Se c’è un’abitudine che non tramonta mai nel panorama televisivo, è quella della tv americana di riproporre a loro modo serie britanniche di successo più o meno recenti. È il caso di Murderville, nuova serie di Netflix che si rifà direttamente allo show della BBC andato in onda tra il 2015 e il 2017 dal titolo Murder in Successville.
Il progetto nasce come una sorta di parodia dei vari cop-show, ma è anche uno strano ibrido tra serie tv e reality show, con la peculiarità di avere ospite ogni puntata una star diversa, la quale è anche l’unica a non avere un copione e ad essere costretta a reagire e improvvisare in ogni scena mentre analizza gli indizi e cerca di capire chi è l’assassino. La serie BBC era una complicatissima miscela di tantissimi elementi che facevano apparire ogni puntata assolutamente caotica, ma nel quale ogni aspetto era in realtà perfettamente calcolato e gestito alla perfezione. La versione americana cerca di riproporre l’atmosfera completamente assurda ed esilarante dello show originale, ma non tutti gli elementi sembrano altrettanto ben amalgamati.
Uno dei maggiori problemi è il protagonista stesso, un Will Arnett nei panni della caricatura parodica del tipico investigatore cupo e tormentato. Con le sue gag e la sua recitazione costantemente sopra le righe prende troppo spesso il centro del palcoscenico, finendo per rappresentare una presenza ingombrante che toglie spazio alla star di turno, e così relegandola ad uno spazio marginale, con in realtà pochissima possibilità di improvvisare e conquistare la scena. Non aiuta certamente che Arnett si annunci come la star assoluta dello show, quando invece l’originale inglese aveva tutto un cast di personaggi famosi (l’intera cittadina fittizia era abitata da celebrità), il che rendeva l’insieme ancora più assurdo, ma anche più equo e omogeneo nella spartizione dei ruoli.
Il secondo elemento da considerare è la scelta del cast. La forza dello show inglese stava soprattutto nel selezionare celebrities che non avevano un background attoriale (principalmente star di reality, o sport, o musica), costretti dunque ad improvvisare senza avere nessun tipo di esperienza nel settore, e questo non faceva che rendere l’insieme ancora più divertente. Qui invece troviamo quasi esclusivamente sia attori ampiamente navigati, che seppur non avvezzi all’improvvisazione, sono fin troppo “attori” nell’approccio al gioco, sia star della commedia come Conan O’Brien, che invece sembra fin troppo a suo agio nella situazione (quando invece la peculiarità del format era proprio di mettere la star di turno il più possibile in difficoltà).
Non a caso, gli episodi più riusciti sono quelli con Marshawn Lynch, star del football che porta un concentrato di folle spontaneità, e a sorpresa proprio quello con Sharon Stone, la quale abbandona ogni vezzo attoriale e porta tutta la sua strabordante personalità naturale, conquistando la scena e spesso lanciandosi in battute fulminanti che surclassano ogni siparietto comico costruitole attorno. Sono proprio loro a salvare la serie dall’anonimato ed evidenziare come la scelta del cast sia stata forse un po’ troppo trascurata, soprattutto se la star di turno è chiamata a misurarsi con l’invadenza dell’ego artistico di Will Arnett. Si prenda, ad esempio, la puntata con Annie Murphy, premio Emmy per Schitt’s Creek, che qui sembra però più a disagio che divertita dalle gag, nonché in difficoltà costante a reggere il ritmo e trovare il suo spazio nella narrazione.
Il terzo elemento da considerare è la detection vera e propria, ovvero il gioco in sé: ogni star viene posta di fronte a tre sospettati e dovrà essere in grado di decifrare gli indizi e capire da sola chi è il colpevole. Se nell’originale britannico questo era forse l’elemento paradossalmente meno importante, per quanto fosse esilarante tutto il contesto, qui ovviamente è ciò che invece viene chiamato a reggere tutta l’impalcatura narrativa. Purtroppo, però, una volta intuito come i vari indirizzi vengono lanciati nel corso di un siparietto comico, capire l’assassino non diventa più difficile di un quiz della Settimana Enigmistica.
Di conseguenza, più passano gli episodi, più la struttura ripetitiva della narrazione diventa un maggiore elemento di noia che fa perdere freschezza allo show puntata dopo puntata. Non aiuta il fatto che, spesso, le gag vengano bruscamente troncate dal montaggio, senza trovare una vera e proprio conclusione narrativa; questo non fa che aumentare l’impressione che molte scene si dilunghino senza un reale motivo e senza un ritmo che aiuti ad arrivare a fine puntata se non con grande fatica. Ogni episodio finisce per sembrare una sequenza di sketch del Saturday Night Live, i quali però non generano abbastanza risate e non danno alcun senso di fluidità al racconto.
L’impressione finale è che la serie britannica sia stata riproposta in questo nuovo Murderville nei suoi elementi più superficiali, ma che manchi di quella raffinatezza (seppure nel suo caos) forse più tipica della comicità inglese che di quella americana, più grossolana e caciarona e forse meno adatta ad un format del genere. In generale, Murderville sembra un prodotto poco studiato, costruito pensando che il format bastasse a garantirne il successo; se, infatti, una battuta improvvisata di Sharone Stone durante l’analisi degli indizi (“This is stickier than my last divorce“) rimane la cosa più memorabile di tutta la stagione, significa che alla base qualcosa non ha davvero funzionato.
Voto: 5