Prendete il tipico giocatore di football americano del liceo con la faccia da bravo ragazzo e fidanzato con la cheerleader della sua squadra. Sembra una classica storia di successo a stelle e strisce, se non fosse che un giorno due bambini lo accusano di violenza sessuale. Dalle stelle alle stalle in un battito di ciglia: questa è la storia di Outcry.
Greg Kelley nell’estate del 2013 ha diciotto anni ed è la star indiscussa della squadra del suo liceo, in una piccola contea del Texas, quando un bambino che va all’asilo nella casa in cui vive lo accusa di avere avuto con lui rapporti sessuali.
Outcry entra fin da subito nel vivo della storia sbattendoci in faccia la mostruosità dell’atto: un bambino di quattro anni, in un colloquio, dice di avere fatto sesso orale – ovviamente attraverso il linguaggio dei bambini – con Greg, per più volte. La crudezza di quel momento, che ci viene rivelata subito, senza mezzi termini o giri di parole, si scontra subito col mondo idilliaco – o come tale sembrerebbe – di un giovane atleta di successo. La prima cosa che si nota dalle interviste e dagli interventi di quelli che fin dal 2013 hanno seguito il caso – che fosse a livello investigativo, giornalistico o semplicemente per vicinanza a Greg – è come il football delle high school venga considerato, se non più importante, allo stesso livello di quello dei professionisti.
Il primo punto di interesse sociale di questo documentario risiede proprio nell’idolatria che molte persone hanno nei confronti di Greg: il movimento per la ricerca della verità dopo la sentenza di colpevolezza nasce proprio da persone che con Greg non ci hanno mai nemmeno parlato. Il poco spazio dato alla controparte – una scelta in parte spiegata alla fine con il ripetuto rifiuto dei parenti delle vittime di parlarne in tv – sottolinea proprio questo aspetto: prendere le difese di un idolo sportivo (tra l’altro locale e ancora non affermato) per partito preso è giusto nei confronti di un bambino che ha subito un abuso?
Outcry, oltre ovviamente alla storia che racconta, ci mette di fronte a questo interessante punto di vista sull’idolatria ma si concentra anche e soprattutto su un altro tema molto importante, specie per i tempi che stiamo vivendo: l’operato della polizia e degli investigatori è al centro della critica maggiore che questo prodotto pone all’attenzione del pubblico.
Già dalle prime battute si intuisce come le indagini si siano concentrate subito su Greg, senza approfondire le parole di un bambino di quattro anni sotto shock e cercando in tutti i modi di chiudere il caso per trovare subito un colpevole da dare in pasto alla comunità. Con questa ricostruzione è imbarazzante notare come elementi che per un’investigazione dovrebbero essere naturalmente presi in considerazione e assolutamente approfonditi vengano invece lasciati da parte come possibili seccature, sicuri che un bambino stia assolutamente dicendo la verità e che quel Greg nominato (senza mai che nessuno ne indichi il cognome) sia proprio Greg Kelley.
È altresì inquietante anche l’assoluta non professionalità del primo avvocato di Kelley, impelagata da vicende professionali e personali con la famiglia dell’altro sospettato – nome che uscirà solo dopo anni, e che mai sarà indagato per questo crimine – che evita di tirare in ballo nel processo elementi che possano portare le indagini su un altro sospettato, rischiando (come poi è avvenuto) di far condannare il suo assistito a venticinque anni di prigione.
Tutte queste situazioni, sommate tra di loro, restituiscono un quadro sconfortante della giustizia americana e ci mettono addosso un terrore che forse neanche i film horror meglio costruiti riescono a generare. Pensare che la tua vita sia in mano a delle persone totalmente incompetenti – e alle volte addirittura in malafede – e che si rischia di passare in carcere il resto della propria vita senza aver commesso alcun crimine è una cosa da togliere il sonno.
Sono molto ben costruite le sezioni del documentario più intime e dedicate direttamente a Greg, come quelle in carcere e quelle dedicate al post scarcerazione, nell’attesa snervante, lunga anni, prima di sapere di essere stato completamente assolto. È molto interessante seguire il passare del tempo direttamente con gli occhi di Greg: la sua tristezza nei momenti dietro le sbarre e il nervosismo che lo accompagna per anni, ogni mercoledì mattina, quando controlla il sito della Corte che deve decidere della sua vita. In totale, più di sei anni di assoluta agonia, sei anni che gli sono costati una carriera nel mondo del football americano e che hanno rischiato di rovinargli per sempre tutto il resto della vita.
Se c’è una cosa che Outcry fa assolutamente bene è proprio questo: metterci di fronte all’angoscioso passare del tempo in attesa di quella cosa che dovrebbe essere il fine ultimo della nostra vita, cercare e trovare la Verità.
Sarà stata trovata? Di sicuro, nel percorso per arrivarci, hanno perso tutti.
Voto: 6/7