Accade a volte che un romanzo risulti talmente potente da convincere qualcuno ad acquistarne i diritti ancora prima della sua pubblicazione. È quello che è successo a Celest Ng e al suo Little Fires Everywhere, sul quale la lanciatissima Reese Whiterspoon ha subito messo le sue mani da produttrice, spinta tra le altre cose dal successo della pluri-premiata miniserie Big Little Lies.
Le similarità, del resto, con la serie che ha conquistato 8 Emmy Awards nel 2017, non mancano, a partire proprio dalla Whiterspoon in veste ancora di protagonista (e con un ruolo molto simile), e alla storia che vede al centro personaggi femminili forti alle prese con le difficoltà della propria condizione e del proprio ruolo di madri.
La storia si apre con un incendio che devasta la residenza di Elena (Reese Whiterspoon), madre apparentemente affermata che gestisce il prototipo delle famiglia americana perfetta. Se nel romanzo viene immediatamente rivelato il nome di chi ha appiccato il fuoco, la serie sceglie la strada del mistero, fornendoci un’unica informazione: l’incendio è stato originato da tanti piccoli fuochi sparsi. Il resto della miniserie è in sostanza un lungo flashback che racconta come si è arrivati a quel momento, incentrato soprattutto sul delicato rapporto tra Elena e Mia (Kerry Washington), madre single e artista, che arriva in città con la figlia rompendo i delicati equilibri di quel luogo tranquillo e pacifico.
Portata sullo schermo da Hulu, la serie si presenta come un classico family drama, in cui una situazione apparentemente idilliaca inizia a mostrare tutte le sue crepe nel momento in cui un elemento esterno ed improvviso irrompe ed inizia a minare quell’equilibrio alla base. È inutile dire che i tanti piccoli fuochi sparsi non sono altro che quelle piccole incomprensioni, frustrazioni, invidie e gelosie che, seppure tenute a bada da un lungo lavoro di organizzazione (o soffocamento) nel tentativo di costruire una famiglia serena, esplodono non appena una miccia arriva ad accenderle una dopo l’altra.
Fin dall’inizio l’evidente punto di forza dello show balza subito agli occhi: anche nelle sue parti meno riuscite, la miniserie è trainata dal duo di protagoniste alle prese con un rapporto da amiche-nemiche che lentamente si sgretola, minato da tante frustrazioni individuali dovute a scelte fatte in nome delle difficoltà affrontate per la loro condizione esistenziale, sociale, di classe, e di razza. Esaltato da una scrittura efficace e attenta a non prendere posizioni, il rapporto tra le due protagoniste nella sua evoluzione è sicuramente l’elemento più riuscito di questo adattamento.
La serie ha uno sviluppo molto lento, specialmente all’inizio, e richiede allo spettatore più che un po’ di pazienza per riuscire ad entrare dentro la storia. Seppure le tensioni tra le due protagoniste e i loro punti di contrasto siano evidenti fin da subito, infatti, la storia si concentra sullo studio di molti più personaggi, con un lavoro lungo e certosino di caratterizzazione che coinvolge persino i figli delle due donne, tutti con un ruolo molto maggiore rispetto al libro e tutti con personalità e storyline specifiche. Il lato negativo di questo aspetto è che la vicenda che coinvolge Mia e la sua collega asiatica Bebe, una parte centrale della storia, per molti episodi appare quasi come un subplot di cui si fatica a capire utilità e senso, confondendo lo spettatore.
La gestione della narrazione non è quindi perfetta all’inizio, soprattutto per il poco rispetto dell’unità episodica nel tentativo di abbracciare la continuità di un lungo film in otto parti; una sensazione che nei segmenti introduttivi toglie sicuramente potenza e spessore agli eventi raccontati. Superate le fatiche iniziali, però, la serie decolla in una seconda parte che ripaga tutti gli sforzi, costruendo un climax progressivo di tensione che conduce ad un’esplosione degli eventi finale tanto forse prevedibile quanto potente nel suo intrecciare e sciogliere ogni singola storyline aperta fino a quel momento.
Se tra l’altro si poteva scommettere a mani basse sul talento di Reese Whiterspoon e Kerry Washington, sorprendente e inaspettato è invece l’incredibile apporto del cast giovanile del film: soprattutto le tre figure femminili interpretate dalle quasi esordienti Lexi Underwood (Pearl), Jade Pettyjohn (Lexie), e Megan Stott (Izzy), danno un contributo importante alle tematiche della serie, elevando con grande sensibilità storyline sull’aborto, sul razzismo, e sull’omosessualità. Al contrario di come accade in molti prodotti (come lo stesso Big Little Lies), i figli non sono solo eco, accompagnamento o motore per i personaggi dei genitori, ma acquistano una tridimensionalità specifica. Questo ovviamente aggiunge qualcosa di più anche al conflitto tra le due donne, portandole spesso a confrontarsi con una generazione più giovane chiamata prepotentemente a ribellarsi per non fare gli stessi errori dei genitori.
Nelle zone di grigio che la serie affronta, la scrittura è sempre molto attenta a non prendere posizioni e a rimanere in equilibrio senza giudicare le scelte dei personaggi. Nei rari momenti in cui lo fa la serie perde d’intensità, ma si tratta di piccole scivolate in un dramma che non ha vincitori, vittime o carnefici. Proprio in questo, la serie evita facili retoriche (anche qui, in modo molto diverso da Big Little Lies), e preferisce un finale per molti versi amaro, ma anche terribilmente potente.
C’è da dire che Big Little Lies, pur non essendo perfetta, arrivava al momento giustissimo per spiccare nel panorama televisivo di quel periodo. Little Fires Everywhere (come forse anche la recentissima Mrs. America) sembrano arrivare un po’ fuori tempo massimo su un dibattito meno “di moda” rispetto a prima, e che quest’anno sembra essere stato scalzato dalle grandi proteste di piazza del movimento del Black Lives Matter (tanto da vedere Watchmen probabile favorito dei prossimi Emmy). La serie, però, grazie proprio alla qualità della sua scrittura, riesce a distinguersi e ad acquisire un valore indipendente dal dibattito culturale ora in corso, in virtù della sensibilità con cui porta sullo schermo i suoi personaggi e di uno sguardo molto più sincero e tutto al femminile sulle tematiche trattate.
NOTA:
Questo articolo fa parte della rubrica estiva “Recuperi Seriali 2020“: durante il mese di agosto parleremo, con articoli senza spoiler, di alcune delle serie 2020 di cui non abbiamo avuto l’occasione di parlare e che secondo noi andrebbero assolutamente recuperate!
LFE è IRRITANTE, se si è letto il libro. Intendiamoci: è scritta e recitata da dio, e in tal senso sono il primo a dire che è stata una delle migliori novità dell’anno. Il lavoro di adattamento dal libro, però, è di un’ipocrisia da denuncia. Infatti, sono stati infilati a forza i tre temi sociali più in voga oggi: razzismo, omofobia e mascolinità tossica. Vado per punti:
#Razzismo: nel libro Mia e Pearl NON SONO NERE. In un altro tipo di racconto la scelta sarebbe legittima; qui un tema fondante è quello della disparità sociale, che per forza di cose viene annacquato se ci aggiungi la differenza razziale. E’ molto più semplice fare accettare un discorso antirazzista che uno anticlassista, specie negli U.S.A., ed è questa la strada codarda che hanno scelto gli autori.
#”Machismo” (femminismo tossico?): la mancata erezione di Moody con Pearl (che lo porta addirittura a respingerla!) è inspiegabile, se non nell’ottica di una serie dove GLI UOMINI DEVONO SEMBRARE SEMPRE PIU’ SUPERFICIALI delle donne. Nel libro succede l’esatto opposto: il loro rapporto sessuale è sanissimo e serve anche a mostrare il lato dolce di un personaggio che, almeno in pubblico, si presenta appunto come super-superficiale.
LGBTQ+: non vorrei sbagliare ma nel libro è un tema che NON COMPARE PROPRIO. Mia non ha alcuna relazione sessuale con la sua mentore, mentre Izzy al sesso non ci pensa proprio. Non dico che questa ultima infedele caratterizzazione (a differenza di razzismo e machismo) vadano a minare il messaggio finale, ma messe tutte e tre una dietro l’altra spero diano fastidio a più gente possibile.
PS Mi tocca sottolinearlo: credo che un adattamento abbia il diritto di deviare anche parecchio da un’opera originale, a patto che non vada a snaturare il suo messaggio di fondo, specialmente se, come in questo caso, è fortemente politico… ma con Little Fires Everywhere è avvenuto proprio questo