Ormai il formato agile e il tono sempre in bilico tra dramma e ironia tipico dei dramedy è quello che va per la maggiore: in tantissimi scelgono questa struttura per raccontare la propria storia, una scelta che è diventata preponderante superando quella del classico drama che invece andava molto in voga negli anni duemila e nei primi anni dieci. Sembra paradigmatico, quindi, che il ritorno in tv di Bob Odenkirk dopo aver interpretato il suo personaggio di maggior successo in un drama, ovvero Saul Goodman prima in Breaking Bad e poi nel suo spin-off Better Call Saul, sia proprio in una dramedy.
Lucky Hank è una serie AMC tratta dal romanzo “Straight Man” del 1997 scritto da Richard Russo, adattato per l’occasione da Paul Lieberstein (che ricordiamo tutti come Toby Flenderson in The Office, nonché produttore e showrunner della serie per le ultime tre stagioni) e Aaron Zelman (Criminal Minds, Resurrection). Il protagonista, come si diceva, è Bob Odenkirk nel ruolo di William Henry Deveraux Jr, ma chiamato da tutti Hank, un professore d’inglese di mezza età di un college di provincia nel bel mezzo di una crisi esistenziale. Convinto di star sprecando la sua vita, Hank si lascia tuttavia sfuggire qualche parola sconveniente di fronte ai propri studenti e il preside Jacob (Oscar Nunez, The Office) insieme ai colleghi professori, tra cui Paul (Cedric Yarbrough, Speechless) e Gracie (Suzanne Cryer, Silicon Valley), valutano la possibilità di licenziarlo. Se questo accade dal punto di vista professionale anche la vita privata di Hank non vive una situazione rosea: la moglie Lily (Mireille Enos, The Killing), infatti, vive un momento di infelicità nel suo lavoro di psicologa e fantastica di andare a vivere in una grande città come New York.
Il primo episodio dello show lascia parecchi dubbi e poche certezze su quello che vuole davvero essere: è difficile, infatti, dopo la visione del pilot, capire se l’intenzione degli autori è quella di pendere più sul versante comico o su quello drammatico e il risultato, al momento, è che i due toni faticano ad amalgamarsi a dovere. A volte, infatti, la risata viene indotta attraverso il cinismo del protagonista, sempre pronto a commentare e a non frenarsi di fronte ai suoi interlocutori; altre volte ci si vuole arrivare con una comicità di tipo situazionistico, dove a far ridere dovrebbe essere il contesto e il movimento degli attori in scena. Purtroppo dei due metodi utilizzati dalla scrittura nel pilot di Lucky Hank funziona solo in parte il primo, anche aiutato dalla scelta – un po’ forzata e didascalica – di farci ascoltare in brevi frangenti i pensieri del protagonista attraverso un voice over.
Per quanto riguarda la componente drammatica, questa è scritta attraverso il racconto della débâcle psichica di Hank, che inizia a porsi domande esistenziali sulla vera felicità e sulla discrepanza tra quello che si sarebbe voluti essere e quello che invece si è diventati. Anche questa parte funziona a fasi alterne, un po’ perché il personaggio dell’uomo borghese tormentato che attraversa la sua personale crisi di mezza età è già stato affrontato migliaia di volte e in tutti i modi possibili, ma anche perché la scrittura non riesce a rendere il protagonista della serie così interessante da permettere allo spettatore di entrare in sintonia con lui. Chiaro che è un’impresa ardua per un primo episodio da una quarantina di minuti, ma il suo compito dovrebbe essere proprio quello di introdurci alla vita di Hank e mostrarci le diverse fasi della sua depressione, cosa che non avviene perché siamo subito catapultati in un momento successivo.
In generale si può dire che il soggetto non aiuta certo a distinguere Lucky Hank da tutti i prodotti simili che lo hanno preceduto: c’è un protagonista in difficoltà, una malinconia di fondo, un paesino di provincia che diventa l’emblema dell’insignificanza – o come lo chiama Hank nel primo episodio “Mediocrity’s Capitol” – e soprattutto c’è un parco personaggi ristretto in un ambientazione ben definita, cioè quella della scuola. Tutto nella serie di Lieberstein e Zelman sembra costruito per omologarsi agli schemi classici ai quali siamo abituati. Una serie alla quale pare avvicinarsi molto – per temi e per stile – è Shrinking, la comedy di AppleTV+ con Jason Segel e Harrison Ford: anche in quel caso abbiamo un protagonista nel mezzo di una crisi personale – anche se in quel caso successiva a un lutto – e una storia che racconta le sue difficoltà sia con la famiglia che sul posto di lavoro. Forse con l’arrivo di nuovi personaggi già annunciati – tra cui uno interpretato da Kyle MacLachlan (Twin Peaks) – la serie troverà nuova linfa e rivitalizzerà il suo contenuto, sia dal punto di vista comico che narrativo, ma per saperlo bisogna attendere qualche settimana.
Come si diceva è molto difficile giudicare Lucky Hank a partire solo dal suo pilot proprio perché c’è un sacco di potenziale inespresso ma allo stesso tempo anche un costante senso di già visto e di parlarsi addosso che risulta respingente. La comicità non è brillante e il ritmo è compassato; la crisi del protagonista è più raccontata che mostrata e nonostante la bravura degli interpreti i personaggi non colpiscono e rimangono tutti piuttosto anonimi – il personaggio forse più interessante che emerge dal pilot è quello di Lily, la moglie di Hank. In generale, quindi, il primo approccio con la serie AMC è come un incontro un po’ imbarazzato, di quelli che non sai bene come comportarti e, nel dubbio, fai il vago e cerchi di trovare anche solo qualcosa che ti piaccia e che ti spinga a non andartene con una scusa.
Voto: 6