In tempi come i nostri, in cui al numero sempre più alto di serie prodotte si aggiunge quello dei reboot, dei revival e dei remake, è facile pensare a come tutte queste idee nascano dall’esigenza di soddisfare un bisogno – quello nostalgico – che in un modo o nell’altro andrà a colpire un certo tipo di pubblico. Questo tipo di operazione, che non dà affatto garanzia di successo (anzi), è tuttavia un’arma a doppio taglio: non solo perché non sempre si può riportare in vita qualcosa che aveva un senso qualche decennio fa e ora non più; non solo perché bisogna essere abili nel farlo; ma anche perché l’ennesimo annuncio dell’ennesimo reboot può generare nel pubblico addirittura l’effetto opposto, ossia il rifiuto.
È forse questo, insieme ad altri, uno dei motivi per cui Jennie Garth e Tori Spelling – al secolo Kelly Taylor e Donna Martin – hanno pensato ad un reboot del più famoso dei teen drama, Beverly Hills 90210, che potesse distinguersi dalla massa di tutti gli altri, soprattutto visto che il franchise della serie era già stato sfruttato in molteplici occasioni (dai tempi di Melrose Place nel 1992 fino al più recente sequel, chiamato solo col celebre zip code 90210).
Sono infatti le due attrici, rimaste amiche nella vita reale, a mettere in piedi una sorta di meta-reboot: si tratta infatti di sei puntate in cui è l’idea di fare un reboot della serie ad essere il centro del racconto, proprio per le motivazioni sopra esposte – se lo fanno tutti, perché non dovremmo farlo noi, che siamo tra i padri fondatori del genere? È l’idea stessa di fare un reboot che diventa il reboot a cui assistiamo, e che forse non risponde nemmeno più a questo nome perché diventato qualcosa di completamente diverso. Proveremo, con questo articolo di approfondimento, a capirne il funzionamento: attenzione quindi agli spoiler!
BH90210 utilizza il concetto di reboot come MacGuffin, come scusa per parlare di altro: i celebri attori protagonisti della serie originale – ad eccezione di Luke Perry, che aveva dichiarato che avrebbe partecipato solo parzialmente a causa dei suoi impegni con Riverdale, ma che è purtroppo venuto a mancare a marzo di quest’anno – sono, esattamente come nella vita reale, trascinati da un’idea di Tori Spelling e Jennie Garth a mettere in scena un reboot della serie, di cui però non vediamo praticamente mai nulla di concreto. In un gioco di specchi in cui realtà e finzione si scambiano e si mescolano, i personaggi che vediamo sono gli attori, con i loro nomi e le loro immagini di oggi, ma – e qui sta il tocco geniale di una serie che non sarà un capolavoro, ma che a un’analisi più approfondita risulta molto più intelligente di quanto si potesse prevedere – non sono esattamente loro.
Sono, per citare proprio le due ideatrici della serie, delle versioni alternative di loro stessi: sono Jason Priestley, Ian Ziering, Shannen Doherty (aggiuntasi solo a riprese già iniziate), ma non sono realmente loro. Ciò che viene messo in scena, e sistematicamente problematizzato, è quello che queste persone sono diventate (o sarebbero potute diventare) a seguito di ciò che hanno vissuto nella loro adolescenza di giovani attori, e quello che si trovano a vivere quando decidono di riunire il gruppo per seguire l’onda del reboot e scoprire se possono essere ancora quelli di una volta, quelli di 30 anni fa.
Ecco che quindi ciascuno degli attori, tra cui ritroviamo anche Gabrielle Carteris e Brian Austin Green, mette in scena parti vere della propria vita mescolate ad altre completamente inventate, oppure ispirate alla propria vita ma esasperate ed esagerate per raccontare qualcosa, per mettere l’accento su diversi temi che vengono, nell’arco delle sei puntate, messi sotto la lente d’ingrandimento e analizzati a fondo. Tra riflessioni serie su cosa voglia dire crescere in un ambiente come quello televisivo e altre più leggere o semplicemente meno degne di nota, ciò che stupisce di questo fake-reboot è l’autoironia con cui i protagonisti si mettono alla berlina, sia come gruppo – il loro narcisismo viene messo in evidenza pressoché in continuazione, così come il loro distacco dalla realtà – sia come persone singole.
Prendiamo come esempio proprio ciò che dà il via all’idea del reboot nella serie: una “reunion 30 anni dopo” – che vede il cast incontrarsi nuovamente, in alcuni casi anche dopo moltissimi anni – non solo riaccende vecchie passioni e altrettante acredini, ma scatena una riflessione acuta su quanto le loro immagini siano state utilizzate negli anni ’90 in maniera assolutamente sconsiderata, in modi che oggi non sarebbero mai tollerati da nessun attore, neanche alle prime armi. Questo punto, che rappresenta solo una delle tantissime critiche al sistema della TV di allora, sfocia nell’assurdo atto di Tori Spelling di rubare un celebre abito indossato da Donna Martin (ormai di proprietà di un fan) che lei, in quel momento, vede come suo, come una sua legittima proprietà: ed è qui che sta l’altro tocco geniale e al contempo totalmente folle dello show, ossia l’aggiunta – nella creazione di questi personaggi – di caratteristiche dei loro alter ego della serie.
A cosa stiamo assistendo, dunque? Ad un’operazione molto più complessa di quanto potesse sembrare all’inizio: siamo davanti a degli attori con nomi e cognomi reali – per fare un esempio, Gabrielle Carteris –, con alcune caratteristiche vere – è presidente dello Screen Actors Guild –, altre false – non è nonna, non è sposata con quella persona –, altre che arrivano direttamente dal personaggio interpretato – Andrea Zuckerman. Qui la vicenda si fa complessa: il personaggio di Andrea è stato visto per anni come quello di una ragazza che doveva essere lesbica, ma che nella TV degli anni ’90 non poteva trovare spazio di rappresentazione; ecco che quindi la riflessione sulla sua sessualità viene proposta per il personaggio di Andrea nel reboot al centro della narrazione, ma viene anche spostata sul personaggio “Gabrielle Carteris BH” (chiameremo così per comodità questi personaggi ibridi), protagonista del reboot BH90210, cioè quello cui assistiamo noi.
Un altro esempio è la già citata Tori Spelling, che porta con sé caratteristiche vere della sua vita – famiglia numerosa, anche se con un numero diverso di figli, protagonista di diversi reality –, ma altre che si fondono col suo personaggio di Donna Martin – l’attrazione per Brian Austin Green – e altre ancora in cui tutte le critiche che le sono state rivolte contro negli anni (essere una raccomandata, aver sperperato l’eredità del padre Aaron Spelling, non avere le sue stesse capacità produttive) non vengono nascoste, ma al contrario buttate in faccia allo spettatore; il tutto nel momento stesso in cui la vera Tori Spelling sta effettivamente producendo una serie, quella che stiamo guardando, e la “Tori Spelling BH” sta radunando tutto il cast per produrre e mettere in scena il reboot dello show.
È come se gli attori stessi avessero deciso, dopo 30 anni, di riprendere in mano la narrazione delle loro vite e di decidere loro cosa mettere in scena, con i loro pregi e con i loro difetti, ma soprattutto scegliendo di raccontare la loro verità: è così che “Tori Spelling BH” ci racconta le sue insicurezze proprio mentre l’attrice sta in realtà tornando ad avere successo, ed è così che il vero Jason Priestley si assume la responsabilità di averla sempre passata liscia – pur con un carattere piuttosto aggressivo – solo grazie alla faccia pulita del suo alter ego Brandon, e questo permettendo al suo personaggio in BH90210 di manifestare la sua aggressività ma al contempo anche le sue debolezze e fragilità.
Gli esempi da fare sono moltissimi e in gran parte degni di nota, soprattutto quando analizzano le difficoltà che le attrici hanno vissuto in quegli anni: ad esempio le faide tra Jennie Garth e Shannen Doherty che vengono perlopiù ricondotte alla pessima influenza della stampa di allora; oppure le difficoltà di Gabrielle Carteris ad unirsi al gruppo a causa della differenza di età, e di conseguenza il fatto di essere diventata quella che “riporta il controllo” nel gruppo come una vera e propria madre.
Quella che forse colpisce più di tutti è la sottotrama di Brian Austin Green, che ha effettivamente avuto nella vita reale un figlio con un’attrice passata da Beverly Hills 90210, con il quale ha riallacciato i rapporti solo di recente: il fatto di aver inserito all’interno della serie una storyline quasi identica, se non per il finale, è davvero un elemento da capogiro, che mette in dubbio costantemente quali siano i limiti tra realtà e finzione.
Non si risparmiano le riflessioni sulla TV post-#MeToo e l’arduo compito di rappresentare l’uomo completamente al di fuori di questa evoluzione viene dato ad Ian Ziering: in realtà il processo viene rappresentato in modo piuttosto leggero, non perché non venga data rilevanza al tema, ma anzi perché viene mostrato come una persona con la testa sulle spalle possa avere comunque delle abitudini ereditate da un ambiente tossico del passato e come questi atteggiamenti possano essere eliminati con un minimo di confronto con la realtà odierna.
Meno riuscite sono invece altre storyline, quella dello stalker su tutte – non c’era bisogno della venatura thriller per farci capire ancora di più le ossessioni degli attori – ma anche tutte le scene iniziali degli incubi ambientati al Peach Pit che sfiorano spesso il ridicolo, anche se sono lì a raccontarci (in modo forse un po’ troppo trash) come il passato torni costantemente ad ossessionare attori che si trovano tutti i giorni a chiedersi “Come sarebbe la mia vita se non avessi partecipato alla serie”.
Su questo tema si viaggia spesso tra il serio e il faceto: nel primo caso con una “Jennie Garth BH” in eterno conflitto con la sua Kelly Taylor, che detesta per ciò che le ha fatto vivere (cose da cui cerca di preservare la figlia, anche lei con velleità artistiche) e che al contempo continua ad emulare, con una vita sentimentale altamente instabile e un carattere disposto a piegarsi a seconda della persona che le dimostra un po’ di attenzione. Nel secondo caso si ride decisamente di più, quando – a seguito dei servizi sociali imposti per il furto dell’abito – tutto il gruppo decide di andare in terapia per trovare una parvenza di armonia che li aiuti a lavorare insieme e ad andare oltre i loro personali narcisismi. A seguirli troviamo “Carol Potter BH”, al secolo Mamma Cindy Walsh, che dichiara senza alcuna remora come gli anni passati sul set della serie (e le tragedie relazionali intercorse tra gli attori) l’abbiano portata a capire la sua vera strada: quella della psicologia. Ovviamente non è così, Carol Potter è e rimane un’attrice, così come Christine Elise, la turbolenta Emily Valentine, che in questa serie è invece diventata una produttrice di casa FOX, network che seguirà la costruzione del reboot – così come questo reboot, quello vero, è proprio a marchio FOX.
Realtà e finzione si mescolano con un’energia tale che le esagerazioni vengono quasi perdonate, soprattutto quando ci si rende conto che il ritardo della vera Shannen Doherty ad aderire al progetto viene sfruttato dalla serie stessa facendolo diventare un punto nodale della “Shannen BH”, troppo impegnata a salvare animali in giro per il mondo (attività a cui la vera attrice è davvero dedita) per riuscire ad essere anche solo trovata.
Se il finale lascia la strada aperta a una possibile seconda stagione (il fake-reboot vince su quello di The OC, ma a causa di problemi di budget la serie dovrà essere girata in Canada e con qualche taglio al cast), aumentando quindi l’adesione tra le due realtà (entrambi i reboot, quello vero e quello finto, sono in bilico, seppur per motivi diversi), possiamo però dire che già dalla conclusione del pilot si era manifestata chiaramente l’intenzione di fondere le due realtà, quella vera e quella finzionale. È infatti alla fine del primo episodio che “Tori BH” ha l’illuminazione sul reboot (“Maybe going back is just what we all need to move forward”) proprio mentre, insieme alla sua amica “Jennie BH”, sta guardando il pilot della serie, che si ferma – così come la puntata – sul tributo a Luke Perry: per sempre ricordato così, come il ragazzo solitario e sovversivo che porta l’amico Brandon a scoprire il suo nuovo mondo; per sempre immortalato come non lo dimenticheremo mai – né gli attori veri, né i personaggi finti di questo finto reboot, né noi spettatori.
Poteva essere l’ennesimo reboot, ma ciò che lo ha reso speciale – al di là di alcune scelte discutibili oppure così ridicole da fare il giro completo e diventare perfette per lo spirito dello show – è stato proprio il fatto di essere nato dalle menti di due delle attrici che quella serie l’hanno vissuta; due donne che hanno saputo non solo intercettare l’esigenza di un cambiamento all’interno dell’ondata dei re-qualsiasi-cosa, ma anche sfruttarla per raccontarsi e raccontare a noi cosa abbia voluto dire per loro essere protagonisti di un’epoca che non tornerà più, ma di cui – evidentemente – non riusciamo a smettere di parlare.