Nel primo anno della nuova presidenza Trump arriva la quinta stagione di House of Cards, una serie televisiva che ha giocato con i lati più spregiudicati – e inverosimili – della politica americana creando una coppia presidenziale che è rapidamente entrata nell’immaginario collettivo.
Non c’è commentatore politico americano che non abbia richiamato alla mente House of Cards nel descrivere la presidenza Trump (tanto quanto The West Wing veniva citato per gli otto anni di Barack Obama); questo sia perché l’attuale Leader del Mondo Libero è al centro di una serie di scandali tutt’altro che secondari, sia per aver dimostrato una certa spregiudicatezza ben lontana – almeno esteriormente – da quella del proprio predecessore. Chiaramente è necessario separare i due mondi: Frank Underwood si è lasciato andare anche ad un paio di omicidi commessi in prima persona. La scelta degli autori, dunque, era molto difficile: con una politica americana che sembra permettere cose inimmaginabili anche solo un paio d’anni fa, come poter continuare il percorso di una serie che non ha mai fatto mistero della propria esagerazione?
La scelta che si poneva, dunque, era tra quella di alzare ulteriormente il tiro con la propria narrazione oppure giocare al ribasso; la preferenza è andata alla prima possibilità e questa quinta stagione di House of Cards abbandona quasi definitivamente l’aderenza al reale per divertirsi (e divertire, ci si sarebbe augurato). Abbiamo così una stagione divisa in due parti: una prima dedicata quasi interamente alle elezioni che hanno – ovviamente – un esito scontato, pur sviluppandosi in una modalità tutta nuova; e una seconda sezione narrativa, che poi è quella un po’ più riuscita, dedicata al pericolo di impeachment nei confronti del presidente e le sue successive dimissioni.
So help me God
Pensiamoci bene: in tredici episodi abbiamo assistito a tre giuramenti presidenziali (Claire 1, Frank 2, Claire 2) rimpallati tra gli stessi due personaggi che si passano pacificamente il potere tra di loro. Messe da parte, dunque, alcune “analisi” sul senso del potere che erano presenti nelle due stagioni d’esordio, House of Cards si lascia andare esclusivamente alla costruzione di una trama che possa essere la più intricata possibile, ricca di colpi di scena e passaggi di mano a tratti inspiegabili. Il risultato finale sarà una stagione altalenante, che può esser goduta solo se ci si lascia andare al flusso della narrazione e si chiude un occhio sulle (troppe) forzature.
Due parti di stagione, si diceva: ed effettivamente la prima nasconde in sé il grande seme della novità, con il sistema elettorale americano che viene condotto in territori inesplorati anche solo per mostrare la sete di potere che accomuna i coniugi Underwood. Si tratta di una sezione complessa da gestire – Frank deve darsi ad un lungo monologo rivolto al pubblico per spiegare cosa sta accadendo, data l’eccezionalità dell’evento – ma che viene portata avanti in un numero troppo ampio di episodi e costringe Kinnaman a bizzarri contorcimenti del proprio personaggio, Will Conway. Tutto ciò si concretizza in una certa lentezza, un’attesa verso quella che sarà – e tale si dimostra – la parte narrativa più interessante e riuscita. Il cadere di Frank all’interno di una spirale discendente che culmina con le sue dimissioni è certamente più vitale in senso narrativo e porta a compimento alcune delle storyline sviluppate fino a quel momento. Allo stesso tempo, però, palesa l’altro grosso ed ormai endemico problema di House of Cards: l’amore eccessivo degli autori per i propri protagonisti.
Torniamo con la memoria alla prima stagione: lì la forza narrativa si sviluppava intorno ad una figura, quella di Frank, disposta a tutto pur di vendicarsi dei torti subiti; si muoveva con una incredibile astuzia e, nonostante le battute d’arresto, riuscì a prendersi le soddisfazioni che tanto desiderava. Da qualche anno a questa parte, però, Frank Underwood è diventato virtualmente imbattibile: è sempre il migliore, il più intelligente, il più furbo; non commette più un errore, non ha mai momenti di vera crisi nel corso dell’intera stagione. E pure quando parrebbe che finalmente ci sia un pessimo segnale per lui, quando viene messo in difficoltà ed arriva a doversi dimettere in quello che teoricamente sarebbe il suo più grande fallimento, si palesa un colpo di scena che sbaraglia tutto e dimostra che si trattava di un suo piano per ottenere un nuovo e maggiore potere. Il dialogo anticlimatico tra i coniugi dell’ultimo episodio sta a dimostrare proprio questo: gli autori non prevedono più per Frank la propria caduta né veri intoppi di percorso, Frank vince anche quando perde. Allo stesso modo, le indagini giornalistiche che girano intorno a lui da anni si fermano senza un nulla di fatto, e non è ancora chiaro che senso abbia avuto Tom Hammerschmidt quest’anno se poi la sua storyline resta senza un vero inizio né una fine. Si è costantemente in attesa di un fallimento che si è sicuri che avverrà, ma che è costantemente rimandato per poter continuare la serie.
Certo, seguire Frank nelle sue evoluzioni è sempre divertente, anche e soprattutto grazie ad un Kevin Spacey che ormai va col pilota automatico; i suoi monologhi e le volte in cui infrange la quarta parete restano alcuni degli elementi di maggior attrattiva per lo spettatore. Nonostante questo, però, di Frank ci viene dato ancora paradossalmente pochissimo ed i suoi lati più umani, che sottendono ad una bisessualità mai davvero gestita, vengono soffocati dal mare magnum degli intrighi politici anche laddove avrebbero meritato un approfondimento ben più significativo (la morte del suo amore giovanile viene fatta passare quasi inosservata).
My turn
Va certamente meglio con Claire Underwood, la quale si libera di uno dei personaggi secondari più insignificanti di questa serie, quel Tom Yates la cui presenza questa stagione è sempre stata avvertita come superflua. La trasformazione di Claire in Presidente richiede l’omicidio rituale del proprio amante quale elemento speculare a quanto avvenuto al marito, ma a differenza di quest’ultimo lei sembra volersi muovere in modo indipendente e senza più legami con nessuno. Robin Wright continua ad imporsi sulla scena, anche se il suo personaggio non ha avuto quest’anno lo spazio per brillare che avrebbe meritato e che ci si sarebbe attesi: perché farla diventare Acting President se poi la presenza di Frank è stata così incisiva da non permetterle questo sviluppo narrativo? Tutto sembra però pronto a cambiare, adesso che è lei ad avere il vero potere in famiglia: ora che la donna si è stancata di essere manipolata da Frank (anche se è vittima di altri burattinai), finalmente può iniziare quella resa dei conti tra i due coniugi che sembra ormai l’approdo obbligato della storia da qualche anno a questa parte (certo, ciò significherebbe anche la conclusione della serie che Netflix al momento non pare intenzionata a fermare). Se poi a questo aggiungiamo che Claire inizia a rivolgersi al pubblico – e c’è da scommettere che il prossimo anno lo farà ancora più spesso – possiamo dire che gli ingredienti per renderla ancor più protagonista ci sono tutti.
Così come la stagione ha avuto fasi molto diverse per ritmo e narrazione, anche i personaggi secondari hanno avuto momenti più o meno riusciti, a seconda del ruolo che hanno giocato nel grande scacchiere politico. Prendiamo Romero: che cosa ha rappresentato il deputato, se non un villain (se così possiamo parlare in una serie del genere) che non ha mai avuto alcuna chance e la cui conclusione patetica è l’approdo finale di una presenza di questo tipo? E qual è stato lo scopo di Sean, la cui evoluzione è pressoché nulla?
Ben diverso è, per fortuna, la sorte dei due personaggi più riusciti della stagione, Jane Davis e Mark Usher (interpretati rispettivamente da Patricia Clarkson e Campbell Scott), introdotti a poco a poco ma che riescono a farsi largo in tutta questa confusione. Per quanto riguarda la prima, si tratta di un’aggiunta azzeccata in questo coacervo di serpi, una donna che sembra essere abilissima in questo gioco ed in grado di manipolare persino gli Underwood; la sua calma serafica e la sua intelligenza la pongono costantemente in bilico. Per lo spettatore è una boccata d’aria fresca vedere che vi è qualcuno che possa dare del filo da torcere ai due protagonisti; la recitazione della Clarkson, poi, è perfettamente calibrata su questo personaggio e ruba la scena in non poche occasioni. Non troppo distante anche il caso di Usher, il quale, evitata la sindrome dei personaggi secondari (quella di giurare fedeltà assoluta agli Underwood nonostante questi li usino come burattini), gioca con calma le sue carte ed alla fine sembra anche far saltare in modo brillante il tavolo.
Sono proprio queste due nuove aggiunte a tirar su una’annata che ha faticato non poco a crescere e a svilupparsi. La quinta stagione di House of Cards mostra tutta la stanchezza di una serie che è al suo quinto anno e che, per assurdità e spregiudicatezza, è sempre più rincorsa dalla strana realtà nella quale ci troviamo. La sesta stagione, già prevista da Netflix, dovrebbe essere l’ultima, se si vuole conservare quel senso di coesione che sta già cominciando a mancare: come leggere se non in questa direzione l’improvvisa illuminazione di Frank che sembra disinteressarsi alla Presidenza – che poi era il suo obiettivo sin dall’inizio – per darsi al privato, in un ticket con la moglie quale Capo dello Stato? Le idee cominciano a scarseggiare ed una lotta finale tra Claire e Frank sembrerebbe essere l’approdo nuovo e necessario per portare avanti la serie, se non la si vuole del tutto privare delle proprie forze.
Voto Stagione: 6
Ciao Mario, sono d’accordo solo in parte. E’ vero, gli autori hanno forzato la mano per portare la serie ad un livello più surreale (neanche troppo), ma nonostante questo, e alcuni personaggi poco riusciti (tipo Tom la cui morte non ha fatto piangere nessuno, ma è servita esclusivamente a cancellare la poca anima rimasta di Claire), la stagione rimane ancora ad altissimi livelli, a mio parere superiore a un 6 senza infamia né gloria. Le interpretazioni sono ancora da grande cinema, i dialoghi non accennano a peggiorare, e, questo Frank virtualmente imbattibile, mi sembra una buona rappresentazione del potere nella sua forma più grande. Non può essere sconfitto, prima o poi accadrà, ma probabilmente non per le motivazioni che noi tutti ci aspettiamo. Poi sì, senza dubbio ci sono state alcune scelte un po’ scontate e un eccessivo perdersi della trama, ma HoC resta ancora uno dei migliori prodotti Netflix in circolazione, e sicuramente la miglior serie di fantapolitica che la storia ricordi fino ad oggi.
Capisco la tua posizione, pur non condividendola appieno. Per esempio se parliamo di fantapolitica, come miglior serie probabilmente ci vedo molto più The West Wing, con tutti i difetti di una serie che ormai ha i suoi anni (e che è meno spregiudicata ma certo più “realistica”, se vogliamo). Per quanto mi riguarda – ed è quello che ho cercato di dire nella recensione – troppe volte ho avuto l’impressione che dovessi dire “ok” alle decisioni degli autori anche quando non mi sembravano aver senso. Prendiamo Will Conway: ma quanto male è stato gestito il suo PTSD? E soprattutto perché dedicarvi del tempo per poi dimenticarselo in virtù di una seconda parte che si dedica ad altro? Oppure vogliamo parlare dell’assurdità di Frank che spinge Cathy per le scale? Fino ad arrivare a Frank che improvvisamente decide che vuole fare il private contractor (!!!). A mio avviso la serie rimane godibilissima, per carità, e gli attori sono formidabili; ma alla quinta stagione non è più sufficiente a tenermi incollato allo schermo. Personalmente sono riuscito a superare molti ostacoli grazie al binge-watching, altrimenti i difetti che personalmente ho elencato sarebbero risaltati molto di più.
Sì, hai ragione, il binge ne facilita molto la visione. Non posso darti torto sull’assurdità di alcune scelte, sarà che sono stato troppo ammaliato dai protagonisti per avere un approccio abbastanza critico. Quest’anno gli autori hanno voluto osare di più, anche se credo sia una tendenza Netflix degli ultimi tempi, vista anche con la 5 di Orange is the new black e con l’ormai rimpianto Sense8.
Sono d’accordo con Mario. Questa stagione non buca lo schermo. Io non sono riuscito a finirla e mi sono fermato al settimo episodio. Troppa convoluzione, troppe manovre tutte interne al palazzo.
Ho anche avuto l’impressione che la stagione avesse budget limitato, visto che in diversi casi gli auguri hanno risparmiato (e.g., I discorsi di Frank e Claire nella campagna elettorale in cui non si vede il pubblico, oppure la fuga dell’hacker e la sua cattura solo raccontata e non mostrata).
È una stagione molto sotto le aspettative, non me l’aspettavo da HoC, secondo me sei stato anche buono col voto ????
Premetto che il mio giudizio é parziale (mi mancano quattro puntate) e non ho letto la recensione in modo molto approfondito per evitarmi spoiler: l’impressione é che con l’elezione di trump (con tutti gli accadimenti degli ultimi tempi, russiagate in primis), la realtá sia diventata meglio di qualsiasi finzione e ci si debba inventare situazioni sempre piú inverosimili. Non dico che ció sia necessariamente un male, ma non so cosa si inventeranno dopo le elezioni sospese in due Stati per finti attentati.
Mi sembra anche che il personaggio di Frank sia un po’ impantanato nei soliti giochetti di potere, ricatti ecc.., tutte cose che sembrano giá viste; anche il personaggio di Doug mi sembra in una fase di stanca.
Spero di essere smentito con le ultime puntate, ma finora mi sembra la stagione piú debole.
D’accordissimo sulla stanchezza della serie, sulla sufficienza stentata di questa stagione e sull’assurdità esagerata di certe situazioni; lo sono meno, invece, per il giudizio positivo sulla seconda parte di stagione (che ho trovato esageratamente macchinosa, intricata e abbozzata) e sui personaggi di Usher e Davis (ancora troppo poco incisivi e poco approfonditi rispetto a quanto potevano essere Peter Russo, Zoe Barnes e Meechum, ultimi comprimari degni di nota della serie). Questa serie è arrivata al capolinea, forse già da tempo, ma mai come quest’anno si è vista la mancanza di idee e di coerenza narrativa da parte degli autori. Claire che oltrepassa la quarta parete è interessante, ma non sembra riuscire a reggere il confronto con Frank (Kevin Spacey è a un livello troppo alto). Speriamo bene per la prossima, una degna conclusione potrebbe riabilitare almeno un po’ questa serie.