
È forse questo, insieme ad altri, uno dei motivi per cui Jennie Garth e Tori Spelling – al secolo Kelly Taylor e Donna Martin – hanno pensato ad un reboot del più famoso dei teen drama, Beverly Hills 90210, che potesse distinguersi dalla massa di tutti gli altri, soprattutto visto che il franchise della serie era già stato sfruttato in molteplici occasioni (dai tempi di Melrose Place nel 1992 fino al più recente sequel, chiamato solo col celebre zip code 90210).
Sono infatti le due attrici, rimaste amiche nella vita reale, a mettere in piedi una sorta di meta-reboot: si tratta infatti di sei puntate in cui è l’idea di fare un reboot della serie ad essere il centro del racconto, proprio per le motivazioni sopra esposte – se lo fanno tutti, perché non dovremmo farlo noi, che siamo tra i padri fondatori del genere? È l’idea stessa di fare un reboot che diventa il reboot a cui assistiamo, e che forse non risponde nemmeno più a questo nome perché diventato qualcosa di completamente diverso. Proveremo, con questo articolo di approfondimento, a capirne il funzionamento: attenzione quindi agli spoiler!

Sono, per citare proprio le due ideatrici della serie, delle versioni alternative di loro stessi: sono Jason Priestley, Ian Ziering, Shannen Doherty (aggiuntasi solo a riprese già iniziate), ma non sono realmente loro. Ciò che viene messo in scena, e sistematicamente problematizzato, è quello che queste persone sono diventate (o sarebbero potute diventare) a seguito di ciò che hanno vissuto nella loro adolescenza di giovani attori, e quello che si trovano a vivere quando decidono di riunire il gruppo per seguire l’onda del reboot e scoprire se possono essere ancora quelli di una volta, quelli di 30 anni fa.
Ecco che quindi ciascuno degli attori, tra cui ritroviamo anche Gabrielle Carteris e Brian Austin Green, mette in scena parti vere della propria vita mescolate ad altre completamente inventate, oppure ispirate alla propria vita ma esasperate ed esagerate per raccontare qualcosa, per mettere l’accento su diversi temi che vengono, nell’arco delle sei puntate, messi sotto la lente d’ingrandimento e analizzati a fondo. Tra riflessioni serie su cosa voglia dire crescere in un ambiente come quello televisivo e altre più leggere o semplicemente meno degne di nota, ciò che stupisce di questo fake-reboot è l’autoironia con cui i protagonisti si mettono alla berlina, sia come gruppo – il loro narcisismo viene messo in evidenza pressoché in continuazione, così come il loro distacco dalla realtà – sia come persone singole.


Un altro esempio è la già citata Tori Spelling, che porta con sé caratteristiche vere della sua vita – famiglia numerosa, anche se con un numero diverso di figli, protagonista di diversi reality –, ma altre che si fondono col suo personaggio di Donna Martin – l’attrazione per Brian Austin Green – e altre ancora in cui tutte le critiche che le sono state rivolte contro negli anni (essere una raccomandata, aver sperperato l’eredità del padre Aaron Spelling, non avere le sue stesse capacità produttive) non vengono nascoste, ma al contrario buttate in faccia allo spettatore; il tutto nel momento stesso in cui la vera Tori Spelling sta effettivamente producendo una serie, quella che stiamo guardando, e la “Tori Spelling BH” sta radunando tutto il cast per produrre e mettere in scena il reboot dello show.

Gli esempi da fare sono moltissimi e in gran parte degni di nota, soprattutto quando analizzano le difficoltà che le attrici hanno vissuto in quegli anni: ad esempio le faide tra Jennie Garth e Shannen Doherty che vengono perlopiù ricondotte alla pessima influenza della stampa di allora; oppure le difficoltà di Gabrielle Carteris ad unirsi al gruppo a causa della differenza di età, e di conseguenza il fatto di essere diventata quella che “riporta il controllo” nel gruppo come una vera e propria madre.
Quella che forse colpisce più di tutti è la sottotrama di Brian Austin Green, che ha effettivamente avuto nella vita reale un figlio con un’attrice passata da Beverly Hills 90210, con il quale ha riallacciato i rapporti solo di recente: il fatto di aver inserito all’interno della serie una storyline quasi identica, se non per il finale, è davvero un elemento da capogiro, che mette in dubbio costantemente quali siano i limiti tra realtà e finzione.
Non si risparmiano le riflessioni sulla TV post-#MeToo e l’arduo compito di rappresentare l’uomo completamente al di fuori di questa evoluzione viene dato ad Ian Ziering: in realtà il processo viene rappresentato in modo piuttosto leggero, non perché non venga data rilevanza al tema, ma anzi perché viene mostrato come una persona con la testa sulle spalle possa avere comunque delle abitudini ereditate da un ambiente tossico del passato e come questi atteggiamenti possano essere eliminati con un minimo di confronto con la realtà odierna.

Su questo tema si viaggia spesso tra il serio e il faceto: nel primo caso con una “Jennie Garth BH” in eterno conflitto con la sua Kelly Taylor, che detesta per ciò che le ha fatto vivere (cose da cui cerca di preservare la figlia, anche lei con velleità artistiche) e che al contempo continua ad emulare, con una vita sentimentale altamente instabile e un carattere disposto a piegarsi a seconda della persona che le dimostra un po’ di attenzione. Nel secondo caso si ride decisamente di più, quando – a seguito dei servizi sociali imposti per il furto dell’abito – tutto il gruppo decide di andare in terapia per trovare una parvenza di armonia che li aiuti a lavorare insieme e ad andare oltre i loro personali narcisismi. A seguirli troviamo “Carol Potter BH”, al secolo Mamma Cindy Walsh, che dichiara senza alcuna remora come gli anni passati sul set della serie (e le tragedie relazionali intercorse tra gli attori) l’abbiano portata a capire la sua vera strada: quella della psicologia. Ovviamente non è così, Carol Potter è e rimane un’attrice, così come Christine Elise, la turbolenta Emily Valentine, che in questa serie è invece diventata una produttrice di casa FOX, network che seguirà la costruzione del reboot – così come questo reboot, quello vero, è proprio a marchio FOX.
Realtà e finzione si mescolano con un’energia tale che le esagerazioni vengono quasi perdonate, soprattutto quando ci si rende conto che il ritardo della vera Shannen Doherty ad aderire al progetto viene sfruttato dalla serie stessa facendolo diventare un punto nodale della “Shannen BH”, troppo impegnata a salvare animali in giro per il mondo (attività a cui la vera attrice è davvero dedita) per riuscire ad essere anche solo trovata.

Poteva essere l’ennesimo reboot, ma ciò che lo ha reso speciale – al di là di alcune scelte discutibili oppure così ridicole da fare il giro completo e diventare perfette per lo spirito dello show – è stato proprio il fatto di essere nato dalle menti di due delle attrici che quella serie l’hanno vissuta; due donne che hanno saputo non solo intercettare l’esigenza di un cambiamento all’interno dell’ondata dei re-qualsiasi-cosa, ma anche sfruttarla per raccontarsi e raccontare a noi cosa abbia voluto dire per loro essere protagonisti di un’epoca che non tornerà più, ma di cui – evidentemente – non riusciamo a smettere di parlare.
