Una delle idee potenzialmente più efficaci di Apple TV+ è stata la scelta di giocare con i generi, di sperimentare forme diverse di narrazione in modo da attrarre tipologie di spettatori le più variegate possibili. Anche Little Voice è uno di questi tentativi e risponde alla volontà di creare qualcosa di nuovo nel panorama delle commedie musicali/romantiche.
Già collaboratrici nello spettacolo di Broadway Waitress, la regista Jessie Nelson e la cantautrice Sara Bareilles ritornano insieme per questa nuova serie, Little Voice. È la storia di Bess (Brittany O’Grady), una giovane cantante che, dopo una cocente delusione sul palco, non ha più il coraggio di esibirsi in pubblico con le proprie canzoni, e sopravvive nella cara New York con tutta una serie di lavori minori. Il suo sogno, però, è tornare sul palco ed esibirsi con le proprie canzoni originali. In tutto questo, la ragazza dovrà fare i conti con un padre in difficoltà, un fratello che mal sopporta la comunità nella quale vive, e alcune difficoltà sentimentali.
Se da questo breve riassunto della trama principale sembra evincersi un’assenza di originalità generale, questa sensazione purtroppo non viene smentita da un pilot carino ma piagato da due problemi principali: è troppo lungo e già visto. In uno stile narrativo che in parte ricorda A Star is Born e la ricerca di una voce e di un riconoscimento pubblico, le vicende di Bess alternano due momenti differenti, con un diverso grado di successo: da un lato c’è sicuramente l’attenzione ad una rappresentazione più onesta di certe vite, con tutte le difficoltà quotidiane, e dall’altro la banalità di situazioni che non hanno nulla di originale. Tutto sommato il problema principale di questo pilot è proprio qui: negli oltre trenta minuti di episodio, veniamo messi di fronte ad una serie di situazioni che si ripetono – il trauma passato, la spinta delle persone che stanno intorno alla protagonista e che credono in lei, le brutte docce fredde sentimentali – in un genere che pure potrebbe permettersi di innovare molto di più.
La storia di Bess è in questo pilot molto debole e si concentra sulla sua perdita di fiducia, sul suo metodo di scrittura, sull’insistenza degli altri nei suoi confronti, anche se allo spettatore questa grandezza autoriale e professionale non è ancora stata esibita. Sappiamo che dobbiamo avere fiducia in lei, ma nessuno ci dimostra perché. Si intravede anche dell’altro, come un complesso triangolo amoroso, croce e delizia del genere, o un interessante rapporto d’amicizia con Prisha, una ragazza indiana i cui genitori spingono al matrimonio. Ben più originale sembrerebbe la storyline che vede protagonista il fratello di Bess, Louie, un ragazzo autistico (come l’attore che lo interpreta) ossessionato da Broadway; il suo racconto possiede tutto il potenziale di uno sguardo nuovo su una sfera umana solitamente poco rappresentata dalla serialità televisiva. Questo nuovo filone narrativo parrebbe essere, non a caso, l’invenzione più interessante – forse anche perché l’unico in cui lo humor funziona davvero – ma non può costituire certo l’unico punto di forza della serie.
In effetti, ci sono altri aspetti che meritano una maggiore attenzione e fiducia. In primis, la musica: Sara Bareilles, il cui inconfondibile stile traspira attraverso le canzoni cantate e scritte da Bess, è forse l’accoppiata migliore con il panorama newyorchese che questa serie cerca di rappresentare. La canzone cardine di questo pilot, che viene a pezzi fatta ascoltare più volte, è ad esempio molto piacevole e dotata di quella morbidezza che si sposa bene con il panorama descritto dalla serie. Sarà curioso vedere se nei prossimi episodi ci si allontanerà un po’ da questi suoni o se ci si manterrà piuttosto fedeli: entrambi i casi potrebbero funzionare se la serie troverà il modo di integrarli bene nel proprio contesto narrativo. È chiaro che l’episodio pilota punti molto sul modo in cui Bess fa esperienza della musica, le modalità in cui la ragazza guarda al mondo per poter estendere i propri confini e trovare l’ispirazione giusta per scrivere le sue canzoni – anche se nessuno le ascolterà. Ecco dunque che ogni cosa diventa possibile fonte di ispirazione per scrivere e alcune di queste scene, benché ripetitive, dopo un po’ possiedono il giusto tono per risultare affascinanti.
“I Don’t Know” non è un brutto pilot, sarebbe certo ingiusto dirlo, ma fatica a convincere lo spettatore che non sia già di per sé affezionato a questo genere narrativo. Anche per chi è solitamente a digiuno dalla commedia romantica, alcuni cliché sono così riconoscibili e alcuni dialoghi così melensi da rendere difficile immergersi in questo mondo. La distribuzione settimanale (solo i primi tre episodi sono stati rilasciati per ora), poi, potrebbe essere un ulteriore problema: questa serie sembrerebbe prestarsi meglio ad una fruizione immediata.
Voto: 5