Lena Waithe ha soltanto 33 anni e un curriculum già impressionante: è stata la prima donna di colore a vincere un Emmy per Outstanding Writing for a Comedy Series grazie a “Thanksgiving”, uno degli episodi più significativi di Master Of None, ma ha anche una carriera lanciatissima come comedian, scrittrice, attrice e produttrice (tra gli altri, del film Dear White People nel 2014). Non stupisce, quindi, la curiosità che si era sviluppata intorno a The Chi, opera autobiografica ispirata alla sua infanzia nel South Side di Chicago. Tanta curiosità e tanta attesa equivalgono ad altissime aspettative, che i primi due episodi riescono a soddisfare soltanto in parte.
“At the end of the day, it’s like, I care about my people. Like, that’s what I care about. I have a vested interest in the black men, black women, poor community — I care about us and trying my best to show who we are, through my lens. How can I paint an accurate picture of what black life is? I know my people and I want to write for them. I want to write to them.”
(Lena Waithe a
La trama di The Chi parte da un quartiere, il South Side appunto, in cui Lena è cresciuta e che nel 2015 ha ospitato un numero incredibile di atti violenti (468 omicidi e 2.900 sparatorie) e comincia proprio con un omicidio, di cui il giovane Coogie è testimone e in cui resta ben presto coinvolto. Il dramma finisce per trascinare con sé la sua famiglia – in particolare il fratellastro aspirante chef, alter ego della Waithe – la famiglia del ragazzo morto, il piccolo Kevin (altro involontario testimone), la polizia e molti altri che ruotano attorno alla vita del quartiere e cercano, con vari gradi di successo, di migliorare la propria vita e chiamarsi fuori da una catena di violenza che pare intrappolarli senza possibilità di scampo.
The Chi nasce quindi da un’esigenza ben precisa, esplicitata dalla stessa Waithe: quella di raccontare la comunità black, in particolare quella povera dei sobborghi più malfamati, descrivendola nella maniera più accurata possibile attraverso il proprio punto di vista. Questa vocazione quasi educativa traspare da ogni fotogramma dello show, che poggia le sue radici nel racconto metropolitano seriale americano (Shots Fired, The Corner) mantenendone intatta la struttura corale e lo stile narrativo intercomunicante, ma spostando la propria attenzione sulle persone anziché sul sistema: tanto il punto di vista di David Simon riesce a distanziarsi dall’evento e dal dramma del singolo per dipingere un quadro d’insieme più ampio, quanto l’occhio della Waithe ha invece l’ambizione di raccontare un mondo proprio attraverso le vicende dei personaggi, che si incrociano a comporre una vicenda sfaccettata e complessa.
Più che sulla trama crime, quindi, The Chi si concentra sulle vite e sulla quotidianità dei suoi protagonisti, con un’attenzione e un tono che più che The Wire ricordano la tradizione del british drama (non per niente l’autrice ha elencato tra le proprie fonti di ispirazione anche Downton Abbey), puntando all’approfondimento psicologico molto più che alla fredda analisi sociologica. Ed è proprio questo il punto di forza, ma al tempo stesso anche la debolezza di questi due episodi, perché alla crudezza delle vicende raccontate fa da contraltare uno stile molto meno crudo, che punta esplicitamente al melodramma patinato stile Shameless. La scrittura è così attenta da rasentare il didascalico, mostrando spesso un eccessivo intento pedagogico e uno sforzo fin troppo evidente nel voler mandare un messaggio, facendo procedere una trama complessa e articolata fino al punto di risoluzione, ma a spese della caratterizzazione e dell’evoluzione dei protagonisti.
Da un punto di vista estetico, The Chi mostra la volontà di essere un prodotto prima di tutto gradevole e piacevole da seguire, ma anche questa è un’arma a doppio taglio: la colonna sonora è sicuramente incisiva ma fin troppo ricca e glamour, ed è piazzata strategicamente a sottolineare ogni momento drammatico; la fotografia è corposa e colorata, ma insieme ai costumi davvero eccessivamente ricercati finisce per produrre un effetto di straniamento e incoerenza con il soggetto. In alcuni momenti, specialmente nel pilot, questo mash up di stili funziona in modo egregio e sembra di assistere a un felice incrocio tra This Is Us e Treme, in cui si fondono la profondità del racconto e lo stile del drama di stampo generalista. Ma in altri momenti (e sempre più spesso nel secondo episodio) l’estetica patinata finisce per anestetizzare l’urgenza degli argomenti, poco aiutata da interpreti che non sempre si rivelano all’altezza della complessità delle emozioni.
The Chi ha l’ambizione di raccontare una realtà estrema e contraddittoria utilizzando come filtro espressivo un linguaggio estraneo ai canoni di questo tipo di storie, un’intenzione simile a quella di Moonlight (il film premio Oscar di Barry Jenkins, con cui condivide anche il protagonista, il bravissimo Alex Hibbert) o a certi lavori di Spike Lee. Un’operazione che presumibilmente punta ad evitare ogni stereotipo e banalizzazione della questione black, portandola su un piano di discorso estetico più raffinato, meno militante e sicuramente più appetibile per il grande pubblico. Ma l’impressione è che la Waithe finora non padroneggi completamente la sua creatura e spinga troppo spesso sul pedale della pedagogia e della comprensibilità, sacrificando le sfaccettature dei personaggi in favore di un messaggio e annacquando la carica emotiva delle contraddizioni della realtà in favore di una trama che spesso prende il sopravvento su qualsiasi altra cosa.
In sostanza, The Chi è uno show che merita di essere seguito ed esplorato, che potrebbe crescere molto da un punto di vista narrativo nei prossimi episodi vista la ricchezza del materiale di partenza. P er il momento, tuttavia, il timore è che finisca per soccombere alle proprie carenze strutturali, seppellendo la carica drammatica e i personaggi sotto la retorica e l’urgenza stessa del racconto.
Voto: 7-
Come si direbbe a Roma, The Chi? Ma de che! Ma la talentuosa Waithe l’ha visto The Wire? Ha dato un’occhiata ad Atlanta? Misà di no perché quello che lei vorrebbe raccontarci con questa opera stemperata e diluita fino all’insipido, è stato già narrato con approcci di gran lunga più coraggiosi. Bah! A me è sembrato solo un contenitore di stereotipi all’altezza di Empire.