Firenze, 1348: è l’apertura nonché il contesto della miniserie The Decameron disponibile dal 25 luglio su Netflix. Ispirata alla celebre e omonima opera trecentesca di Boccaccio, la serie promette sin dai primi minuti una narrazione differente dall’originale: se infatti Boccaccio struttura il suo Decameron come una raccolta di novelle con l’obiettivo di raffigurare la società attraverso le voci e il punto di vista di dieci giovani aristocratici, il taglio dello show è decisamente diverso, sia per lo stile che per la scelta di fondere nobiltà e popolo in un intreccio indissolubile.
La serie firmata Kathleen Jordan porta in scena le vicende di alcuni giovani che si rifugiano in una nobile residenza di Villa Santa, su invito di un ignoto – e assente – conte, in fuga da una Firenze infestata. I primi minuti ci restituiscono un quadro in cui nobili e servitù sono legati e parificati: sfruttando l’ambientazione storica e in particolare l’evento della celebre peste, lo scenario in cui troviamo i nostri protagonisti è quello di una società in balia del caos più totale, in cui tutti sono messi sullo stesso piano. L’epidemia può colpire chiunque, non importa quale sia l’estrazione sociale o quanta ricchezza si possegga, perché la peste elimina ogni differenza.
I componenti del gruppo sono molto diversi tra di loro, e questo è impossibile non notarlo, infatti per tutti i personaggi emerge subito almeno un elemento che li distingue inequivocabilmente l’uno dall’altro. Questi tratti sono però così marcati da diventare ben presto caricaturali: abbiamo così la devota Neifile accompagnata dall’acuto marito Panfilo, l’ipocondriaco Tindaro con l’aitante medico Dioneo, l’assetata di potere Pampinea seguita dalla sua ombra, la sottomessa serva Misia, e infine il duo composto dalla pretenziosa Filomena con l’intraprendente serva Licisca, queste ultime conosciute a ruoli invertiti dagli altri personaggi per gran parte della storia. A completare il quadro, il custode Sirisco e la cuoca Stratilia, che al pari degli altri sono presenti nella narrazione.
Pur così volutamente diversi, i protagonisti sono accomunati da due elementi: la consapevolezza della morte e il desiderio di potere. Questi due pilastri accompagnano il loro percorso attraverso le puntate e contribuiscono a portare in scena e alimentare quel costante caos che padroneggia a livello di trama. A partire dal secondo episodio capiamo infatti che la narrazione non è scandita da storie personali intriganti né da storie audaci raccontate come forma di intrattenimento, come avveniva nel prodotto originale e come ci si poteva aspettare: il problema qui è che sembra proprio che manchi una storia da raccontare. Le vicende della serie si susseguono senza ordine né fili narrativi definiti; non assistiamo, se non in minima parte, a racconti avvincenti sui bizzarri coinquilini di Villa Santa, quanto più a una serie di ritrovi più o meno casuali in cui i personaggi si dilettano in passatempi di dubbio gusto, piccanti incontri o squallide scenate e pretese di potere. Non abbiamo nemmeno particolari intrighi o giochi di potere, anche se tutti i personaggi hanno un desiderio di affermazione. Gli unici “giochetti” sono quello perpetrato da Pampinea, che finge di essersi sposata con il conte e avanza pretese di leadership poco credibili, e quello della scaltra Licisca che per buona parte dello show convince tutti di essere la sua padrona Filomena.
Quasi tutte le puntate danno purtroppo la percezione di assistere a un prodotto dall’identità non definita: rimbalzando da un personaggio bizzarro all’altro con passaggi che lasciano di stucco per il livello di non-sense raggiunto, lo show assume un carattere grottesco che rende poco credibile la connotazione dramedy e che lo posiziona ben distante dal Decameron originale.
Si ha la sensazione perenne di non capire bene che cosa si stia guardando, e ci si chiede se la volontà fosse quella di stupire o magari solo di divertire, ma di fatto si prosegue fino alla fine senza aver ben chiaro dove lo show voglia andare a parare. Questo pone davanti a un dubbio lecito: qual è stato il senso di chiamare questo prodotto The Decameron se non ha nulla o quasi in comune con l’originale? Se l’intento era quello di legittimare l’ambientazione trecentesca e fiorentina, e l’utilizzo dei nomi di qualche personaggio di Boccaccio, il titolo forse non era necessario. Il problema è che non c’è nemmeno un vago tentativo di riprendere davvero l’opera – che ci si aspettava di vedere riproposta almeno in minima parte – ma forse è meglio così, perché il risultato avrebbe potuto essere anche peggiore.
Non bastano l’incipit e un breve cenno al Decameron negli ultimi minuti a dare una licenza per utilizzare così impropriamente il titolo di un’opera di questo calibro, che si distanzia anni luce per struttura, tematiche e profondità. Lo schema narrativo dell’originale trecentesco in realtà si sarebbe prestato benissimo per realizzare un adattamento seriale, che poteva essere un’opportunità per proporre differenti tematiche frammentando la trama in episodi o gruppi di episodi, o eventualmente per portare delle storie autoconclusive in ogni puntata, unite da un unico filone. Poteva essere anche un’occasione per proporre una struttura diversa, un approccio rinnovato, e invece no: la miniserie delude da questo punto di vista proprio perché prende un nome importante che poteva aprire a tante opzioni, ma che pare venga utilizzato solo per darsi tono e visibilità, mettendo poi in scena una “dramedy” come altre e anzi esagerata e a tratti così sopra le righe da innervosire.
Tra un flirt e l’altro, passando per gag e passaggi assurdi e qualche momento violento, solo qualche personaggio e solo alla fine riesce a elevarsi rispetto agli altri, ma troppo poco e in modo troppo sottile per essere degno di nota. Parliamo di Tindaro e di Panfilo che si sacrificano per mettere in salvo tutti gli altri, di Licisca (Tanya Reynolds, Sex Education) che si impone per la sua evoluzione da serva a donna emancipata che lotta per se stessa, e infine dello sviluppo di Misia che passa dal tema delle relazioni tossiche, portato alla luce attraverso il suo rapporto con Pampinea.
La padrona nel corso degli episodi riesce a tenere Misia sempre dalla sua parte, costringendola a piegarsi al suo volere con le sue doti manipolatorie e una finta affezione che la ragazza, nella sua insita bontà, scambia per sincera amicizia. Misia farebbe di tutto per Pampinea e nessuno riesce ad aprirle gli occhi finchè non lo fa da sola, accettando di essere stata ingannata da un sentimento unilaterale. Misia riesce a darsi la forza necessaria per andare avanti e liberarsi della padrona, ottenendo per sé un futuro se non più roseo almeno libero. Forse questo è il solo caso in cui la serie riesce davvero a portare a termine come si deve una tematica, e lo fa con un tema se vogliamo complesso e attuale, parlando di possesso scambiato per sentimento, facile da comprendere con occhi esterni ma non così semplice visto da chi ne è vittima.
Nonostante questo, un solo argomento ben trattato rimane troppo poco, considerando che stiamo parlando di uno show da otto episodi di un’ora ciascuno, dove per almeno metà del tempo si parla quasi del nulla, con la riproposizione delle caricature di ogni personaggio. Il cast dal lato suo, va detto, fa un ottimo lavoro nell’interpretare la follia dilagante dei personaggi, su tutti Zosia Mamet che ci restituisce una Pampinea veramente incontrollabile. In generale il cast riesce a mostrare personaggi così imprevedibili da non lasciare mai intendere fino a che punto possano arrivare a spingersi. Un altro plauso va all’ambientazione e ai costumi, che come in tutte le serie d’epoca – l’esempio più lampante di questi tempi è Bridgerton – lasciano sempre una sensazione piacevole anche solo dal punto di vista estetico.
Tolti il cast e i costumi, rimane comunque un racconto basato su un’accozzaglia di folli la cui imprevedibilità è tanto eccessiva da diventare noiosa anziché catturare l’attenzione. The Decameron ci insegna che, per quanto sia bello assistere a uno show fuori dagli schemi, se tutto è troppo finisce per stancare. Le dinamiche messe in scena non brillano e tutto si esaurisce in un racconto superficiale in cui neanche le scene hot o violente riescono a scuotere un po’ e in cui non ci si affeziona ai personaggi: terminata la visione, purtroppo, della grande premessa iniziale non resta granché.
Voto: 4½