Homecoming – Stagione 1 9


Homecoming – Stagione 1Da quando Jennifer Salke ha preso il controllo della direzione creativa degli Amazon Studios in seguito alla fuoriuscita di Roy Price (accusato di molestie sessuali), le produzioni originali dell’azienda stanno portando avanti in maniera accelerata una linea già preesistente, basata sul prestigio, sui nomi di autori e interpreti, sulla sperimentazione e sull’autorialità. Homecoming ha tutte le credenziali per inserirsi in questo solco e costituirne uno dei più felici emblemi.

La serie ha origine da un podcast omonimo, estremamente apprezzato negli Stati Uniti e prodotto da Gimlet Media. Ad essere narrata è soprattutto la storia di Heidi, assunta da una misteriosa compagnia privata per il progetto Homecoming, che consiste, almeno superficialmente, nel reintegrare i veterani di guerra che soffrono di disturbi da stress post traumatico (PTSD). A dare la voce ai personaggi del podcast ci sono attori di grande levatura come Catherine Keener, Oscar Isaac e David Schwimmer, mentre l’intero progetto è creato e scritto da Eli Horowitz e Micah Bloomberg.
A questi ultimi Amazon ha affidato il compito di lavorare alla trasposizione dal formato audio a quello audiovisivo, lasciando firmare a loro tutte le sceneggiature, mentre per la messa in scena e il coordinamento della produzione della serie è stato chiamato Sam Esmail, conosciuto soprattutto per aver creato, scritto e diretto Mr. Robot, una delle serie più sperimentali degli ultimi anni dal punto di vista formale. A cambiare sono però anche gli interpreti e al posto di Keener c’è una bravissima Julia Roberts (anche produttrice), affiancata da un’eccellente squadra composta da Bobby Cannavale, Stephen James, Shea Wigham, Sissi Spacek, Alex Karpovsky e Frankie Shaw.

Homecoming – Stagione 1La cosa che però più definisce lo show e che ne esalta la natura sperimentale si evince da tre parole: half hour drama. Si tratta infatti di un formato atipico per un modello narrativo (il drama) che spesso, come sottolineato alla perfezione in questo articolo, ha attribuito all’estensione del minutaggio una sorta di nobilitazione aprioristica. Per qualcuno la durata espansa delle puntate è ancora un modo per mostrare i muscoli, per dichiarare una superiorità artistica ex ante, come dimostrato ad esempio dai finali di Westworld e di Game of Thrones e forse in maniera ancora più emblematica da The Romanoffs, serie autoriale per eccellenza e che non a caso tra le libertà concesse a Matthew Weiner prevede anche quella di realizzare episodi più lunghi della media.
Homecoming fa esattamente il contrario, utilizzando questa stessa libertà (le serie distribuite dalle piattaforme di streaming, non dovendo entrare negli slot di palinsesto, possono scegliere il minutaggio degli episodi in maniera autonoma) per realizzare segmenti narrativi più brevi, dotati di una dinamicità che rende il racconto più fertile alla sperimentazione, come hanno recentemente dimostrato altri half hour show come Atlanta, Barry, The Girlfriend Experience e Vida.

Ogni episodio di Homecoming è composto da trenta minuti densissimi, nei quali viene sviscerata una trama verticale perfettamente compiuta (sintetizzata alla perfezione dai secchi ma precisi titoli) che va a inserirsi in una solida narrazione orizzontale con il momento di maggiore climax nell’ottavo episodio. Si tratta di una sequenza in cui la soluzione registica che fino a quel momento aveva definito soprattutto le differenti linee temporali assume un ulteriore e più profondo significato.
Sam Esmail decide infatti di sottolineare con una forte scelta formale i passaggi di temporalità: quella passata, ambientata nel nostro presente, è caratterizzata da un aspect ratio tradizionale, in cui la messa in scena può sfruttare completamente l’ampiezza dello schermo; quella presente, ambientata nel futuro a noi prossimo del 2022, è definita da un quadro decisamente più ristretto, quasi come se il tutto fosse ripreso dalla camera di uno smartphone. Il discorso sulla cancellazione della memoria portato avanti dalla serie rende questa soluzione sempre più pregna di significato, mettendo in relazione la prospettiva ristretta di quella peculiare messa in quadro con la limitata possibilità di elaborazione della realtà di Heidi causata dall’eliminazione dei ricordi. Assume grande potenza da un punto di vista filmico dunque la scelta di sottolineare il momento in cui la protagonista riacciuffa la propria memoria sepolta attraverso l’allargamento dei margini dell’inquadratura, una soluzione già adottata in maniera efficace seppur con intenti leggermente diversi da Xavier Dolan in Mommy.
Sam Esmail si conferma nuovamente un maestro della messa in scena dopo aver sfoggiato in tanti modi le proprie doti in Mr. Robot. In questo caso, però, sollevato dagli impegni di scrittura, può dedicarsi in maniera esclusiva alla costruzione audiovisiva del racconto dando vita a segmenti narrativi in grado di esaltare il già ottimo materiale di partenza, sia attraverso virtuosistici pianosequenza, sia tramite perfetti dialoghi in campo e contro campo, che soprattutto quando sono ambientati nel presente imprigionano i volti dei protagonisti in una cornice altamente claustrofobica.
Quella di Esmail è una regia curata in ogni minimo dettaglio, che non solo non conosce alcuna sbavatura, ma tira fuori diversi guizzi di spiccata originalità, come ad esempio la scelta di rappresentare le conversazioni telefoniche oltre che con lo split screen anche con l’audio che riprende la distorsione della voce telefonica, rimandando al formato esclusivamente audio della materia prima da cui la serie prende le mosse.

Homecoming – Stagione 1Nell’analisi del densissimo lavoro di Sam Esmail un discorso a parte va fatto per le musiche. In molti casi la colonna sonora di una serie è messa in evidenza perché chi l’ha composta ha fatto un lavoro particolarmente creativo oppure perché le canzoni non originali selezionate sono utilizzate in modo efficace, come accade per i montaggi musicali.
Homecoming fa un lavoro molto diverso rispetto a queste due modalità, scegliendo di pescare le musiche dalle colonne sonore di film del passato e coniugarle con le proprie immagini. Se nell’immaginare l’atmosfera della serie Esmail si è ispirato a modelli cinematografici preesistenti, risulta perfettamente naturale la scelta di andare a frugare tra le musiche dei film di Brian De Palma, Francis Ford Coppola, Alfred Hitchcock o Stanley Kubrick. L’intento non è però quello della semplice citazione, quello della strizzata d’occhio, ma esattamente in contrario. Se il rimando (più o meno ironico a un altro film) è una riflessione di tipo superficiale, qui il discorso va più in profondità, perché le emozioni e le atmosfere costruite dalla serie sono definite anche dalle musiche scelte, le quali trasferiscono ricordi e immaginari diversi all’interno di Homecoming. La memoria assume un ruolo centrale anche da questo punto di vista, come dimostrato ad esempio nel terzo episodio quando c’è un momento che cita esplicitamente Vertigo di Hitchcock e la prima prima cosa che salta all’occhio (anzi all’orecchio) è che sullo sfondo c’è la musica originale di Bernard Hermann, e la stessa cosa succede con la progressiva scoperta delle sonorità (e quindi delle emozioni nascoste nella nostra memoria) di Barry Lyndon, Carrie o Tutti gli uomini del presidente.
Un lavoro quindi di grande originalità, sebbene realizzato con composizioni preesistenti, che ha l’obiettivo di trascinare interi mondi narrativi all’interno della serie e utilizzarli come se fossero dei trampolini emozionali, degli strumenti utili ad arricchire sia lo show, sia l’esperienza di visione.

Homecoming – Stagione 1Homecoming sceglie in maniera esplicita atmosfere in continuità con quelle di Mr. Robot, non soltanto per una questione di continuità autoriale, ma anche perché perfette per mettere in scena un thriller cospirativo in piena regola, che riprende con consapevolezza la lezione dei paranoia movie degli anni Settanta, dai film di Alan Pakula a La conversazione. Ossessione è la parola chiave: come nei film citati, anche in questa serie la ricerca della verità – per la protagonista così come per lo spettatore – diventa un obiettivo da perseguire fino allo sfinimento, soprattutto perché ad ogni risposta ottenuta compaiono almeno altri due nuovi interrogativi.
Non si tratta però di uno show dalla trama ingarbugliata, uno di quei meccanismi ad incastro perfetto alla Hill House o, cambiando genere, Westworld, qui tutto assume una forma sempre più lineare e a far la differenza è il punto di vista. La maggior parte del racconto è infatti impostato dalla prospettiva di Heidi e intende mettere lo spettatore a conoscenza della sua esperienza, oltre a creare una forte identificazione con il suo spaesamento. Nel claustrofobico presente (almeno fino all’episodio otto) la sete di conoscenza della protagonista si scontra con un mondo in parte non decifrabile e oscurato, mandandola costantemente in confusione.
Il senso di disorientamento amplifica l’atmosfera di paranoia, la sensazione che per quasi tutta la serie nulla è davvero chiaro fino in fondo e ogni situazione mostrata nasconde un dark side non rivelato, sia sul piano prettamente diegetico sia su quello della messa in scena. Questo effetto è suggellato dall’elegante scelta di terminare gli episodi lasciando scorrere i titoli di testa sulle sequenze conclusive per oltre un minuto, richiamando lo spettatore all’attenzione in un momento in cui solitamente è abituato ad allentarla.

Homecoming – Stagione 1Parlando di personaggi, tra le cose più interessanti del lavoro di Horowitz, Bloomberg ed Esmail c’è la rappresentazione delle figure maschili e in particolare dei due uomini che, ciascuno a suo modo, tirano per la giacchetta Heidi. Il confronto tra Colin e Thomas è davvero ricco di sfumature, sia quando avviene a distanza, sia quando esplode in un tesissimo faccia a faccia. Bobby Cannavale è bravissimo nel delineare un personaggio eccentrico, sgradevole in ogni cosa che fa, presuntuoso e mai trasparente, abituato ad avere tutto ciò che vuole come e quando vuole. All’altro capo della mascolinità c’è Thomas Carrasco, un personaggio decisamente atipico, in particolare se si pensa ad un dipendente del governo sulla cinquantina, che spesso è stato rappresentato come un maschio bianco frustrato e violento. Shea Wigham invece con la sua sofisticata interpretazione dà corpo a una figura maschile antitetica a quella di Colin, a un uomo determinato ma mai arrogante, ossessionato dalla propria ricerca ma rispettoso delle persone che incontra strada facendo e che non ha paura di mostrarsi fragile e insicuro.
Al centro di Homecoming però c’è soprattutto la storia di Heidi, che tra le sue tante facce rivela anche una love story inserita con discrezione ma che diventa progressivamente più importante, sia nell’economia del racconto che nella costruzione del personaggio. Quello tra lei e Walter è un rapporto definito da piccoli dettagli, da momenti di ironia che diversificano il registro della serie e da sorrisi che aprono spiragli di luce in uno show che per quasi tutta la sua interezza emana un pessimismo cosmico. La serie infatti racconta l’oscura vicenda del reintegro nell’esercito dei soldati che soffrono di PTSD attraverso la cancellazione della loro memoria e quindi del loro trauma (anche l’enigmatica sequenza post-credits dell’epilogo stagionale si rifà a questo tema).  La conclusione, infine, rappresenta uno dei momento più alti di Homecoming, è scritta, diretta e interpretata alla perfezione, tanto che è impossibile rimanere indifferenti di fronte alla purezza del volto di Walter e al coraggio di Heidi, la quale, dopo aver attraversato tutta l’America per “risvegliarlo”, decide di mettersi da parte e soffrire da sola.

Dopo Mr. Robot Esmail è stato chiamato da Amazon alla prova del nove, all’esame di maturità definitivo che lo consacra come una delle personalità creative più originali apparse nella televisione degli ultimi anni. In un 2018 di alto livello ma non ricchissimo di novità eccellenti (il 2017 da questo punto di vista è stato migliore), Homecoming, grazie a una regia perfetta, una narrazione torbida ma mai ostentatamente complicata e a interpretazioni eccellenti, si piazza sicuramente al vertice, insieme a quelle altre tre o quattro vere rivelazioni di questa annata.

Voto: 9

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Informazioni su Attilio Palmieri

Di nascita (e fede) partenopea, si diploma nel 2007 con una tesina su Ecce Bombo e l'incomunicabilità, senza però alcun riferimento ad Alvaro Rissa. Alla fine dello stesso anno, sull'onda di una fervida passione per il cinema e una cronica cinefilia, si trasferisce a Torino per studiare al DAMS. La New Hollywood prima e la serialità americana poi caratterizzano la laurea triennale e magistrale. Attualmente dottorando all'Università di Bologna, cerca di far diventare un lavoro la sua dipendenza incurabile dalle serie televisive, soprattutto americane e britanniche. Pensa che, oggetti mediali a parte, il tè, il whisky e il Napoli siano le "cose per cui vale la pena vivere".


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9 commenti su “Homecoming – Stagione 1

  • Lucia

    Il personaggio stralunato e irritante di Heidi mi ha rovinato la serie. Le sue risposte, reazioni, i suoi sguardi, per me sono stati al limite del sopportabile…

     
    • Attilio Palmieri L'autore dell'articolo

      Ciao Lucia! Sai che io non ho avuto minimamente la tua impressione?
      Tralasciando l’interpretazione di Julia Roberts – che per me è stata straordinaria nei restituire i tanti volti dei suoi personaggio – ho adorato la figura di Heidi, sia in quanto terapista sedotta da un posto di responsabilità che la gratifica come professionista, sia come donna traumatizzata ma determinata a ricercare la verità all’esterno e dentro se stessa, sai infine come donna innamorata che prende il coraggio a due mani e segue il proprio cuore, fino alle estreme conseguenze.

       
      • Lucia

        il finale romantico l’ho adorato anch’io. Ma, nelle scene iniziali,le reazioni ai suoi vuoti di memoria mi hanno destabilizzata. Per non parlare della sua ingenua adesione iniziale al progetto, il suo rapporto con il capo, il modo di trattare il suo ex, le risposte vuote al povero impiegato del Ministero…non so, la storia d’amore con il soldato belloccio e brillante non mi è bastata. 😛

         
  • Michele

    E’ un’ottima recensione, Attilio!
    Tocchi molti punti che avevo notato anch’io e li spieghi in maniera ampia ed esauriente oltre che aggiungere aspetti di cui non avevo idea (tipo le citazioni musicali e il podcast), è un piacere leggerti!

    Sono d’accordo che Homecoming sia un dramma semplice data la durata degli episodi e anche dato l’impatto visivo, che risulta in un certo senso minimal, anche grazie alle ambientazioni e alla presenza degli attori. Hai però ragione a dire che questo è un caso in cui less is more e che gli episodi sono tutti molti densi e con diversi dettagli al contorno che arricchiscono la storia.
    Uno su tutti è la colonna sonora colonna portante. Dona complessità al racconto, ci dice a volte cosa sentire, ma poi è spesso ridimensionata con uno strappo sonoro improvviso e inaspettato. Questo la renderebbe una buona colonna sonora, ma non comunque all’interno di un certo grado di convenzionalità. C’è di più, però, il soundtrack non è solo telling, ma è proprio atipico: in certi momenti la musica è grandiosa, ma non si accoppia con le immagini che mostrano una scena semplice, non è pertinente, è fuori dagli schemi. Che vuol dire? Questo da un senso di straniamento al punto da essere inquietante. Allo stesso tempo, questo è l’aspetto che rende questa colonna sonora particolarmente originale e per questo molto apprezzabile. E’ come se gli autori volessero mandare stimoli al pubblico su un livello più alto, uscendo dagli schemi tradizionali, un pò come quando Frank Underwood metteva tutto in pausa per parlare direttamente col pubblico nelle prime stagioni di House of Cards.
    Gli ambienti mi sembrano anni ’70, che torna con il discorso che facevi di citare opere del passato grafica anni 70. Se devo essere sincero non ho potuto fare a meno di pensare alla grafica dell’ultimo album degli Arcitc Monkeys.
    Noto, purtroppo, un difetto abbastanza grosso: la soluzione al complotto è dannatamente irrealistica. Questa medicina che testano a Homecoming è troppo filmica, troppo conveniente ai fini della trama. Avrebbero potuto gestire la cosa in una maniera meno scontata.
    Lo dico perché questa mi sembra l’unica macchia evidente. La storia ha ritmo, lo sviluppo della trama è fluido, pur nella ampia gamma di temi complicati trattati. Hai ragione che il finale, se si dimentica il difetto di cui sopra, è eccezionale: il dramma di non poter avere la persona che ami, prima perché non sarebbe professionale, poi perché la spingi tu ad andare lontano con un gesto d’amore che ti costa il lavoro oltre che un pezzo di te stessa come la tua memoria, e poi quando la ritrovi dopo un viaggio disperato perché sarebbe devastante rivelargli la verità, perché tu stessa ci sei passata, ti è successa esattamente la stessa cosa.
    Una bella serie, se lo merita il 9!

     
    • Attilio Palmieri L'autore dell'articolo

      Grazie Michele! Per i complimenti e per aver avuto voglia di argomentare.
      Sul realismo concordo abbastanza, però va considerato che questo oltre a essere un thriller cospirativo è anche uno show che mette in scena un futuro distopico in cui la realtà (e il realismo) è piegata anche ad altri fini. Non bisogna mai dimenticare che il loro passato coincide con il nostro presente e parte integrante del discorso della serie consiste anche nell’immaginare un futuro che dista soli quattro anni.
      Io spero tanto che facciano la seconda stagione sia perché dopo la prima gli autori hanno tutta la mia fiducia, sia perché sono molto curioso di come si possa evolvere la storia.

       
      • Michele

        Sul fatto di fare stagione 2 ho qualche dubbio. La serie è ben definita così come è, il complotto è stato svelato. Cosa potrebbe dare la serie due? Ce il rischio che sia un po’ una forzatura, come 13 oppure man in the high castle, che ne dici?

         
        • Eraserhead

          In realtà c’è stato un ordine immediato per due stagioni, e la seconda è in produzione… Per me ci sta, c’è ancora altro che si può dire!

           
    • Attilio Palmieri L'autore dell'articolo

      Ciao Sergio! Nell’ambito della rapporto tra Heidi e Walter c’erano alcun sottintesi che si manifestavano anche attraverso delle azioni simboliche e una di quelle ricorrenti era legata all’abitudine di Walter di spostare gli oggetti accuratamente disposti dai Heidi sulla sua scrivania. Nel momento in cui alla tavola calda Heidi vede la forchetta spostata dentro di lei sorge il dubbio che Walter non abbia dimenticato proprio tutto, che una parte di lui ricorda ancora quel loro modo di flirtare e in maniera più o meno conscia gliel’abbia voluto ricordare. Gli autori hanno dichiarato di aver voluto in questo modo realizzare una scena dall’esplicita ambiguità, in modo da lasciare aperta ogni strada per un’eventuale seconda stagione e soprattutto lasciare Heidi nel dubbio. Mi è sembrata una scelta notevole.