi, e bene ha fatto lei a segnalarlo.
Caro Peter, non c’è bisogno di scusarsi di nulla, anzi sono io che la ringrazio per questo articolato commento e per aver impiegato del tempo a riflettere su una serie che ho apprezzato così tanto.
Fermo restando che ogni giudizio è legittimo, sia sul piano della valutazione che su quello dell’argomentazione, il voto – che alla fine vale quello che vale – non è altro che la traduzione iper-sintetica di ciò che ho cercato di argomentare nelle righe precedenti, che, mi rendo conto, pur essendo più numerose rispetto alla media delle recensioni, in questo caso sono ancora ben lontane dall’esaurire l’analisi di un lavoro così complesso come I Love Dick.
Non dimentico però le sue obiezioni. Immagino che quando sostiene che “il film è discontinuo” si riferisca alla serie in questione e sono abbastanza d’accordo con lei nel ritenere “A Short History of Weird Girls” la vetta della serie, quantomeno dal punto di vista della sperimentazione; non sono così in sintonia però quando sostiene che in alcuni punti la serie “annaspa”. Lei fa riferimento alla visione degli operai del cantiere, ma le chiederei di essere più specifico e argomentare in maniera un po’ più diffusa questa visione perché sono molto curioso. A me sembra evidente che l’obiettivo delle autrici non sia quello di caratterizzare gli operai, ma di usarli a scopi ben precisi: in alcuni casi come veri e propri soggetti guardanti, come nell’episodio dedicato alla performance di Toby; in altri come elemento di contesto volto a caratterizzare il variegato agglomerato sociale di Marfa; in altri ancora addirittura come elemento performativo, mosso dall’immaginazione di Devon.
Lei sostiene che I Love Dick si ripeta e che nello specifico i personaggi non abbiano evoluzione. Qui, mi dispiace, ma non potrei essere più in disaccordo. Ho bisogno però di fare due premesse: 1) si tratta di una serie di otto episodi da mezz’ora scarsa, in cui il pilot è speso per impostare il racconto e il quinto costituisce una sorta di sospensione narrativa; 2) I Love Dick è una serie che ambisce a unire il racconto con la riflessione sullo stesso, lo storytelling con il saggio audiovisivo “a tesi”. Sulla base di questi due punti a mio avviso che non si può pretendere da una stagione breve come questa un’evoluzione dei personaggi paragonabile ad altre serie (magari lunghe e con modelli narrativi differenti), ma ogni cambiamento va valutato nel dettaglio, in base a piccole cose e valutando con attenzione i punti di partenza e di arrivo di ciascuno. Innanzitutto io trovo che tutto il percorso di Chris sia di tipo evolutivo, impostato sull’autoanalisi, sulla messa a nudo delle proprie fragilità e soprattutto sulla liberazione da alcune gabbie di genere in cui inizialmente è rinchiusa. Ma anche per quanto concerne Sylvère e Dick, come ho cercato di argomentare nella recensione, vi sono cambiamenti significativi, sia per quanto riguarda la messa in gioco della propria persona, sia rispetto al rapporto tra la propria immagine di sé e ciò che realmente un determinato personaggio è o sente di essere. Anche tutti gli altri personaggi, infine, per quanto vivano in uno spazio narrativo limitato che si presta meglio all’esibizione statica che al cambiamento, mi sembra abbiano a loro modo un’evoluzione, in particolar per quanto riguarda Devon e Toby.
Un’ultima cosa riguardo a ciò che dice rispetto alla riuscita della componente ironica e quella drammatica. In una bella intervista che le due autrici principali hanno rilasciato a Todd VanDerWerff su Vox (che può trovare qui: https://www.vox.com/culture/2017/5/12/15619616/i-love-dick-amazon-interview) Jill Soloway afferma: “The thing about comedy and laughter is it’s undeniable. You can watch a serious show and be moved, and you can watch a funny show and laugh. If you can be moved and be laughing at the same time and that laughter isn’t something you fake, it’s a human response. I think it opens people up more.” Personalmente non potrei essere più d’accordo. Una delle grandi qualità di I Love Dick, così come anche di Transparent, è proprio quella di unire una varietà di registri molto diversi tra loro, che nella loro giustapposizione si esaltano a vicenda.
Caro Attilio,
grazie per la cortese risposta che in gran parte condivido. Sì, sono stato un po’ schematico nell’elencare quelli che mi sembravano dei limiti della serie, ma non volevo essere prolisso. Mi limito a ritornare su due punti, sperando di non essere troppo pedante: 1) la scarsa evoluzione dei personaggi; 2) la caratterizzazione degli operai.
1. Non è questione di lunghezza dell’arco narrativo della serie. Otto puntate bastano e avanzano per tracciare uno sviluppo psicologico o comportamentale (“Transparent” da questo punto di vista è inarrivabile). Invece a me sembra che Chris dall’inizio alla fine non fa che “desiderare ossessivamente” Dick. Va benissimo la sua grafomania un po’ delirante (è il fulcro della storia, l’esercizio della sua libido) ma lei puntata dopo puntata insiste a proporsi e ad essere respinta. E le liti e gli accordi tra i coniugi si ripetono sempre uguali. E Dick è tetragono sempre, fino alla sua decisione finale (un po’ improvvisata). Credo non si possa svelare di più e mi fermo.
2. Come dice lei è chiara l’intenzione delle autrici “di usare gli operai a scopi ben precisi”, come “soggetti guardanti” (e passivi) di fronte alla performance nuda di Toby o come elemento di contesto per definire sociologicamente la cittadina di Marfa. Però gli intellettuali, i ricercatori universitari, gli artisti parlano e si esprimono, mentre gli operai sono solo uno sfondo passivo e strumentale. Lo dico ancora più chiaramente: va bene la performance, la provocazione artistica di Toby che sfida con la sua nudità lo sguardo di un gruppo di maschi si immagina vogliosi. Da una parte una donna che si mostra, dall’altra degli uomini che guardano. Poi però c’è il video che mostra la scena e lì l’uso degli operai diventa davvero strumentale, e io ci vedo pure un po’ di razzismo. Forse è soprattutto questo che mi ha fatto prendere la distanza da una serie che,lo ripeto, trovo molto interessante.
Buon lavoro e buone visioni.
Caro Peter,
grazie per l’approfondimento. Sul primo punto non so, io ci vedo una decisa progressione, sia nell’analisi della coppia (ogni litigio mi sembra funzionale al raggiungimento di uno step successivo), sia nell’evoluzione del rapporto tra Chris e il proprio desiderio.
Sul secondo punto mi trovo abbastanza d’accordo, pur non vedendo questo punto di vista come un difetto della serie. Jill Soloway e Sarah Gubbins non fanno un discorso “di resistenza” (mi si passi la definizione estesa), non fanno un discorso di classe né di difesa dei più deboli. Sotto questo punto di vista ribaltano il classico atteggiamento che associa le minoranze alle classi subalterne e ne accoppia le battaglie. Loro si pongono da un’altra prospettiva e ne fanno un discorso culturale, sicuramente d’élite. I loro (e in Transparent le cose sono molto simili) sono personaggi privilegiati, appartenenti a un tessuto sociale molto elevati, istruiti in modo eccellente e culturalmente molto preparati. Associando la difesa della diversità a questo tipo di personaggi il loro messaggio politico non è di reazione ai sistemi di poteri vigenti, ma si pone direttamente come un nuovo ordine. In questo senso capisco che il discorso possa sembrare razzista o classista, ma a me sembra anche abbastanza spietato nel suo sottolineare gli effetti della mancanza di istruzione e cultura sulle classi subalterne.
Bellissima recensione, davvero. Grazie!
Bella, bella, bella!
E’ una serie spettacolare, fresca, dinamica, piena di vita e con molti sprazzi di arte e sperimentazione! Bellissima la recensione, Attilio, e grazie anche a Seriangolo per averla consigliata.