Con due mesi di anticipo, arriva finalmente su Netflix l’attesissima serie ESPN dedicata alla stagione 1997-1998 dei Chicago Bulls guidati da Michael Jordan. Nel corso degli anni l’emittente televisiva è diventata un’eccellenza nel raccontare lo sport, grazie a serie come 30 for 30, dove la pallacanestro è spesso protagonista in puntate come Once Brothers, The Fab Five – diretto dallo stesso regista di The Last Dance – e Best of Enemies, incentrato sulla rivalità tra i Boston Celtics e i Los Angeles Lakers e focalizzato soprattutto sugli anni in un cui hanno giocato Larry Bird e Magic Johnson. The Last Dance prosegue questa striscia di successi, ennesimo esempio della professionalità e della capacità di ESPN di raccontare gli eventi sportivi come nessun altro.
Sono pochi gli sportivi ad aver avuto un impatto così grande come “His Airness” Michael Jordan, non solo nel mondo del basket dove è considerato alla quasi totale unanimità come il più grande di sempre, ma anche nella cultura pop. Insomma, una vera e propria icona che è stata fonte di ispirazione non solo per gli amanti della palla a spicchi. Terza scelta al draft del 1984, in un decennio che ha visto la rinascita dell’NBA grazie alla rivalità tra Larry Bird e Magic Johnson, Michael Jordan ha cambiato per sempre la pallacanestro con la sua esplosività e la sua totale dedizione al gioco, una leggenda che le stelle che lo hanno seguito, da Kobe Bryant fino a LeBron James, hanno sempre cercato di eguagliare.
Un campione senza precedenti, pronto a tutto pur di ottenere la vittoria, protagonista di prestazioni diventate ormai leggendarie, dalla schiacciata dalla linea del tiro libero fatta per la prima volta durante l’All Star Game del 1987 (ma resa celebra nelle sfida contro Dominique Wilkins l’anno successivo) alla partita giocata con l’influenza nelle Finals del 1997 – quelle che precedono gli eventi di The Last Dance – senza dimenticare i 63 punti segnati contro la corazzata dei Boston Celtic nel 1986, che Larry Bird commentò dicendo “Quello era Dio travestito da Michael Jordan”.
Ma quei Chicago Bulls non erano solo MJ. Per quanto forte, un solo uomo non basta a vincere i campionati – come ci insegnano gli ultimi anni di LeBron James a Cleveland -, e lo strapotere avuto dalla franchigia della città del vento non sarebbe stato possibile senza una serie di comprimari di altissimo livello. In primis Scottie Pippen, probabilmente il tassello più importante e il motivo principale se siamo qui a parlare dei Bulls di Jordan, seguito da Dennis Rodman, una delle figure più controverse della storia dell’NBA già dai tempi della sua esperienza con i Bad Boys di Detroit – spazzati proprio dai Chicago Bulls in finale di conference nel 1991 dopo due titoli consecutivi -, e uno dei migliori difensori in circolazione.
C’erano poi anche Steve Kerr, amante del tiro da tre e ora coach dei Golden State Warriors degli Splash Brothers che hanno battuto il record in stagione dei Bulls (73-9) senza però riuscire a chiudere la stagione con un anello, e quel genio di Toni Kukoč, arrivato a Chicago nell’anno successivo al primo ritiro di Jordan dalla Benetton Treviso ma scelto al draft quando dominava nei palazzetti europei con la Jugoplastika. Un cast eccezionale guidato da un’altra leggenda della palla a spicchi: coach Phil Jackson, lo stesso allenatore che ha portato i Lakers di Kobe Bryant a vincere cinque titoli.
The Last Dance ripercorre in dieci puntate l’ultima stagione in cui MJ e i suoi Bulls sono rimasti insieme, alla caccia del sesto anello e del secondo three-peat, in un periodo in cui il clima nello spogliatoio non era dei migliori, in parte a causa del general manager della squadra Jerry Krause, famoso per la frase “Players and coaches don’t win championships. Organizations do”. Un uomo difficile da amare, dall’ego smisurato, alla costante ricerca di approvazione, ma che ha avuto l’innegabile merito di mettere insieme una formazione mai vista prima con dei colpi da maestro come lo scambio che ha portato Pippen a Chicago o scegliendo Toni Kukoč nel secondo turno del draft nel 1990.
Parallelamente alle vicende dell’ultima stagione, il documentario esplora il percorso fatto da alcuni giocatori prima di vestire la casacca dei Bulls. È una scelta che offre la possibilità di approfondire quelli che sono gli eventi cardine che li hanno portati nell’Olimpo del basket, togliendo per un attimo quell’aura leggendaria che li circonda e mostrandoli lontano dai riflettori. Si tratta di una caratterizzazione che non giustifica necessariamente alcuni comportamenti al limite dei protagonisti di The Last Dance, ma ci aiuta a comprenderne le motivazioni, perché, seppur atleti di altissimo livello, rimangono pur sempre degli esseri umani. Guardando gli highlights di quella squadra e il modo in cui dominavano i campionati è facile credere che per i Bulls vincere fosse una passeggiata, ma un altro dei pregi di questo documentario è mostrare la fatica fisica e soprattutto mentale richieste per raggiungere questi livelli di agonismo, con le inevitabili tensioni che si creano sotto questa pressione.
Si tratta di un prodotto senza eguali dove il team guidato da Jason Hehir ha avuto oltre cinquecento ore di materiale inedito d’archivio a disposizione, un patrimonio arrivato a noi grazie e soprattutto a Andy Thompson, zio del tre volte campione Klay Thompson e fratello di un altro storico giocatore, Mychal Thompson – quest’ultimo amatissimo da Jordan, soprattutto per il modo in cui veniva scritto il suo nome. L’idea di seguire i Chicago Bulls per un’intera stagione con una crew è stata proprio di Andy, che con un semplice pitch che si può riassumere con “Non possiamo non avere qualcosa che documenti una stagione del più grande atleta di questa generazione” è riuscito a convincere l’allora neo-eletto presidente dell’NBA Enterteinment – e futuro commissario della lega – Adam Silver a parlare con Phil Jackson e MJ e ottenere il loro consenso.
Fino a quel momento era quasi impossibile filmare più dello stretto necessario di Jordan e gli altri, soprattutto nei momenti non prettamente legati alle partite. L’unico materiale che veniva prodotto in quegli anni era destinato alle videocassette che l’NBA usava come propaganda per promuovere la lega. Riprendere una squadra per un’intera stagione al giorno d’oggi è la normalità, come dimostrano gli innumerevoli documentari che popolano sia Netflix che Amazon, ma all’epoca era davvero qualcosa di unico: la semplice scelta di girare questi dietro le quinte in 16mm per offrire una qualità più alta è un esempio della serietà con cui fu preso questo incarico. Il motivo per cui ci sono voluti 22 anni per ricavarne qualcosa è semplicemente dovuto al fatto che si stava aspettando l’idea giusta per sfruttare il materiale d’archivio. L’obiettivo era infatti quello di documentare questi eventi dato il valore storico della stagione e di quella squadra e poi di renderlo disponibile a chi ne avesse bisogno, perché quello che stava accadendo nell’NBA era troppo importante per non essere ripreso.
Con l’aggiunta di interviste recenti in cui i protagonisti di quell’incredibile periodo aiutano a ripercorrere i momenti chiave delle loro carriere, Jason Hehir ha realizzato un’opera di altissimo livello, una serie in cui con le sole due prime puntate è chiaro perché The Last Dance sia stato uno dei prodotti più attesi di questa stagione televisiva. La fascinazione per i Bulls di Jordan è solamente destinata a crescere, una squadra che più di ogni altra rappresenta l’NBA e quello a cui la lega ambisce. In un periodo in cui tutte le competizioni sportive sono ferme, The Last Dance è l’antidoto giusto per tutti quelli a cui manca la palla a spicchi, una documentario che, anche se sappiamo come andrà a finire, è in grado di trasmettere tutte le emozioni che hanno caratterizzato un periodo magico della storia dell’NBA.
Voto: 9