A poco più di un anno dal finale della sesta e ultima stagione di Vikings, la serie History Channel partita nel 2013 e diventata un fenomeno mondiale, arriva su Netflix quello che è a tutti gli effetti un sequel dello show creato da Michael Hirst, cioè Vikings: Valhalla. Questa volta, però, a tenere le redini del progetto c’è Jeb Stuart, sceneggiatore di film cult come Die Hard e Il Fuggitivo; le otto puntate di Valhalla sono una buona introduzione a un interessante gruppo di personaggi in quella che, all’inizio del secondo millennio, nei libri di storia è definita come la fase finale dell’era vichinga.
La fascinazione per i vichinghi e tutto ciò che li riguarda ha raggiunto livelli altissimi negli ultimi anni: oltre al già citato Vikings, recentemente è apparso in TV The Last Kingdom (disponibile su Netflix), tratto dalla saga di romanzi The Saxon Stories di Bernard Cornwell, mentre nel mondo videoludico uno dei franchise più redditizi e di maggiore successo, Assassin’s Creed, ha ambientato il suo ultimo capitolo, anch’esso chiamato Valhalla, nella seconda metà del nono secolo tra Norvegia e Inghilterra, seguendo l’ascesa del popolo norreno nel mondo anglosassone; non è dunque strano che Netflix abbia voluto continuare a sfruttare l’interesse da parte del pubblico per questa tematica.
Valhalla parte da una base storica che lancia gli eventi del racconto – in questo caso il massacro del giorno di San Brizio – per poi piegare alle esigenze narrative altri momenti di rilievo accaduti a distanza di qualche decennio, giocando con quella che è la reale linea temporale. Basti pensare che tra l’evento scatenante e l’assalto al ponte di Londra (la battaglia di Stamford Bridge) che avviene a metà stagione, sono in realtà passati circa sessant’anni. Per gli amanti della precisione storica questo può essere un grande problema, ma chi conosce Vikings sa benissimo che questo utilizzo creativo della Storia era già presente nel racconto incentrato su Ragnar e figli dove, per esempio, i vari assedi a Parigi venivano anticipati di alcuni decenni. Anche gli stessi protagonisti di Valhalla, ispirati ovviamente a figure realmente esistite, sono soggetti a questa dinamica.
Le tre figure principali, cioè i groenlandesi Leif Erikson e Freydìs Eiríksdóttir, e il principe erede al trono di Norvegia Harald Sigurdsson, passano le prime puntate un po’ nell’ombra di chi li ha preceduti, sia narrativamente – tutti e tre devono ancora dimostrare chi sono e affrontare sfide degne di Ragnar –, sia dal punto di vista del carisma. Si possono muovere molte critiche a Vikings, ma di certo il casting e le performance dei suoi protagonisti sono sempre stati di alto livello. Sam Corlett, Frida Gustavsson e Leo Suter, dopo un inizio un po’ in sordina, grazie al lavoro di sviluppo delle prime puntate della stagione e a una maggiore attenzione ai tratti psicologici, riescono piano piano ad emergere in Valhalla, alle prese con grandi scontri non solo bellici ma anche e soprattutto ideologici.
È probabilmente l’aspetto più interessante della serie quello che viene fatto in termini di racconto dell’espansione del cristianesimo anche tra un popolo legatissimo al paganesimo come quello norreno. Già in Vikings erano state gettate le basi per quello che sarebbe arrivato più tardi: se lì le cose erano molto più nette inizialmente a livello religioso, la figura di Ragnar ha piano piano rappresentato sempre di più il conflitto interiore che c’è nel vivere tra questi due mondi così diversi, in battaglia tra il desiderio di essere accolto nel Valhalla e la tentazione e la fascinazione verso il cristianesimo.
Il mondo di Valhalla è molto diverso da quello di Vikings: i popoli scandinavi si sono insediati in Inghilterra da tanto tempo e per molti di loro Cristo è la guida spirituale. Non è un caso che all’interno degli stessi gruppi norreni, magari uniti da un obiettivo comune come vendicare il massacro del giorno di San Brizio, si arrivi allo scontro proprio per cause religiose. La linea narrativa che riguarda Freydìs e lo Jarl Kåre sfrutta al meglio il potenziale di questa divisione: entrambi sono cresciuti con un trauma legato a violenze perpetrate dall’altra religione, ferite che si portano non sono nell’animo ma anche fisicamente, come la cicatrice a forma di croce di Freydìs o il tatuaggio di Kåre; sono figure speculari che rappresentano ottimamente il cambiamento che sta colpendo il nord dell’Europa.
Dopo una prima metà di stagione dal ritmo non troppo serrato, dove viene dato abbastanza tempo ai personaggi per costruire rapporti e conflitti, dalla quinta puntata in poi il racconto inizia inspiegabilmente a muoversi in maniera fin troppo accelerata, una scelta che non mina nel complesso il gradimento dello show, ma che sicuramente penalizza buona parte delle sue linee narrative. In un certo senso, ricorda molto le ultime due stagioni di Game of Thrones: in Valhalla, per esempio, buona parte degli intrighi che riguardano la corte di Londra, eventi che di solito avrebbero richiesto qualche puntata per essere raccontati al meglio, si risolvono in poche scene o addirittura fuori campo. È un vero peccato perché sul suolo inglese sono presenti alcuni del personaggi più interessanti della serie, come la regina Emma, discendente di Rollo, fratello di Ragnar.
Questa rapidità miete alcune vittime durante il suo cammino, in particolare la Jarl di Kattegat, Haakon, un personaggio con una backstory molto interessante ma che è presente sullo schermo per troppo poco tempo per poter sfruttare al meglio il suo potenziale. Perfino la sua morte, arrivata durante la difesa della sua città, avviene in maniera decisamente anticlimatica e poco interessante per una figura che, in quanto leader di un luogo con un valore così importante per questa storia, meritava qualche attenzione in più. Con Valhalla si vive dunque un problema opposto a quello di Vikings che, con venti puntate a stagione, si trovava inevitabilmente ad avere alcuni filoni narrativi eccessivamente diluiti. Le otto puntate di questa serie Netflix, invece, sono troppo poche ed è un vero peccato vista la vastità di contenuti e tematiche da affrontare.
Sul fronte dell’azione – un elemento che ha da sempre contraddistinto Vikings e che gli ha permesso di non sfigurare con il ben più costoso Game of Thrones – Valhalla fa forse qualche passo indietro, colpa anche di alcuni set che impediscono una completa immersione negli eventi; ciononostante, sia l’attacco al ponte di Londra che, soprattutto, quello a Kattegat nel finale, fanno un’ottima figura, soprattutto se si pensa che siamo di fronte a una serie che è stata girata nel corso di una pandemia, e quindi limitata da tutti i vari protocolli che entrano in gioco nel momento in cui si è alle prese con sequenze che richiedono molte comparse.
La serie onora quello che c’è stato prima senza dipendere troppo da continui riferimenti o strizzatine d’occhio invadenti, e anche chi si è perso le avventure di Ragnar potrà godersi le otto puntate. A conti fatti, Vikings: Valhalla è un prodotto valido, che non rivoluziona il genere ma che costruisce qualcosa di interessante sulle basi poste da Vikings, introducendo una serie di nuovi personaggi e nuovi conflitti che aprono le porte a un prosieguo della storia molto interessante.
Voto: 7