La nuova serie Netflix La legge di Lidia Poët, uscita il 15 febbraio, propone con i suoi sei episodi la narrazione in chiave romanzata della figura di Lidia Poët, prima donna a entrare nell’Ordine degli Avvocati in Italia. Lo show, prodotto da Groenlandia, porta in scena il racconto di emancipazione di una donna di fine ‘800 che cerca di affermare il suo diritto di esercitare la professione di avvocato e di essere libera di prendere decisioni per se stessa. Con un carattere ibrido crime-investigativo, La legge di Lidia Poët propone in parallelo la storia della protagonista e una serie di casi giudiziari da risolvere.
Lidia Poët fu per la sua intera vita un simbolo di emancipazione femminile, in un’epoca in cui le donne erano prive di diritti e ridotte a ruoli familiari e casalinghi, senza la possibilità di distaccarsene. La protagonista è interpretata da Matilda De Angelis (The Undoing ), una scelta che conferisce carattere al ruolo rappresentando la personalità della donna che fu Poët, la quale non ebbe paura di lottare per affermarsi come persona e professionista. Sono diversi i tratti della protagonista che la riconducono a una personalità rivoluzionaria e fuori dagli schemi, alla ricerca di una libertà ben più ampia rispetto a quella concessa alle donne dell’epoca.
Nella serie viene mostrato come Lidia Poët fu sempre mossa da un desiderio di affermazione, autodeterminazione e rivalsa, volti soprattutto all’ottenimento di diritti per sé e per tutte le donne. Quanto mostrato nel corso degli episodi ha diverse congruenze con la storia vera: su queste spicca certamente l’evento scatenante della cancellazione dall’Albo degli avvocati e la conseguente impossibilità a esercitare. Questo fatto – con cui prende il via anche la narrazione – portò la storica figura a una lotta instancabile per il suo diritto alla professione.
Anche la collaborazione con il fratello Enrico (interpretato da Pier Luigi Pasino) ha radici nella realtà: infatti questo fratello – nella realtà ne aveva altri 8 -, anch’egli avvocato, la sostenne sempre e le permise di fargli da assistente, dandole di fatto la possibilità di rimanere all’interno dell’ambiente professionale. Il ruolo di questa figura risulta fondamentale tanto nella realtà quanto nella finzione, anche per il supporto che le offrì nel presentare istanza di ricorso in tribunale che, come sappiamo, non venne accolta.
Un ultimo elemento di corrispondenza serie-realtà è legato all’interesse che la vicenda di Lidia destò nel panorama mediatico: infatti, come viene mostrato in particolare nell’ultimo episodio, la storia arrivò all’attenzione dell’opinione pubblica – che da tempo sosteneva la possibilità delle donne di lavorare e ricoprire ruoli professionali – e dei media. Poët nella realtà fu intervistata dalla stampa estera e parlò del suo vissuto e della sua tesi di laurea, che riguardava la condizione femminile e il diritto di voto; un accenno ai suoi studi anche nella serie sarebbe stato interessante, e avrebbe permesso di approfondire maggiormente la figura storica e il suo impegno sociale.
Focalizzandoci sul tema dell’emancipazione, non si può dire che sia stato trattato al 100% delle possibilità: da una parte viene allargato ed estremizzato, anche con la rappresentazione dell’emancipazione sessuale a cui probabilmente è stato dato ampio spazio al fine di dare un maggior carattere di intrattenimento alla visione. Ci si chiede però se fosse necessario inserire gli intrecci amorosi con due uomini quando a fini narrativi portano poco valore aggiunto. Questa scelta invece va a penalizzare il racconto della figura storica, la quale affrontò nella vita diverse lotte di ampio spessore, oltre quella per l’avvocatura. Infatti Lidia Poët fu una sostenitrice dei diritti civili nella loro accezione più ampia, e si concentrò in particolare sulla protezione dei minori e dei detenuti impegnandosi sempre per gli altri – si unì anche alla Croce Rossa Italiana durante lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Anche questo aspetto legato alla difesa dei deboli viene mostrato nello show, ma poteva ricevere una maggiore focalizzazione: certamente notiamo che la protagonista si adopera per convincere il fratello ad accettare i casi di interesse pubblico, ma un focus più strutturato poteva rappresentare un elemento vincente.
Un altro fattore che convince poco, ma che potrebbe essere motivato sempre dalla volontà di piacere a un pubblico più ampio, risiede nella modalità di narrazione dei casi giudiziari. Se consideriamo che l’avvocatura doveva essere la più rilevante occupazione di Lidia, in alcuni momenti della serie sembra di assistere più a un poliziesco. Gli escamotage e i metodi investigativi mostrati sconfinano poi in una modernizzazione un po’ troppo avanzata, restituendo dettagli poco realistici. La necessità di “romanzare” la vicenda e renderla adeguata al prodotto seriale ha probabilmente portato all’utilizzo dell’investigazione per vivacizzare lo show, che connesso alle pratiche legali sarebbe stato forse meno coinvolgente. Il fatto di concentrarsi su un caso differente per ogni episodio dà la possibilità di spaziare nei temi, ma non sembra che questa opportunità sia stata sfruttata al meglio. Il racconto dei casi è infatti un po’ debole, non ci sono trame molto intricate proprio perché devono risolversi entro l’episodio, e quelli che inizialmente sono presentati come misteriosi enigmi appaiono poi scontati o forzati: rispetto alla connotazione crime, La legge di Lidia Poët è fin troppo semplice.
Infine una considerazione sul ruolo femminile: la disparità uomo-donna nella serie viene mostrata non solo nell’impossibilità per le donne di assumere ruoli professionali all’epoca legati alla figura maschile, ma anche a livello più ampio nella società. La donna che cercava di affermare la sua libertà era vittima di derisione e veniva ridicolizzata: lo vediamo in tutte le scene in cui Lidia si presenta come avvocato, ma anche quando lei stessa ride dell’ipotesi di estendere il diritto di voto alle donne, ritenendolo improbabile. Il ruolo della donna nella società e nella famiglia viene portato avanti anche attraverso la famiglia Poët e la nipote Marianna: una condizione di costante sottomissione, in cui le donne non erano libere di prendere alcuna decisione e venivano sottoposte a umiliazioni, trattate come se non fossero equiparabili agli uomini per loro stessa natura.
Nel complesso, la serie, girata a Torino con un’ampia attenzione nella ricostruzione ottocentesca degli ambienti e dei costumi dei personaggi, purtroppo non risulta entusiasmante: non per la storia di Lidia Poët in sé, ma per come è stata rappresentata e per la banalizzazione della trama rispetto ai casi giudiziari trattati. Il racconto poteva avere più ampio potenziale, soprattutto su due versanti: far conoscere il personaggio storico e affermare l’emancipazione femminile in modo più profondo e strutturato, mostrando diversi aspetti della figura di Lidia Poët e restituendone maggiori aspetti soprattutto in merito all’impegno sociale.
Il finale aperto ci lascia con il dubbio di una seconda stagione al momento non ancora confermata, che potrebbe a questo punto approfondire gli aspetti lasciati in sospeso o solo accennati nel corso di questa prima annata; forse però puntare su una miniserie, focalizzata sulla figura storica in modo più deciso, sarebbe stato più impattante e funzionale alla rappresentazione di Lidia Poët, senza condimenti di minor spessore che hanno inevitabilmente penalizzato la narrazione portante.
Voto: 6 ½
Inevitabile il confronto con The Alienist sulla stessa piattaforma; sconfortante constatare quanta strada deve ancora fare la nostra serialità…
Nel primo quarto d’ora verrebbe da dire: finalmente una serie tv italiana girata come si deve, campi larghi, generosità di comparse, ritocco digitale dove serve e una Torino ottocentesca abbastanza credibile, abiti interessanti (magari poco realistici). Va bene, la protagonista è impersonata da Matilde de Angelis, per cui tette in evidenza sin dall’inizio, ma in qualche modo il pubblico bisogna pure attirarlo… Poi mano a mano che la storia si dipana capiamo di trovarci davanti a una sorta di Arsenio Lupin in salsa tricolore, lo scioglimento dell’intrigo (mi riferisco al primo episodio) di una banalità sconvolgente. E ci siamo già persi per strada la lotta vera per l’emancipazione, ridotta a suppellettile narrativa occasionale. E’ così. Infinitamente superiore nella forma a quello che sarebbe stata una fiction su RAI1. Ma di più di questo non riusciamo a fare. Ci manca la scrittura. Facciamocene una ragione.