Quasi mai pensiamo che dietro a ogni singola notizia che ci passa davanti ci siano decine di persone che hanno contribuito a renderla un vero e proprio racconto. Nessuna storia si crea da sola ma nasce sempre da un personaggio, protagonista o meno non importa. Basta un suo gesto, e tutto quello che ne consegue diventa narrazione, cronaca, una storia vera e propria, che nel bene e nel male racchiude centinaia di sfumature. E The Case Against Adnan Syed le mostra tutte quante.
Tutto succede nel Maryland, nella contea di Baltimore.
È appena iniziato il 1999 e Adnan Syed non ha nemmeno 18 anni quando la sua ex ragazza, Hae Min Lee, scompare. Dopo quasi un mese, il corpo senza vita della giovane viene trovato in un bosco da un uomo che stava passeggiando nella zona. Dopo altri 20 giorni, Adnan viene arrestato con l’accusa di omicidio e, più tardi, condannato al carcere a vita. Sembrerebbe un caso di cronaca nera come spesso, purtroppo, se ne leggono.
Ma tutto cambia quando, nel 2014, una radio giornalista americana di nome Sarah Koenig inizia a pubblicare un podcast intitolato Serial. Nella trasmissione la Koenig porta all’attenzione del suo pubblico il caso di Adnan Syed, illuminando inquietanti ombre che gravavano sulla condanna del ragazzo. Dopo anni di vere e proprie indagini indipendenti, Sarah Koenig inizia a raccontare le sue scoperte dal giorno della scomparsa fino all’arresto di Syed.
Narra una storia che, per chi ha esperienza di documentari crime come Making a Murderer, The Staircase o The Confession Tapes, sul livello giuridico statunitense non dice nulla di nuovo: Adnan Syed è in carcere per errore. Una storia purtroppo già sentita e che per buona parte delle quattro puntate non aggiunge nulla che non si sappia già di queste terribili situazioni: una confessione estorta, verbali volutamente errati o mancanti, le poche prove trovate che non vengono analizzate in laboratorio.
Ma sono le persone e quello che fanno, a costruire una storia, e The Case Against Adnan Syed, grazie a un’ottima linea narrativa e a molti documenti originali, racconta bene entrambi.
I personaggi su cui si basa la storia sono tre: Adnan, Hae e Jay Wilds. Jay è un ragazzo che frequenta la stessa scuola dei due e che non ha proprio la fama di bravo ragazzo: i piercing sul volto, la passione per il metal e per l’erba non lo rendono un modello da seguire, di certo non per gli adulti. I suoi compagni invece, chi più e chi meno, hanno con lui normalissimi rapporti di amicizia. I tre non si frequentano molto spesso ma le amicizie in comune intrecciano comunque i loro destini.
Dopo il ritrovamento del corpo di Hae, la polizia inizia a interrogare chiunque avesse avuto, in passato e in quel periodo, qualunque contatto con lei. Ma mentre Adnan, che era il suo ex ragazzo, viene a malapena trattenuto, gli investigatori si concentrano su Wilds e su quello che ha da dire dei giorni della scomparsa. Incredibilmente, confessa di aver partecipato al seppellimento del corpo, dopo che lo stesso Adnan gli avrebbe confessato poche ore prima dell’intenzione di uccidere Hae. La giornata della scomparsa viene, nella serie, analizzata moltissime volte. Gli sceneggiatori sono infatti bravissimi a dare alla stessa situazione vari livelli di lettura, man mano che si avanza con le puntate: se all’inizio la confessione di Jay Wilds sembra naturale e spontanea, andando avanti vengono sottolineati tentennamenti, silenzi e vere e proprie “imbeccate” da parte dei poliziotti, come i tap tap delle dita che indicano cosa far dire all’interrogato.
The Case Against Adnan Syed si muove spesso avanti e indietro per stravolgere certezze che allo spettatore sembravano appurate poco prima, dal tabulato delle chiamate che da bibbia su cui basare ogni movimento diventa un boomerang per l’accusa, alle confessioni dei testimoni dell’epoca che ora, dopo venti anni, stentano a credere di potersi essere sbagliati. O meglio, di essere stati confusi dalla polizia stessa. Perché il filo che lega questa storia a quelle di Steven Avery e Michael Peterson è proprio la malizia e la cattiva fede che emerge dai racconti e che si comprende ascoltando o vedendo le registrazioni originali. Anche in questo caso, Adnan Syed sembra essere stato incastrato, probabilmente per quella fame di arresti che hanno negli Stati Uniti i prosecutors, cioè coloro che generalmente rappresentano lo Stato e hanno un ruolo di avvocato dell’accusa nei confronti di chi è sotto processo. Di regola, i prosecutors (o anche District Attorneys) hanno l’obiettivo di incarcerare l’accusato e per farlo ricorrono a mezzi più o meno leciti. E tutte le serie citate, oltre a molte altre che rimangono solo storie da trafiletto sul giornale, hanno in comune avvocati dell’accusa disposti a tutto pur di segnare l’ennesima tacca sul percorso che spesso li porta a candidarsi all’avvocatura di Stato, un ruolo potentissimo nell’ambito giuridico americano.
In questo caso, il prosecutor si chiama Thiru Vignarajah, che mentre corre per la carica continua a intervenire nei processi di appello di Adnan. Mentre in campagna elettorale promette una svolta progressista del suo ruolo, continua a voler tenere in carcere una persona nonostante tutto il processo originale si sia basato su prove inesistenti e testimonianze falsate. The Case Against Adnan Syed centra il punto debole di un sistema giuridico avvelenato da numeri enormi di persone incarcerate ingiustamente, solo per permettere ai prosecutors di avere più arresti possibili, che porta a prigioni piene e quindi a fiumi di denaro per le società (quasi tutte private) che gestiscono la rete carceraria americana (basti vedere le ultime due stagioni di Orange is the new Black, per farsene un’idea).
Ma la storia di Adnan Syed ne racchiude almeno altre due, ugualmente importanti: il ruolo delle donne e l’enorme discrepanza culturale che si riscontra tra la comunità americana, quella Pakistana da cui proviene Adnan e quella Koreana, una delle più numerose e influenti a Baltimore, dalla quale veniva Hae.
Sono in primis le donne a portare avanti la causa di Adnan, nelle figure della madre e di Rabia Chaudry, avvocato e amica di famiglia che all’epoca presentò il caso a Sarah Koenig, che interessata iniziò a produrre Serial. Rabia ha fin da subito fatto da ponte tra la famiglia e la difesa, senza mai abbattersi nonostante gli ostacoli che tutti si sono trovati davanti, portando avanti una causa che non riguardava solo Adnan, ma migliaia di persone ingiustamente incarcerate. Se si esclude la voce di Adnan, registrata dal carcere, tutta la serie è raccontata da donne (lo stesso Serial è prodotto interamente da loro), e le interviste più intense sono raccontate da donne forti e coraggiose. La figura del padre di Adnan diventa in questo caso emblematica: da figura centrale in famiglia a un ruolo marginale, da lui stesso scelto, per paura di rovinare ancora di più l’immagine del figlio a causa della lunga barba e dell’abbigliamento “troppo musulmano”. Un uomo depresso, con il volto segnato dagli anni in cui è rimasto lontano dal figlio e il peso di un’accusa così grande sulle spalle.
Lo scontro culturale viene all’inizio raccontato come causa della separazione dei due, con la famiglia di Adnan che gli vieta di frequentare qualunque ragazza e quella di Hae che non vuole nemmeno le sue amiche in casa. Poi, seppur appena accennato verso la fine della serie, assume connotati importanti quando si spiega che la comunità Koreana ha da sempre avuto un peso enorme sulla vita nella Contea di Baltimore: all’epoca dei fatti si contavano oltre 15,000 componenti che contribuivano attivamente all’economia dell’area gestendo principalmente alimentari e negozi di liquori. Un bacino elettorale enorme, una fetta troppo importante per essere ignorata dal momento in cui la vittima era Koreana. Dall’altra la comunità Pakistana, forse più integrata ma in ogni caso anch’essa in parte chiusa, isolata, a causa soprattutto degli adulti, in una concezione ancora vecchia di integrazione. Al centro, un’America che si ostina a dare solo spazio per lavorare e pochi strumenti per integrare realmente le varie realtà tra di loro, creando ancora più attriti e gettando troppa benzina sul fuoco in situazioni già incendiarie di loro. E i recenti episodi di violenza nei confronti della comunità afroamericana parlano per tutti.
The Case Against Adnan Syed racconta una storia che, purtroppo, conosciamo già molto bene e non porta nulla di nuovo in questo ambito. Quello che spicca è la narrazione: da un podcast che detiene un record mondiale di download (340 milioni in 5 anni) nato quando i podcast non avevano ancora il peso culturale che hanno ora, a un’attenta analisi di tutte le prove che sono state trovate dalla stessa Koenig. Come accenna l’avvocato delle difesa Justin Brown, che tutt’ora si batte per la liberazione di Adnan, quello di Adnan è stato il primo processo “opensource”, visto che insieme alla Koenig tantissime persone hanno partecipato attivamente, dai teste dell’epoca agli stessi ascoltatori del podcast.
Più che un vero e proprio documentario, The Case Against Adnan Syed è un collage ben fatto di contributi che hanno fatto emergere per l’ennesima volta il lato oscuro della giustizia americana, portando alla luce una storia che probabilmente sarebbe rimasta lì, nella Contea di Baltimore, a prendere polvere e a far prendere voti.
Voto: 7
Bella serie e bella recensione, il 7 mi sembra giusto!
Proprio come il caso di Making a Murderer, anche questa serie ti lascia con l’amaro in bocca, perche’ alla fine di tutto giustizia non sembra essere fatta. Staircase e’ un po’ meno cosi’, perche’ Peterson riesce almeno a uscire di prigione. In generale, pero’, questi documentari mostrano che forse gli US dovrebbero fare qualcosa per il processo che serve a rivedere condanne sbagliate, perche’ ora e’ tutto dannatamente difficile.