Cosa si cela dietro l’esuberanza e il cinismo che caratterizzano le esibizioni degli stand-up comedian? Come possono, questi ultimi, coinvolgere nel profondo un pubblico distratto e costantemente ubriaco attraverso poche battute? I’m Dying Up Here cerca di rispondere a queste domande, trascendendo volutamente il semplice aspetto comedy per immergerci in una dimensione ben più tragica e decadente. Basata sull’omonimo romanzo di William Knoedelseder, la serie si propone infatti di raccontare la scena della stand-up comedy nella Los Angeles dei primi anni Settanta.
In un luogo che ha sfornato star del calibro di George Carlin e Andy Kaufman (come anche lo stesso Jim Carrey, uno dei produttori dello show), e in quello che era un periodo duro e competitivo, I’m Dying Up Here ci presenta un giovane gruppo di stand-up comedian che cerca di raggiungere il successo esibendosi nel club gestito da Goldie (Melissa Leo), un’esuberante sforna-talenti il cui personaggio si ispira a Mitzi Shore, la fondatrice del celebre “The Comedy Store”.
Le esibizioni dei comici sono volutamente sopra le righe, con la precisa intenzione di perseguire una comicità libera da ogni tipo di tabù, figlia dell’accesa ribellione giovanile che caratterizza quegli anni: aborto, sesso, razzismo, religione, droga sono solo alcuni degli argomenti trattati dai protagonisti. Le loro performance sono inoltre compiute a stretto contatto con il pubblico, che spesso interviene in modi inaspettati (e a volte crudeli), costringendo i comedian a improvvisare risposte pungenti su due piedi e mettendo in moto un processo di azione-reazione che concorre a sfumare sempre di più i confini tra esibizione e pubblico e che, nelle performance più riuscite, arriva a creare una profonda connessione e condivisione di sentimenti e di stati d’animo. Tutto questo ha contribuito a rivoluzionare l’idea stessa di comicità, ampliando esponenzialmente i suoi orizzonti.
Spontaneità e arguzia sono dunque richiesti ai giovani protagonisti del club di Goldie che, in questo pilot, vediamo alle prese con i numerosi ostacoli da superare per raggiungere il successo tanto agognato.
It’s all about the climb.
Gli aspiranti comedian vivono fra il desiderio di realizzare il loro sogno e l’ambiente competitivo e spesso degradante in cui devono lavorare.
Il personaggio di Clay Apuzzo – interpretato da Sebastian Stan – è l’esempio perfetto di chi ce l’ha fatta; egli si pone come ispirazione massima nei confronti dei protagonisti che, nel vedere le sue esibizioni in televisione, immaginano e sognano di trovarsi al suo posto, aspirando a quel momento in cui potranno forse considerare gli sforzi e le ingiustizie passate come dei gradini indispensabili al raggiungimento dei loro obiettivi.
Quella di I’m Dying Up Here è una gioventù dalle radici tagliate, risultato del divario incolmabile con la generazione precedente: è per questo che i protagonisti vivono nel presente solo in vista di quei pochi minuti di celebrità che sperano di ottenere. Uno dei punti di forza della serie è infatti la profonda conoscenza, da parte degli autori, dell’ambiente che raccontano e delle sue interazioni. Ogni personaggio, nel pilot, acquista così la propria dimensione e il proprio stile fin da subito, a dispetto dei pochi minuti a disposizione.
In questo racconto corale, pieno dunque di personalità dalle numerose sfaccettature, ciò che accomuna i giovani comedian è proprio la voglia di lasciare il segno, di combattere quella caducità che sembra aleggiare costantemente nelle loro vite sfrenate. E allora, la voglia di diventare star della comicità accompagna e riflette il desiderio più profondo di riuscire a salvare qualcosa dall’inesorabile e crudele corsa della vita, la cui insensatezza si manifesta come un fantasma nelle vicissitudini dei protagonisti.
Non è un caso, dunque, che gli autori abbiano deciso di basare questo primo episodio sull’avvento di un’inaspettata tragedia, che ribadisce ulteriormente la fugacità e l’imprevedibilità dell’esistenza e che concorre alla messa in scena di un’atmosfera decadente ed esistenziale, alzando il livello generale della serie e permettendole di non disperdersi fra gli altri numerosi prodotti che si basano sulla stand-up comedy.
Real laughter, it’s cathartic.
La tragicità di I’m Dying Up Here è presente anche nella consapevolezza, da parte dei protagonisti, di combattere per qualcosa che non sono sicuri di ottenere: il mondo dello spettacolo è crudele e non offre alcun tipo di garanzie. Ogni loro tentativo è quindi un offrirsi in pasto ai freddi commenti del pubblico e di Goldie, che deciderà di dare loro più visibilità solo quando saranno “pronti”. Ma cosa vuol dire essere pronti in questo tipo di ambiente?
La risposta offertaci dalla serie permette di caratterizzarla come un prodotto dramedy a tutti gli effetti: chi vuole coinvolgere appieno un pubblico così variegato non deve solo dimostrare di essere carismatico e divertente, ma dev’essere soprattutto in grado di abbracciare i propri demoni interiori e di presentarli ironicamente agli sconosciuti che ascoltano, incrementando l’empatia e il coinvolgimento. Soltanto in questo modo – con il disvelamento di quegli aspetti di se stessi che spesso sono i più intimi e imbarazzanti – i nostri stand-up comedian potranno lasciare il segno.
È evidente quanto gli autori, attraverso queste scelte, cerchino di donare più visibilità e dignità a un lavoro che viene troppo spesso sottovalutato o banalizzato. Il lavoro dei comici presuppone una completa e difficile messa a nudo della loro personalità; un vero e proprio “donarsi” al pubblico con il tentativo di afferrare quelle sottigliezze che tutti abbiamo in comune.
Capace di coinvolgere, di divertire, ma anche di far riflettere, l’esordio di I’m Dying Up Here è quindi positivo, anche se non privo di difetti e di rischi. Il punto più debole della puntata è proprio la messa in scena degli anni Settanta, le cui caratteristiche sono state marcate in modo così forte da rendere la rappresentazione fin troppo convenzionale. Inoltre, il gran numero di personaggi e di storie secondarie rischia di dirigere la narrazione verso un’eccessiva dispersione, che potrebbe così soverchiare i pregi della serie.
Nonostante ciò, lo show curato da Jim Carrey riesce per ora ad inserirsi con dignità e versatilità nel sempre crescente novero dei prodotti dramedy, e non ci resta che guardare le prossime puntate per scoprire se si tratta di una scommessa in tutto e per tutto vincente.
Voto: 7