Queer Eye, remake del celebre reality-show Queer Eye For The Straight Guy, è arrivato in sordina lo scorso anno su Netflix con due stagioni da otto episodi ciascuna ed è diventato in pochissimo tempo un vero fenomeno di culto: il gruppo dei Fab Five composto da Jonathan, Antoni, Bobby, Karamo e Tan apre così la terza annata con una consapevolezza nuova che ha inevitabilmente influenzato anche le otto storie raccontate in questa edizione.
Era infatti prevedibile che il successo delle prime due stagioni modificasse almeno in parte la base da cui si era costruito lo show: l’acquisizione di una certa autonomia rispetto al prodotto originale e la fama raggiunta dal gruppo hanno permesso infatti a questa stagione di Queer Eye di porsi degli obiettivi diversi rispetto al modello di partenza, liberandosi al contempo di certi pregiudizi che ancora aleggiavano sul gruppo nelle prime due annate.
Se infatti le persone protagoniste dei primi sedici episodi continuavano ad essere nella quasi totalità dei casi uomini eterosessuali (con sole due eccezioni) che venivano aiutati a rimettere in sesto le proprie vite – in continuità quindi con la serie originale –, è solo con questa annata che lo show decide di sganciarsi da questo vincolo per dedicarsi anche alle donne: l’inserimento di Jody, delle sorelle Jones e di Jess incarna la volontà di portare avanti un cambiamento di grande peso non solo per gli ovvi motivi legati ad un ampliamento dei discorsi trattati, ma anche perché con la loro presenza modificano di fatto il principio base della serie.
I Fab Five non sono più cinque sconosciuti uomini gay che in una settimana cambiano la vita ad un uomo etero, scontrandosi con pregiudizi da dover al contempo risolvere: sono cinque uomini di spettacolo ormai noti ovunque, che non si ritrovano più a dover confrontarsi con sguardi di imbarazzo o con le ritrosie di chi non li conosce, ma che vengono accolti in tutti i casi come dei veri e propri maestri del vivere bene, persone dal cuore d’oro in grado di insegnare a prendersi cura di sé, a volersi bene e ad accettarsi, senza dover più “dimostrare” qualcosa a qualcuno. Una differenza sostanziale, questa, forse dovuta anche al cambio di location (dalla Georgia alla zona di Kansas City), ma sicuramente figlia del meritato successo del gruppo: tralasciate quindi tutte le paure relative all’accoglienza a loro riservata dagli “eroi” di puntata, dalle famiglie e dagli amici di questi ultimi, i Fab Five possono quindi procedere con obiettivi diversi e una sicurezza nuova.
In Jody’s mind, when it came to being feminine, she thought that she was, “doing it wrong.”
There is no one way to be a woman.
Questa autoconsapevolezza trapela sin dal primo episodio di questa nuova annata, che inizia proprio con una donna (Jody) quasi a voler manifestare subito il deciso cambio della formula. L’apertura ai diversi tipi di protagonisti permette infatti ai “Fantastici 5” di allargare il focus del loro lavoro ad un discorso davvero universale, che attraversa l’intera annata e che emerge nel primo episodio come una dichiarazione d’intenti: la ricerca della propria identità al di là di ogni etichetta diventa l’obiettivo primario di questa stagione, così come la scoperta di quegli eventi e traumi che negli anni sono diventati un ostacolo all’accettazione di sé. Ecco perché aprire l’annata con una donna che è guardia carceraria, cacciatrice e al contempo alla ricerca di una “femminilità a modo suo” è stato forse il modo migliore per far passare questo concetto, così come la scoperta del ruolo che la morte del fratello ha avuto nella sua vita e nell’acquisizione di certi comportamenti – dalla tendenza a rifiutare i complimenti alla mancanza di autostima.
È proprio quest’ultima un’altra caratteristica dei casi della stagione: ci troviamo infatti davanti a persone accomunate da una forte insicurezza, che si manifesta diversamente in ciascuno di loro ma che emerge come costante in ogni storia. Uno dei casi più evidenti è quello di Robert (“When Robert Met Jamie”), uomo ad un passo dal matrimonio che si ritrova a dover combattere con un atteggiamento autodenigratorio compulsivo, una valanga di parole rivolte a se stesso e mascherate dalla scusa dell’autoironia, derivate in realtà da un’infanzia passata muovendosi da una casa-famiglia all’altra, con tutti i traumi che ne sono seguiti. Sono questi i casi in cui gli interventi dei cinque si rivelano come i momenti più toccanti delle puntate: qui è Karamo a trovare la chiave giusta per entrare in contatto con Robert, quando decide di fargli ascoltare le sue stesse parole registrate per metterlo davanti alla realtà del suo comportamento e fargli capire che l’unico a dire certe cose su di lui è proprio lui stesso, e nessun altro.
“P.S. Be nice to your brother”
Dietro ogni persona si nasconde un trauma, ma non è mai troppo tardi per riprendere in mano la propria vita: questo sembra essere il messaggio di fondo della stagione, che viene portato avanti evidenziando la necessità di una serie di comportamenti semplici e al contempo difficilissimi da adottare, soprattutto quando per anni si è agito diversamente. Si parla dell’importanza di accettare la propria vulnerabilità come qualcosa di bello e di prezioso, soprattutto se seguito dalla capacità di chiedere aiuto: Thomas e Tony, i protagonisti degli ultimi due episodi, sono esemplari in questo proprio perché, seppur per motivi diversissimi, si sono nascosti per anni dietro a muri di autodifesa che hanno impedito loro di farsi aiutare, spingendosi in angoli sempre più piccoli e isolati. Thomas, chiuso nella sua stanza a giocare al computer, affronta fisicamente insieme a Karamo il muro di auto-difese eretto a seguito della morte della madre, mentre Tony si trova a dover fare i conti con l’ansia per una figlia in arrivo e con gli episodi depressivi che lo hanno portato sempre più spesso a lasciarsi andare, abbandonando la cura di se stesso, della casa e di tutto ciò che lo circonda.
Se Jonathan e Tan appaiono sempre come i due più dediti alla cura del corpo e dell’immagine (con i loro marchi di fabbrica ormai leggendari, dall’ossessione del primo per i capelli di chiunque all’immancabile french tuck del secondo), mentre Bobby, Karamo e Antoni paiono occuparsi di più degli aspetti interiori – seppur declinati in maniere diverse –, i loro interventi in questa stagione evidenziano più che mai come siano tutti parte di un unico progetto, con il solo fine di portare ogni persona incontrata a stare meglio con se stessa. Può sembrare scontato, ma non lo è: il modo con cui ciascuno di loro si mette in relazione con i protagonisti delle puntate, raccontando di volta in volta parte delle proprie vite, dimostra come anche gli stessi Fab Five siano persone dal passato complesso e difficile e come ciononostante siano riusciti a rimettersi in sesto, ad imparare dalle proprie esperienze e a metterle al servizio di chi può averne bisogno.
È il caso di Jess (“Black Girl Magic”), la cui storia di adozione e poi di abbandono trova un parallelo con quella di Bobby: sapevamo già della storia di quest’ultimo, ma le somiglianze incredibili con la vicenda della ragazza portano i due ad un confronto doloroso e tuttavia liberatorio sul concetto dell’abbandono e della ricostruzione di sé (e del senso di famiglia) a partire da zero. Ma è il caso anche di Rob (“Elrod & Sons”), padre di due bambini che ha perso la moglie per via di un tumore: il legame e la confidenza che instaura con Jonathan viaggiano dall’aspetto più ironico a quello più serio, soprattutto dopo che Jonathan racconta la sua storia personale di depressione a seguito della morte del patrigno e della malattia della madre. La delicatezza con cui ciascuno di loro accompagna Rob a intraprendere una nuova vita coi suoi figli è tra gli elementi più toccanti della stagione, che raggiunge il culmine con la scritta di Allison intagliata nella panca in sua memoria.
[…] learning to love yourself is a conversation that, like, has to be more than five days. Just take your time every day of the next few weeks, months, years… and be good to yourself.
Ci si potrebbe chiedere se sia saggio mostrare persone con traumi di enorme rilevanza che sembrano “risolvere” ogni loro problema nell’arco di una settimana, solo grazie all’aiuto di cinque persone particolarmente sensibili, sempre in grado di dire la cosa giusta o di confessare aspetti difficili della loro vita in occasioni precise. Il punto però è un altro: nessuno può genuinamente pensare che queste persone siano “guarite” da abitudini decennali in pochissimo tempo, ma tutti possiamo identificarci con persone che a volte si bloccano in determinate situazioni solo perché queste rappresentano l’unica realtà conosciuta. Tutti sappiamo cosa vuol dire aver bisogno di un piccolo “calcio d’inizio” per dare il via a un autentico effetto domino, ed è questo quello che i ragazzi di Queer Eye si propongono di fare: il tutto senza dimenticare che ci troviamo davanti ad un reality-show della categoria “feel-good”, che ha ovviamente un montaggio pensato ad hoc e che è studiato appositamente per portare avanti storie edificanti, in grado di “far sentire bene” e di mettere in connessione persone da ogni parte del mondo, diverse per storie di vita ma unite dagli stessi sentimenti, paure, ansie e speranze.
Ed è proprio la speranza in un futuro migliore (e il diritto di chiedere qualcosa di più alla vita) a caratterizzare ognuna delle storie, in particolare quella di Joey (“Lost Boy”) e delle sorelle Jones (“Jones Bar-B-B-Q). Il primo, uscito da una lunga storia di alcolismo che ha parzialmente compromesso il rapporto col figlio pre-adolescente, sembra essere giunto ad un punto della sua vita in cui non vuole chiedere più nulla di quello che già ha: essere uscito da una dipendenza così difficile e aver trovato un lavoro stabile e gratificante gli sembrano insomma un motivo più che sufficiente per non chiedere altro, che sia la casa o la cura di se stesso. Ed è qui che l’intervento dei ragazzi, in particolare la vicinanza di Antoni che condivide con lui una storia di dipendenze, risulta fondamentale per fargli riacquisire un po’ di sicurezza in se stesso, almeno quello che basta per imparare ad aprirsi con suo figlio e per capire che l’unico modo per ricostruire un rapporto con lui è guardando al futuro e non solo indietro, verso i propri errori. È proprio quando si smette di guardare ad un passato immodificabile che si ricomincia a vivere, e mai come in questo caso possiamo dire che la sua trasformazione fisica (grazie a Jonathan e a Tan) sia davvero il simbolo di un uomo nuovo, che non solo impara a vestirsi e a tenere i capelli in ordine, ma che addirittura deve riprendere confidenza con gli aspetti più basilari della pulizia.
I can smile again.
In ultimo, troviamo le strepitose Little e Shorty, al secolo Deborah e Mary, le sorelle Jones protagoniste del terzo episodio. Questo è l’esempio più chiaro di come un piccolo aiuto possa generare un processo virtuoso che è potenzialmente sempre stato lì a disposizione, ma che necessitava di un’infusione di fiducia e di coraggio per poter essere intrapreso. Il lavoro fatto con le due donne – due sorelle instancabili lavoratrici, disposte a lavorare a ritmi serrati pur di mandare la figlia di Deborah al college e di lasciare sempre i clienti soddisfatti – è davvero esemplare nella sua completezza: mentre Bobby risistema il loro piccolo locale, Jonathan e Tan si occupano del loro aspetto fisico incentrando le loro cure sul (meritatissimo) relax e soprattutto sulla riscoperta della loro interiorità, che per entrambe passa attraverso i vestiti ma che per Deborah ha un significato in più. È impossibile non commuoversi davanti a Little che si osserva dopo che le è stato ricostruito il dente mancante, sentendo le sue parole e i suoi ringraziamenti per una cosa che in molti danno per scontata e che lei invece non poteva permettersi.
Ma è con Karamo e Antoni che arriviamo al successo vero e proprio: la produzione finalizzata alla vendita della “salsa segreta Jones” era di certo qualcosa che le donne potevano raggiungere da sole perché ne avevano tutte le capacità, ma ciò che mancava era proprio qualcuno che dicesse loro “potete farcela”. A dimostrazione di quanto detto, la salsa Jones ha avuto successo sin da subito e a maggior ragione ora, dopo la messa in onda dell’episodio: un successo più che meritato per due donne di grandissima forza, a cui serviva solo un piccolo aiuto per (ri)partire.
La terza stagione di Queer Eye conferma dunque tutte le aspettative: il reality-show è riuscito a innovarsi nella misura giusta, cambiando solo alcuni piccoli dettagli (e aggiungendo un elemento alla squadra, il bulldog francese Bruley), ma rimanendo nella sostanza fedele a se stesso. I Fab Five sono ormai delle celebrità, e questa poteva essere un’arma a doppio taglio per la serie: il fatto che siano riusciti a trasformare tale elemento in un punto di forza, per lo show e anche per la stessa comunità LGBTQ e la sua rappresentazione, non può che far ben sperare anche per eventuali future stagioni.
Voto: 8½