It’s a Sin – Miniserie 2


It's a Sin - MiniserieA due anni dal suo (ennesimo) capolavoro, la miniserie distopica Years & Years, Russell T Davies torna a firmare un progetto totalmente incentrato sul tema dell’omosessualità, intesa soprattutto come l'”evoluzione” sociologica e storica dei diritti LGBTQIA+. Per quanto siano topoi costanti della sua poetica, è in narrazioni come questa che tali temi tornano protagonisti incontrastati e vengono ampiamente affrontati in senso storico, appunto, ma soprattutto come riflessione sul funzionamento altamente devastante dello sguardo eteronormato della società – e così era negli anni ’80 e così è ancora oggi, negli anni ’20 del duemila.

Senza voler fare riferimenti politicamente precisi (qualcuno ha detto legge Zan?), venga preso come dato assoluto e certo che la lotta per i pieni diritti della comunità gay è ben lontana dall’essere finita e, sebbene per alcuni aspetti ci sia molta più libertà rispetto al passato di parlarne, questo non significa dover smettere di lottare o di discuterne costantemente: bisogna pretendere che gli argomenti siano affrontati con la complessità che meritano e non essere trasformati in alimento per siparietti da talk-show televisivo per gente annoiata (e privilegiata).

Perché il più grande errore che possiamo fare è pensare che ci siano questioni più importanti o urgenti rispetto al pieno riconoscimento della propria identità, come se fossero un semplice corollario dell’essere umano, come se la “benedizione” da parte della struttura sociale e legislativa di un paese non fosse così importante nella vita della singola persona, ma giusto un dettaglio che possiamo rimandare a tempi migliori. La scelta di Russell T Davies di andare a pescare nel mare magnum della storia proprio il periodo di diffusione dell’AIDS, prima in Gran Bretagna e poi nel resto del mondo, potrebbe inizialmente sembrare una scelta in qualche maniera superata, perché in fondo la malattia che ha segnato intere generazioni di omosessuali non rappresenta più una condanna a morte, come era stato quasi quaranta anni fa. Il punto è invece inquadrare come abbia rappresentato un vero e proprio spartiacque storico e sociale, per la comunità LGBTQIA+ in primis e, di conseguenza, per il resto del mondo, perché in fondo serve (purtroppo) sempre il riconoscimento di un nemico comune per crearla, quella stessa comunità.

It's a Sin - MiniserieNel settembre del 1981 le vite di cinque ragazzi si incrociano in un appartamento di Londra, il Pink Palace, come verrà successivamente ribattezzato dai suoi inquilini; i cinque provengono da zone diverse dell’isola, con storie familiari ed estrazioni sociali abbastanza diverse tra loro, ma accomunati dalla voglia di uscire dal loro piccolo guscio per perdersi nelle mille tentazioni della città. Nei romanzi di formazione, l’abbandono della periferia per la grande città si accompagna spesso all’abbandono del tetto familiare, perché la periferia viene fatta coincidere con la costrizione della propria identità non solo all’interno di un luogo spazialmente angusto, ma in un certo senso temporalmente datato, in cui crescendo è difficile riconoscersi. Il protagonista, Ritchie (Olly Alexander), vive con la sua famiglia medio-borghese sull’isola di Wight e deve trasferirsi a Londra per studiare legge all’università; ma una volta arrivato, grazie soprattutto all’incontro con Jill (Lydia West), capirà che non è quella la sua strada. Contemporaneamente, vediamo accadere le vite di Roscoe (Omari Douglas), ragazzo londinese di origini nigeriane, che scappa letteralmente di casa e da una possibile deportazione in Africa per scacciare il demone dell’omosessualità; poi di Colin (Callum Scott Howells), un timido gallese che lascia la madre per andare a lavorare in una prestigiosa sartoria nella capitale. Intorno a questo nucleo principale, si svolge anche la vita del quinto inquilino, Ash (Nathaniel Curtis), insegnante indiano, la cui storia sarà per diversi episodi raccontata tramite gli occhi di Ritchie.

It's a Sin - MiniserieI primi episodi sono un costante inno alla libertà, la rottura con il passato (la periferia) per entrare a piene e inconsapevoli mani nel futuro (Londra), e soprattutto una costante rincorsa del desiderio, che si configura sia come la spinta sessuale da poter vivere senza nessun limite, sia come la ricerca della propria strada, liberi dalle convenzioni sociali del “buon lavoro” sicuro e appagante. In questo senso la storia di Colin, tra tutte, è sicuramente la più interessante perché sembra essere in contraddizione con questo senso di rottura: Colin è un bravo ragazzo, gli piace il suo lavoro e lo fa con una dedizione indefessa. Diversamente dall’agilità sessuale di tutti gli altri, lui non riesce a vivere il desiderio liberamente, ma appare sempre in un angolo, incapace di buttarsi nella mischia o vivere anche con semplice leggerezza quello che vede fare a tutti gli altri. Anche lui come Ritchie, ma da un altro punto di vista, riceve in un certo senso il via libera e la spinta ad avere più coraggio da Jill, tanto da candidarsi spontaneamente come inquilino del Pink Palace; ma sarà anche il primo (paradossalmente) di cui vediamo interamente il decorso causato dall’AIDS. I primi tre episodi, infatti, si possono leggere attraverso la malattia di Colin da un lato e di Gregory/Gloria (David Carlyle), dall’altro, dove il primo diventa il simbolo della barriera mentale e privata della vita dell’omosessuale, di come sia lui stesso a vivere con disagio la sua identità e in fin dei conti non arriverà mai ad una vera e propria accettazione di sé – soprattutto perché non ne ha il tempo.

It's a Sin - Miniserie

L’incontro con il collega Henry Coltrane, un bravissimo e decadente Neil Patrick  Harris, fa da detonatore di questo nascondiglio personale, perché venendo a sapere di come l’uomo abbia sempre vissuto la sua vita e la sua relazione all’ombra della sua stessa proiezione all’esterno, è allo stesso tempo un facile riconoscimento di sé per Colin ma anche l’avvallo di come forse non sia così necessario venire allo scoperto per essere omosessuali. E sarà la malattia di Henry e poi la sua morte in solitaria per colpa dell’AIDS a far aprire gli occhi al ragazzo, che però non avrà il tempo materiale per reagire prima alla bullizzazione del suo datore di lavoro o a raccontare e quindi liberarsi della sua storia dopo: solo negli ultimi momenti della sua vita, tramite i suoi ricordi, noi spettatori vediamo quale sia stata la realtà dei fatti, cosa abbia davvero vissuto, cioè di come abbia avuto una relazione nascosta ed abusante con il figlio dei suoi primi padroni di casa – tristemente, in questo caso è la morte a liberarlo dal peccato e dalla colpa, vittima innanzitutto di se stesso. Gloria invece è un omosessuale attivo, spontaneo ed aperto e finirà invece i suoi giorni off-screen per i suoi amici, che non sapranno mai cosa sia successo davvero dopo essere tornato dai suoi genitori, e diventa quindi la vittima dell’ignoranza, dell’egoismo e del perbenismo della sua stessa famiglia – la stessa che farà un falò delle sue cose per liberarsi di lui e quindi del suo peccato e della sua colpa. Il viaggio inverso, andare via da Londra, è la rappresentazione quindi dell’involuzione rispetto alla prima parte, perché, nel momento in cui l’AIDS diventa una questione di dominio pubblico, i ragazzi capiscono che le sparizioni ammantate di bugie (morte per polmonite o cancro) significano solo una cosa: morte.

It's a Sin - MiniserieGli ultimi due episodi sono incentrati sulla malattia di Ritchie, che ha una storia ancora diversa da quella degli altri due. La raffinatezza della penna di Davies sta proprio nella capacità di descrivere come quella che è stata ritenuta una piaga per la comunità omosessuale, la punizione divina per condurre una vita blasfema, sconveniente e innaturale, era innanzitutto il senso di colpa e peccato che nasceva da dentro se stessi, e prima ancora sotto quel tetto familiare che, invece di essere protezione, diventa appunto prigione. Ma la storia di Ritchie è diversa ed è anche la summa dell’intera serie. Il comportamento leggero e superficiale di Ritchie, le bugie costanti disseminate sia nella sua vita privata che nella sua vita professionale, sono la sua vera colpa, perché quando la malattia arriva, dopo averla negata a se stesso e agli altri, è per lui la negazione della libertà ed è per questo che continua a rifiutarla, ignorarla fino a diventarne il portatore, quell’angel in disguise per come l’opinione pubblica aveva iniziato a raccontare e romanzare l’AIDS. Perché se la letteratura è menzogna in quanto inventa anche ciò che non sa, allo stesso tempo gioca con la bugia per arrivare alla verità: quando la vicina di casa, portatrice dell’opinione pubblica, dice a Roscoe questa frase, la reazione del ragazzo è violenta perché non accetta di vedere in un modo quasi pulito e cattolico una malattia che sta uccidendo il suo amico. Ma quando Ritchie sta per morire, in realtà è lui stesso a configurarsi come una sorta di angelo della morte, raccontando di come, pur consapevole di poter essere malato, non si fermi quasi mai e vada avanti per mesi ad avere rapporti sessuali occasionali non protetti: la sua morte qui coincide davvero con la condanna della libertà a tutti i costi, ha davvero il sapore della punizione per la colpa e il peccato della sua vita senza freni, ma causato questa volta solo da sé, dalla sua stessa paura e dalla sua stessa ignoranza.

Lo scambio tra Jill e la madre di Ritchie davanti al mare chiude in maniera circolare questo continuo puntare il dito l’un l’altro, perché mentre tante persone muoiono, il resto del mondo è impegnato a cercare di chi sia il peccato originale, ma senza riuscire a trovare davvero una soluzione che comunque, in ogni caso, non c’è. E allora ognuno andrà alla ricerca della propria espiazione, assistendo i malati, continuando a lottare e a manifestare in strada, facendo i conti con la propria cecità o semplicemente andando avanti con la propria vita, nei casi più fortunati trovando una nuova conciliazione con il proprio passato e magari riuscendo a perdonare chi ci ha fatto del male; ma quello che resta alla fine è che durante quei giorni spensierati al parco, indelebili nella memoria di pochi, si è creata la comunità, la vera famiglia, quella che si sceglie solo per amore.

Di una serie come It’s a Sin si potrebbe parlare all’infinito e sempre con la sensazione di non aver detto tutto, di non aver colto le mille sfumature che solo un autore come Russell T Davies riesce a racchiudere all’interno di soli cinque episodi; ma anche senza intellettualizzare troppo, che sia una delle serie capolavoro dell’anno non può che essere chiaro a chiunque.

Voto: 9

 

Condividi l'articolo
 

Informazioni su Sara De Santis

abruzzese per nascita, siciliana/napoletana per apparenza, milanese per puro caso e bolognese per aspirazione, ha capito che la sua unica stabilità sono netflix, prime video, il suo fedele computer ed una buona connessione internet


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

2 commenti su “It’s a Sin – Miniserie

    • Federica Barbera

      Starzplay l’ha acquistata per Italia e Germania, ma in effetti non si trovano indicazioni temporali più precise di un “prossimamente”… Attendiamo!