C’è sempre un tempo in cui i popoli smarriti vanno verso le idee semplici: queste le parole che aprono M. – Il Figlio del Secolo, la serie diretta da Joe Wright, tratta dal bestseller di Antonio Scurati. Ascoltando queste poche parole non possiamo non renderci conto di quanta verità emanino. Se facciamo un veloce excursus nella Storia d’Italia e del mondo, non possiamo che ritrovare in più eventi questa atroce realtà.
Il fascino della semplicità è qualcosa di intramontabile, che non funziona solo per il destino dei Popoli, ma anche per quello degli esseri umani. Il fascismo, in tutta la sua brutalità, è una “cosa” semplice: ed è forse per questo che fatichiamo a capirlo, che continuiamo a interrogarci su come sia stato possibile. Quali siano queste semplici idee e come siano state in grado di trasformare la disillusione di un Popolo nella speranza di capovolgere il proprio insoddisfacente destino è ciò che ci viene raccontato in queste prime due puntate. La serie, in otto episodi, prodotta da Sky Studios e The Apartment Pictures, trasmessa da Sky e Now Tv, ricopre gli eventi dal 1919 al 3 gennaio 1925, giorno del comizio di Mussolini in Parlamento dopo il delitto Matteotti, in cui simbolicamente nasce la dittatura fascista.
Il fascismo, una creatura bellissima, fatta di sogni, di ideali, di coraggio, di cambiamento, che conquisterà milioni e milioni di cuori. Son sicuro anche i vostri.
La cifra stilistica della serie è tutt’altro che semplice: vorticosi movimenti di macchina, denso e straniante ricorso al bianco e nero, l’insistenza sui particolari, le posture degli attori adagiate in un disequilibrio che dà un costante senso di movimento, come se ogni personaggio fosse in grado di fuoriuscire dallo schermo per alitarti in faccia. Ma su tutte, la trovata più disturbante e affascinante del racconto è fare i conti con quello sguardo magnetico e inquietante di Mussolini, che guardando direttamente in camera ci espone i tormenti del suo infinito desiderio di potere.
Per quanto una delle caratteristiche del romanzo di Scurati sia proprio dar ampio spazio a un racconto in prima persona di M., la resa filmica di questa tecnica narrativa si pone obiettivi più ampi. In primis, quello di costruire un racconto storico che esuli da qualsiasi retorica, ma anche una lucida e dichiarata azione programmatica di creare un dialogo che risulti fascinoso senza essere empatico: è il paradosso di creare distanza con l’estrema vicinanza.
Ma abbiamo anche altro, una dimostrazione di come i vari linguaggi artistici possano usare le proprie specificità tecniche per costruire un racconto efficace: l’abbattimento della quarta parete dà una forte caratterizzazione al personaggio, lo connatura più delle sue stesse parole; dà a Luca Marinelli la possibilità di usare il proprio volto come una tavolozza con cui dipingere la complessità di un personaggio in bilico tra impeto e menzogna, tra desiderio e odio, tra aspirazione alla poesia e bramosia di tragedia. Mussolini è tutto e il contrario di tutto – come lui stesso definisce il suo movimento – ma sembra che, pur avendo l’impressione di conoscerlo, niente sia stato così chiaro come adesso che ci parla guardandoci negli occhi.
Io sono come le bestie, sento il tempo che viene e questo è il mio tempo.
Tutto ciò è possibile anche grazie alla maestria di Luca Marinelli, che, come ha più spesso dichiarato, ha vissuto una forte contraddizione ideologica nell’interpretare il personaggio. Dalla visione di questi due episodi pare però che il suo personale disagio abbia dato un valore aggiunto all’interpretazione. La costruzione del personaggio è essenzialmente basata su un sapiente uso del corpo e della voce: ogni aspetto è curato fino all’ultimo dettaglio, con una precisione quasi chirurgica che è riuscita a creare quella vera “reviviscenza” di cui parlava Stanislavskij nell’ultima fase del suo pensiero, quello delle azioni fisiche.
Marinelli non è “entrato nel personaggio”, ma l’ha lasciato cadere su se stesso come un fantoccio, rendendo il proprio corpo malleabile alla trasformazione in altro da sé; così facendo non solo è riuscito a incarnare il mostro, ma anche a scolpirsi addosso le incoerenze di una mente sopraffatta da una pesante contraddizione: per ottenere ciò che brama, M. disgrega tutto quello che è, odiandosi e amandosi contemporaneamente con una violenta voracità. La distanza emotiva di Marinelli per il suo personaggio sembra esser diventata la stessa distanza che Mussolini aveva con se stesso, soprattutto nella prima fase della sua ascesa, quella raccontata in questi due episodi.
Io sono una bestia coerente, ho tradito tutti. Tradisco anche me stesso.
Le prime due puntate della serie narrano gli eventi dal 23 marzo 1919 – adunata di Sansepolcro che sancisce la fondazione dei Fasci di combattimento – al 16 maggio 1921, quando Mussolini entra in Parlamento. Questi due anni segnano una lenta e radicale trasformazione, il primo atto di quella che Scurati definisce la parabola universale sulla natura del potere. La costruzione del racconto ci permette di vedere le cose con una lucidità disarmante: gli interventi di M. a commento di immagini già eloquenti ci svelano le mille incrinature di un pensiero lungimirante che non trova sbocchi duraturi perché si lascia ancora sedurre dall’ideologia. Mussolini è stato un socialista, crede nella rivoluzione, ma più di tutto crede in se stesso, nel suo essere predestinato alla grandezza, nella forza e nelle sue intuizioni, che passano attraverso la guerra e la sopraffazione.
L’odio più volte rimarcato verso quei socialisti che non gli hanno mai perdonato la svolta interventista è enfatizzato fino al punto di svelarsi nella sua semplicità: è la manifestazione di un desiderio di vendetta che non potrà mai esaurirsi se non raggiungendo quella grandezza in grado di dimostrare il suo aver ‘sempre’ avuto ragione. È questo lo spettro con cui M. si accompagna per questi episodi, che passo dopo passo trasforma il suo pensiero, che lo porta ad agire senza metterci la faccia: lui non si sporca le mani, mai; e il magnifico montaggio alternato con cui vediamo la distruzione della sede dell’Avanti e lui chiuso nello studio a roteare una granata ne è una sconcertante dimostrazione.
Non ha una strategia, ma sa che la sua intuizione è la sua occasione: il popolo smarrito dell’Italia post-bellica ha bisogno di uomini forti e idee semplici, ma soprattutto ha l’estrema necessità di trasformare la paura in odio. Lui capisce subito che l’unica forza più potente della speranza è la paura, ma comprende anche che l’odio e la violenza possono essere una potente valvola di sfogo per la paura. Per questo a poco a poco lascia andare quei barlumi ideologici dell’antipartito fondato in piazza Sansepolcro e si lascia corrompere dagli industriali della Brianza per diventare uno “strumento d’ordine”.
Questi due episodi riescono a tracciare un affresco agghiacciante dell’uso esplicito della violenza: gli stilemi cinematografici che mescolano l’impressionismo tedesco con il cinema d’impianto futurista, orchestrati dalla psichedelica musica di Tom Rowlands (The Chemical Brothers), che accompagnano le rappresaglie delle bande di picchiatori, ci offrono una prospettiva disturbante ma al contempo simbolica. Come afferma M. durante l’adunata che farà infuriare Marinetti, questo non è più il tempo della Rivoluzione, ma è il tempo della Reazione. Una parola dal sapore antico si fa custode di una necessità – feroce e plastica, necessaria, come dovrebbe essere sempre la violenza.
Il mio posto è ovunque tranne che lì, all’ombra del superuomo.
La lunga discesa verso se stesso porta dunque M. a diventare tutto ciò che odiava da ragazzo e a capire che per essere uomo bisogna uccidere il padre, quel superuomo che tanto ammira. Ed è proprio nel confronto che emerge con Gabriele D’Annunzio (interpretato da un perfetto Paolo Pierobon) che la serie ci dà la possibilità di riflettere su un’altra grande complessità storica. L’eroico fascino del poeta edonista è qualcosa che preoccupa e affascina Mussolini allo stesso tempo. Invidia e ammirazione si saldano insieme mostrando un timore che è sempre quello di finire nell’ombra. Tuttavia, per quanto si faccia presto a porre Mussolini e D’Annunzio sulla stessa linea d’ombra, è proprio mettendo in parallelo i due personaggi che M. ci mostra tutta la sua vacuità, ma anche la sua forza.
La domanda di D’Annunzio “A chi la morte?” diventa “A chi la gloria?” (come dirà al primo convegno dei fasci di combattimento a Firenze): in questo parallelismo c’è tutto il peso del suo oppurtunismo, dei suoi ripensamenti, della sua ardente e ardita corsa verso il potere, in barba alle credenze e alle ideologie. Nessun eroismo, solo egoismo, in netta contraddizione con l’utopia del comandante poeta che con il suo solitario coraggio rinuncia al sogno di un mondo migliore. La decadente costruzione scenica della disfatta di Fiume ci mostra il tramonto di un’era e la nascita dei nuovi figli del secolo, i prodotti della fame e della paura.
L’impianto di questi primi due episodi fa come presagire un’azione ascendente: tutto finora sembra funzionare alla perfezione – scrittura, regia, colonna sonora, e un cast perfettamente armonizzato con la particolarità del racconto, tra cui spicca sicuramente Barbara Chichiarelli che incarna una Margherita Sarfatti incisiva e meravigliosamente affascinante. Come era già in parte accaduto con il romanzo di Scurati, questo nuovo confronto con la più controversa figura del nostro passato potrebbe rivelarsi un’ottima occasione per allontanare la retorica che spesso accompagna la narrazione storica e soffermarsi a riflettere su alcuni aspetti profondamente e pericolosamente umani che hanno fatto e continuano a fare la Storia.
Voto Episodio 1: 9
Voto Episodio 2: 9+
Mai prima d’ora il fascismo era stato rappresentato così lucidamente nella sua essenza, cioè l’essere ridicolo e brutale al tempo stesso. L’incipit rappresenta purtroppo una lezione di grande attualità. Trump docet.