A pochi giorni dal rilascio dei nuovi episodi di Black Mirror, torna su BBC l’altra serie antologica britannica per eccellenza: Inside No. 9, anch’essa giunta alla sua quarta annata. Proprio come la ben più nota serie di Charlie Brooker, con l’accumularsi degli episodi anche la creatura di Reece Shearsmith e Steve Pemberton si trova a fare i conti con il rischio di fossilizzazione della scrittura in determinati standard stilistici e contenutistici, e di conseguenza con la necessità, sempre più pressante, di ampliare i propri orizzonti narrativi e rafforzare l’attitudine sperimentale che ne hanno permesso il successo fin dal suo esordio nel 2014.
A giudicare da “Zanzibar”, la premiere di questa nuova stagione, gli autori si dimostrano ben consapevoli di queste problematiche, e decidono di confezionare un episodio che per certi versi si distacca in maniera decisa dall’Inside No. 9 che conosciamo, pur senza snaturarne l’essenza.
Ambientato interamente al nono piano dell’albergo che dà il titolo alla puntata (ampliando così i limiti spaziali che solitamente caratterizzano la serie), questo capitolo raccoglie infatti l’eredità sperimentale del passato, che consiste innanzitutto nell’intelligente rilettura dei generi più disparati (pensiamo ad esempio al bellissimo “A Quiet Night In” e al suo omaggio al cinema muto), abbandonando però l’elemento disturbante che solitamente caratterizza la serie. Prendendo le mosse da “The Understudy”, già ispirato nei temi e nella struttura in cinque atti al Macbeth, i due decidono di omaggiare nuovamente Shakespeare, ma questa volta fanno le cose in grande: l’intero episodio, infatti, non solo presenta tutti i topoi caratteristici della commedia shakespeariana, ma risulta anche interamente scritto in pentametri giambici, senza però mai scadere nella mera esercitazione di stile.
“Zanzibar” è quindi una classica commedia degli equivoci, in cui scambi di identità e di coppie, colpi di scena, tradimenti e agnizioni danno vita a un ingranaggio narrativo perfetto, impreziosito dalle continue rotture della quarta parete e sostenuto da un cast in piena forma (oltre a Shearsmith e Pemberton non possiamo non menzionare Rory Kinnear, che prosegue la tradizione di guest star eccellenti della serie). Ciò che è ancora più interessante notare, però, come si accennava poco sopra, è la rinuncia degli autori al colpo di scena a tutti i costi (quelli presenti erano infatti ampiamente prevedibili nell’ottica dell’omaggio a un certo tipo di narrazione) e soprattutto all’atmosfera dark che solitamente permea la serie, in maniera non dissimile da quanto sperimentato di recente da Brooker: non a caso infatti la storyline del tentato assassinio del principe resta sempre sullo sfondo, per poi risolversi in maniera esilarante e perfettamente in linea con il tono farsesco della puntata, portando una ventata d’aria fresca all’interno dello show.
“Bernie Clifton’s Dressing Room”, pur essendo legato alla premiere da un sottile filo rosso rappresentato dalla riflessione sul teatro e lo spettacolo, se ne distacca profondamente nei toni e nell’impostazione, confermando il potenziale narrativo dello show, nonostante il ritorno a schemi e espedienti più consolidati. Se “Zanzibar” è in tutto e per tutto un episodio corale, questo secondo capitolo al contrario torna a fondarsi nella sua interezza sulle doti, attoriali e di scrittura, dei due creatori e protagonisti, che insieme danno vita a una riflessione a tratti nostalgica e a tratti spietata sulla storia recente della comicità britannica (i cui riferimenti risultano di non facile lettura per il pubblico più giovane e soprattutto non inglese), la quale si intreccia efficacemente con il racconto della fine di un rapporto professionale e di amicizia. In soli trenta minuti, grazie al continuo alternarsi di sketch vecchio stile, goffi tentativi di aggiornamento e duri confronti tra i protagonisti, Shearsmith e Pemberton riescono a dipingere in maniera estremamente credibile e coinvolgente il legame che ha unito Cheese e Crackers e le motivazioni che li hanno allontanati, preparando il terreno per la rivelazione finale, in cui scopriamo di aver in realtà assistito a un monologo interiore del primo a seguito alla morte del compagno. In quest’ottica quindi il colpo di scena, per quanto si appoggi a meccanismi simili a quelli alla base di due capolavori della serie (“Tom & Gerri” e “12 Days of Christine”), riesce comunque a colpire nel segno proprio grazie alla sua portata emotiva: la trasfigurazione della reunion in eulogia e dell’incontro-scontro in un addio unilaterale e colmo di rimpianti non punta infatti a stupire lo spettatore, quanto più a commuoverlo e a consolidare il tono agrodolce del racconto, inserendosi al suo interno in maniera quanto mai organica.
Nel complesso, pur non toccando i vertici del passato, questi due primi episodi dimostrano come gli autori siano ancora perfettamente in grado di sfruttare il variegato potenziale che scaturisce dal formato antologico della serie, variando i toni quanto basta per evitare l’effetto déjà vu.
Voto 4×01: 7½
Voto 4×02: 7+