Dopo il buon successo della prima stagione dello spin-off di Vikings – decisamente non scontato, vista la delusione di un prodotto facilmente accostabile come The Witcher: Blood Origin -, Vikings: Valhalla torna con una seconda tornata di episodi ancora più grande e coraggiosa della precedente.
Se infatti la serie aveva finora visto le vicende svolgersi principalmente tra i territori scandinavi e l’Inghilterra (con la caduta di Londra e la conquista successiva da parte dei Vichinghi), adesso la serie si espande, concentrandosi invece sull’esplorazione da parte dei norreni dei territori dell’Europa dell’Est e la loro conseguente contaminazione con altre culture. È forse il dato più interessante di questa stagione, che ci fa capire in maniera netta che ci troviamo in un’epoca completamente diversa dalla serie originale e in cui il focus deve essere per forza di cose diverso e proiettato nel futuro.
L’anno scorso la narrazione si era infatti principalmente basata sull’inasprimento del conflitto religioso tra cristiani e pagani, un argomento che però era già stato ampiamente sviscerato dalla serie originale – sebbene in questo caso lo scontro sia stato traslato nei termini di una guerra civile tra vichinghi convertiti e quelli fedeli alle vecchie tradizioni. Vikings: Valhalla, nonostante fosse ambientata secoli dopo, sembrava dunque ancora troppo legata al passato e alla sua serie madre. Il cambio di passo arriva finalmente con questa seconda stagione: se infatti da una parte assistiamo all’inasprimento della repressione cristiana, specialmente dopo la caduta di Kattelgat, dall’altra assistiamo ai primi contatti delle popolazione vichinghe con la scienza e le nuove scoperte che si aprono alle loro menti, grazie all’esplorazione dei territori dell’Europa dell’Est e dell’Asia meridionale fino ai confini di Costantinopoli.
Questo permette alla serie di abbracciare uno scenario geograficamente più ampio, scenograficamente più diversificato e ambizioso, frammentando la narrazione e separando i protagonisti su più fronti (seguendo proprio lo stile di altre serie come Game of Thrones o The Witcher). E sotto il punto di vista del puro intrattenimento fine e a se stesso, bisogna dire che la serie fa un lavoro eccellente, grazie soprattutto ad una costruzione dei personaggi efficace che non fa rimpiangere (e non cerca di copiare) quella della serie madre.
Sotto un altro punto di vista, però, l’impressione è che l’approdo su Netflix abbia un po’ appiattito il particolarissimo stile che aveva il primo Vikings. La serie di National Geographic (poi spostata su Amazon Prime Video) aveva, infatti, il merito di immergere completamente lo spettatore nelle atmosfere e negli usi e costumi di questi popoli, grazie soprattutto alla ricercatezza della colonna sonora e dell’ispiratissima regia. Tutto sembrava studiato nei minimi particolari (perlomeno nelle prime stagioni), mentre invece in Valhalla si assiste ad un cambiamento in negativo, sembra quasi che la serie si sia trasformata in un prodotto standard visivamente uguale a tantissimi altri. I rituali, le visioni, l’onirismo di alcuni momenti che erano alcuni degli elementi più interessanti dello show sono ormai un lontanissimo ricordo. Se la serie dunque si espande e si fa più spettacolare, allo stesso tempo perde di approfondimento e originalità.
Il segmento piu debole è senza dubbio quello ambientato a Londra, dove il tentato omicidio della Regina apre lo scenario su un complotto che avrebbe le potenzialità di stravolgere le carte in tavola ma che si conclude senza che sia cambiato molto rispetto all’inizio. Il mistero dietro la cospirazione sembra ricalcare le trame di palazzo di Game of Thrones (il personaggio di Godwin, per esempio, si sovrappone fin troppo al Littlefinger della serie tratta dalle opere di George R. R. Martin), senza però avere la stessa ricercatezza e soprattutto conducendo la storia verso un finale completamente anti-climatico che porta ad un nulla di fatto e ad un senso di inconcludenza.
Molto più interessante è la storyline dedicata a Freydis che, se da una parte percorre sentieri probabilmente già battuti, è forse quella con il finale più interessante, non tanto per la morte del villain principale, quanto per l’inattesa alleanza che si crea tra due donne (lei e la Regina reggente Aelgifu) che si trovano improvvisamente a stringere una pace al di sopra delle differenze religiose e incuranti delle strategie politiche e di potere messe in atto dalle controparti maschili.
La linea narrativa migliore è senza ombra di dubbio quella legata al destino di Leif e Harold, i due esiliati dal regno di Norvegia che hanno perso tutto e sono ora chiamati a ricominciare da zero. L’unica speranza si chiama Costantinopoli, un viaggio pieno di insidie che i due protagonisti sono costretti a compiere in compagnia di un gruppo di sconosciuti e sconosciute ovviamente in evidente conflitto tra di loro. Il cliché del “wild bunch” costretto a fare squadra per raggiungere un obiettivo comune potrebbe sembrare qualcosa di già visto, ma le diverse personalità nel gruppo funzionano e gli autori fanno un eccellente lavoro a dare tridimensionalità a ognuno di loro. Ne risente leggermente l’approfondimento del bromance tra i due protagonisti, che era sicuramente l’aspetto più interessante nella prima stagione e che invece qui viene leggermente accantonato per dare spazio ai loro percorsi individuali e agli altri personaggi con cui viaggiano.
In generale, Vikings: Valhalla con la sua seconda annata diventa più matura e stratificata, riuscendo ad offrire un prodotto di intrattenimento perfettamente riuscito. Gli otto episodi, tuttavia, non offrono grandi stravolgimenti nella trama principale, specialmente per la mancanza di grandi scene di battaglia (a cui vengono preferiti scontri individuali) e per la marginalità di alcune storyline. Alla fine, dunque, si avverte la sensazione che questa sia stata una stagione di passaggio, forse in preparazione ad una terza serie già confermata con oltre un anno di anticipo.
Voto: 7