Con il finale in due parti “Et in Arcadia Ego”, si è conclusa la prima e attesissima stagione di Star Trek: Picard, ambientata vent’anni dopo gli eventi del film del 2002 Nemesis che, nonostante non sia affatto amato dai fan, trova spazio in alcuni dei risvolti narrativi della serie CBS All Access (distribuita in italia da Amazon). Riportare sul piccolo schermo la storia del capitano Jean-Luc Picard è indubbiamente un’operazione molto rischiosa, ma dopo i dieci episodi di questa prima stagione è chiaro perché Patrick Stewart abbia deciso di riprendere il ruolo nonostante avesse promesso di aver chiuso con Star Trek.
La serie creata a otto mani dal premio Oscar Akiva Goldsman, Michael Chabon, Kirsten Beyer e Alex Kurtzman – che naviga nell’universo di Star Trek dai tempi del primo film di J.J. Abrams – riesce nel difficile compito di costruire un prodotto in grado di onorare le decine di puntate e film che raccontano le vicende dell’equipaggio di The Next Generation, senza mai però contare troppo sull’effetto nostalgia. Sarebbe infatti impossibile di fronte a un pezzo così importante della cultura pop evitare in toto ogni richiamo, soprattutto quando una delle tematiche più importanti della stagione è il rapporto che Picard ha con il passato e in particolare con l’androide Data, sacrificatosi per salvare il capitano.
È innegabile che aver visto tutto renda l’esperienza molto più appagante – in particolare quando Picard incontra nuovamente i vecchi membri dell’equipaggio – ma va anche detto che siamo di fronte a figure che hanno lasciato un’impronta fortissima sulla cultura pop e molti dei volti – Picard in primis – sono conosciutissimi. L’ottimo lavoro fatto in fase di scrittura reintroduce in maniera perfetta questi personaggi trasmettendo in tutto e per tutto il loro valore anche a chi ha poca familiarità con la saga di Star Trek, supportato dalla splendida interpretazione di Patrick Stewart.
L’altro grande ostacolo per Star Trek: Picard era quello di dover popolare la serie con nuovi personaggi in grado di sostenere il confronto con il capitano Jean-Luc Picard e incuriosire tutte quelle persone che non sono per forza dei Trekkie. Ovviamente nessuno si aspettava che nel giro di dieci puntate ci ritrovassimo di fronte ai nuovi Kirk e Spock, ma la compagnia che accompagna Picard nella sua missione attraverso lo spazio riesce comunque a emergere nel popolatissimo franchise di Star Trek e, come già successo con i vari Michael e Saru in Discovery, hanno tutte le carte in regole per ritagliarsi uno spazio importante nella mitologia della serie e soprattutto nel cuore dei fan.
Così come Picard, tutti i membri dell’equipaggio si dividono tra la missione alla ricerca di Soji e il confronto con i fantasmi del passato, che in un modo o nell’altro appaiono sul cammino dei personaggi e che gli impediscono di entrare in una nuova fase della loro vita. Certo, nulla di rivoluzionario dal punto di vista narrativo, ma anche in questo caso la writers’ room si dimostra molto attenta nel suo lavoro e dà sufficiente spazio a ogni personaggio e all’influenza dei loro ricordi sul presente, e per questo nel momento in cui viene raggiunta la catarsi l’impatto emotivo è perfettamente riuscito.
La serie ha anche il merito di non aver paura di rallentare il ritmo per dare spazio ai personaggi e preparare con la giusta calma gli eventi che mettono in moto il racconto. L’esempio più lampante è la scelta di partire con un arco di ben tre episodi prima ancora che la missione parta realmente. Una scelta quasi atipica in un panorama televisivo – e non solo – in cui si è quasi sempre costretti a giocarsi le carte migliori all’inizio per paura di perdere una fetta di pubblico importante. Sarà che c’è sempre la sicurezza di poter contare sui milioni di fedelissimi Trekkie, ma Picard non dà mai la sensazione di voler accelerare e, anche quando le cose entrano nel vivo, la serie trova sempre il tempo per ricordarci che al centro della storia ci sono le persone.
Da questo punto di vista è molto interessante il lavoro fatto su Soji e il lento percorso che la porta a scoprire di essere un androide. È un personaggio che, fino al salvataggio da parte di Picard e la partenza verso il pianeta natale, fatica sicuramente a emergere, un situazione che però nasce dalla permanenza sul cubo Borg e che in verità si addice perfettamente al percorso del personaggio e al senso di prigionia e tradimento che sta vivendo. La serie affronta in modo molto interessante il rapporto tra umani e androidi e la libertà di scegliere che spetta a quest’ultimi, che raggiunge il culmine proprio grazie a Soji, che decide di rifiutare il destino della visione della versione romulana dell’Armageddon per diventare qualcuno che rappresenta perfettamente l’anima ottimista della Flotta Stellare e, soprattutto, di Star Trek.
Naturalmente tutto il lavoro fatto in fase scrittura sarebbe vano se a interpretarlo non ci fosse un ottimo cast, e oltre al già citato Patrick Stewart – sul quale c’è poco da aggiungere – tutti gli altri si calano perfettamente nella parte e rendono giustizia al lavoro degli autori. Dagli ex membri della Flotta Stellare Rios e Raffi fino al Romulano Elnor – che con un nome più simile alle popolazioni elfiche di Tolkien non nasconde le molte similitudini con Legolas – e alla dottoressa Alison Pill, anche con il casting la produzione ha fatto centro.
La parte della stagione forse meno riuscita è il finale. Non tanto per la risoluzione del grande mistero al centro di questa prima stagione che comunque è stato gestito ottimamente, quanto per il modo in cui si conclude il percorso di Picard. La scena della sua morte è molto toccante, soprattutto quando vediamo la reazione di tutte le persone che lo hanno accompagnato lungo questo viaggio, e per un attimo sembra davvero che la prima stagione di Star Trek: Picard sia la missione finale di un uomo con un male incurabile che cerca un’ultima possibilità per trovare pace con il passato, ma la decisione di riportarlo in vita come androide lascia qualche dubbio.
Sicuramente si può interpretare come un ulteriore passo che rafforza il suo legame con Data e, forse, avrà delle ripercussioni importanti quando in futuro magari riappariranno gli androidi super evoluti apparsi brevemente nel finale, però allo stesso tempo sminuisce l’impatto emotivo della morte e ci porta in quel pericoloso territorio in cui la posta in gioco non è mai realmente alta perché tanto i personaggi possono sempre tornare in vita grazie alla tecnologia, nonostante venga specificato che questo Picard è stato creato con una data di scadenza. La speranza è che comunque questa decisione venga affrontata in maniera più approfondita nella prossima stagione per evitare che diventi un problema con il prosieguo della storia. In difesa di Picard, va detto che gli elementi per prevedere questo risoluzione c’erano tutti; di sicuro non siamo di fronte a quello che è accaduto nell’altra grande saga stellare e rivale di sempre con Palpatine.
La prima stagione è comunque promossa a pieni voti, forte di un ottimo cast con un Patrick Stewart in grande forma, una scrittura attenta, e una messa in scena di alto livello con effetti visivi – soprattutto nel finale – che mostrano i passi da gigante fatti sul fronte tecnologico per portare anche sul piccolo schermo epiche battaglie nello spazio. La seconda stagione è già stata confermata ma della storia non si sa nulla, anche se è facile immaginare che molti dei filoni narrativi lasciati in sospeso – in primis Oh e il Romulani – torneranno ad avere un ruolo fondamentale. Anche grazie al lavoro fatto con Discovery, la sensazione è che il franchise sia in buone mani e, Picard androide a parte, Star Trek promette “To boldly go where no one has gone before”.
Voto stagione: 7 ½