La scorsa settimana ha visto l’approdo su Netflix di uno dei prodotti più peculiari degli ultimi tempi; un’ulteriore scommessa messa in campo dal celebre servizio streaming che sembra sempre più deciso, ormai, a proporre show intriganti e ambiziosi. Maniac è, appunto, l’ennesimo frutto di questo tipo di ricerca, ed ha catturato subito l’attenzione e i dubbi degli spettatori a causa della natura del tutto peculiare che le appartiene: si tratta di uno show che colpisce – in bene e in male – per la sua intenzione di dare libero sfogo a una creatività tanto esplosiva da oltrepassare i limiti generalmente presenti nella creazione di una serie tv.
Non stupisce, dunque, che le impressioni del pubblico si siano quasi spaccate in due: c’è chi ha apprezzato questo slancio creativo e chi, invece, ha un po’ perso la pazienza davanti alla visione di un universo che, per quanto intrigante, si è presentato in modo eccessivamente dispersivo. Maniac si è fatta notare, infatti, non solo per una trama particolare e piena di vicende contorte, collegate le une alle altre con intrecci spesso imprevedibili; ma anche e soprattutto per una realizzazione che salta ben volentieri da un genere narrativo (ed estetico) ad un altro, scegliendo così di rappresentare la mente umana in un modo a dir poco unico, ma anche molto rischioso.
Giocare con la mente
È proprio l’esplorazione della mente umana, infatti, a fare da base a tutto l’impianto della serie. I protagonisti di Maniac, Annie e Owen – e tutti i partecipanti all’esperimento dell’azienda farmaceutica –, iniziano il loro percorso immersi in una situazione di solitudine e/o dolore, dovuta in genere alla presenza di disturbi mentali che hanno, in un modo o nell’altro, spezzato la serenità dei personaggi e reciso loro la possibilità di condurre una vita piacevole o, quantomeno, priva di dolore e disagio.
Questi elementi da soli avrebbero giustificato la curiosità e i dubbi scaturiti da una trama, sì, interessante, ma che sceglie di trattare argomenti – disturbi mentali, futuri distopici, esperimenti scientifici, ecc. – non certo nuovi nel novero dell’attuale scenario televisivo (basti pensare alle similitudini che possono essere notate con alcune delle serie tv più recenti quali, ad esempio, Black Mirror e Legion). Il fatto che lo show sia stato curato da Paul Sommerville e da Cary Fukunaga – famosi e apprezzati rispettivamente per il loro lavoro in The Leftovers e in True Detective – e interpretato da attori validi come Emma Stone e Jonah Hill ha alzato ancora di più le aspettative nei confronti della serie, chiamata ad affrontare i temi di cui si diceva prima in modo non scontato.
La possibilità di inoltrarsi nelle diverse sfaccettature della psiche ha permesso agli autori di sbizzarrirsi nella creazione di un universo onirico e retro-futuristico che non sembra avere mezze misure. I protagonisti e, soprattutto, gli spettatori si trovano così catapultati in un contesto in continua evoluzione e pieno di cambi di scenari, che si diverte a giocare con le infinite possibilità scaturite dall’esplorazione dei loop mentali a cui sono sottoposti i protagonisti. Si tratta di un lavoro indubbiamente difficile e ambizioso, il cui risultato finale ha però il merito di aver messo in scena soluzioni creative e spassose, capaci di colpire e intrigare gli spettatori per una poliedricità che, proprio nelle sue stranezze, si fa spesso accattivante e originale.
Ma non solo: l’eccentricità che pervade ogni episodio di Maniac non si limita alla rappresentazione dei trip dovuti alla somministrazione dei farmaci, ma si espande anche al “mondo reale”, in particolare (e soprattutto nella seconda metà della stagione) concentrandosi sulle figure degli scienziati responsabili dell’esperimento, prede anch’essi di deliri di vario tipo. Un’intuizione, questa, che concorre a inserire il disturbo esistenziale anche nelle menti di chi si propone di “curare” questa condizione, arrivando quasi a suggerire che questo disagio sia una parte fondamentale della stessa esistenza umana, la cui fragilità espone di continuo ogni individuo al rischio di incappare in traumi e disturbi di ogni genere.
Tuttavia, nonostante l’indubbia resa tecnica dello show nel suo muoversi repentinamente fra scelte narrative ed estetiche di ogni genere, a Maniac sembra mancare quella consistenza di fondo che avrebbe evitato l’incappare in una dispersività che, purtroppo, non tarda a farsi sentire.
Tanto caos, poco spessore
Il problema fondamentale si trova proprio nella scrittura dedicata ai due protagonisti, la cui evoluzione non è mai abbastanza incisiva per riuscire a fare da collante alle numerose e variegate vicende sopra le righe presenti nello show. È un difetto, questo, che viene inizialmente mitigato dalle ottime interpretazioni di Emma Stone e Jonah Hill – capaci di immergersi negli innumerevoli generi narrativi della serie con spiccata abilità – ma che, a lungo andare, si fa sentire, danneggiando purtroppo la riuscita complessiva della serie.
Si ha l’impressione, infatti, che il percorso di Annie e di Owen verso la liberazione dai propri traumi, lungi dall’essere l’elemento fondamentale dello show, sia stato utilizzato invece come supporto all’onirica e sfrenata rappresentazione dell’universo che li circonda. In poche parole, Maniac sembra alla ricerca spasmodica di un’eccentricità che, nel dare più attenzione alla forma rispetto al contenuto dei propri elementi, risulta fin troppo forzata; questo condanna le storyline dei protagonisti ad una mancanza di spessore che conduce la serie ad incappare in una forte dispersività, con il rischio fin troppo alto di stancare e confondere gli spettatori.
Anche la connessione onirica ed affettiva che lega i due dall’inizio della serie e che trova la sua realizzazione definitiva nel finale di “Option C” non colpisce come dovrebbe. Questo legame, infatti, sembra rispondere fin troppo a uno schema predefinito che tende a forzare, puntata dopo puntata, le continue interazioni fra Annie e Owen senza mai riuscire, di conseguenza, a donare loro la spontaneità e la naturalezza che servirebbero per reggere il peso complessivo dell’intero show.
Il ricongiungimento affettivo fra i due nel finale di stagione, proprio a causa di questa inconsistenza di fondo e della mancanza di una vera e propria elaborazione dell’esperimento da parte dei protagonisti, non riesce a dare giustizia all’entità delle esperienze vissute nel corso delle puntate, svuotando di intensità la narrazione.
Un esperimento riuscito?
La resa complessiva dello show è stata indubbiamente condizionata dai problemi appena riscontrati, senza i quali Maniac avrebbe avuto un impatto più positivo. Ma è giusto affermare che questi difetti abbiano rovinato la serie in generale? Cercare di dare un giudizio obiettivo a Maniac è molto difficile, e questo la dice lunga sulla sua peculiare natura: l’apprezzamento o meno dello show dipende (non del tutto, ma in buona parte) dalla sensibilità personale di ogni spettatore. L’esagerazione e lo spirito grottesco della serie rischia, infatti, di giocare un po’ troppo con la pazienza del pubblico, che potrebbe sentirsi stanco e scombussolato da una tale alternanza di generi e di situazioni.
Tuttavia, è impossibile negare la creatività e la resa tecnica ed estetica nella gestione e nella cura dei numerosi intrecci narrativi e visivi presenti nella serie. Guardare Maniac vuol dire davvero trovarsi improvvisamente immersi in un mondo onirico che confonde un po’ troppo, certo, ma che riesce anche ad ammaliare e a divertire.
La spinta quasi rivoluzionaria dello show riesce a trovare i suoi maggiori punti di forza non solo in un cast di prim’ordine – oltre alle interpretazioni di Emma Stone e di Jonah Hill, è impossibile non citare un’immensa Sally Field nel doppio ruolo della madre di Dr. James e della parte “umana” di GRTA –, ma anche nella maniera intelligente con cui ha deciso di affrontare temi difficili quali la depressione, la dipendenza, la schizofrenia e l’elaborazione del lutto.
Ogni puntata è infatti permeata da un’ironia di fondo che è capace non solo di guidare bene il ritmo altisonante della serie, ma anche di donare a quest’ultima una leggerezza tale da poter affrontare determinati argomenti senza scadere in una pesantezza drammatica che sarebbe stata fatale all’impostazione generale di Maniac. Questa stessa leggerezza, inoltre, ha permesso allo show di caricarsi di una vena comedy che ha saputo ben sposarsi con l’eccentricità della narrazione e ha concorso a rendere la visione dello show più spassosa e coinvolgente, riuscendo talvolta a farsi perdonare per alcuni dei difetti indicati in precedenza.
In definitiva, Maniac è riuscita ad imporsi come uno dei prodotti più audaci e particolari degli ultimi tempi: capace di intrigare e di divertire il pubblico con una creatività a dir poco dirompente, non è però sempre riuscita a reggere il peso delle proprie ambizioni, cedendo ad alcune forzature che hanno condizionato la resa complessiva dello show, ma che non bastano comunque ad eclissarne i punti di maggiore forza e originalità.
Voto: 7
Appartengo alla seconda categoria di spettatori e ho faticato davvero tanto ad arrivare alla fine. Più che un esperimento mi è sembrato lo showreel autocelebrativo di Fukunaga, il regista del momento, perfetto per ogni genere, dalla fantascienza al fantasy passando per il crime, la comedy e il mob gangster (se non sbaglio è subentrato alla guida del prossimo 007).
E guardando un prodotto così si riaffaccia maliziosamente una domanda: ai tipi di Netflix interessa di più la qualità o la quantità?