Yellowjackets – Stagione 3


Yellowjackets - Stagione 3Dopo due stagioni di crescente tensione e mistero, Yellowjackets affronta il passaggio più rischioso: spostare il baricentro del racconto dal “cosa è successo” al “cosa resta”. La terza stagione si allontana gradualmente dalle dinamiche thriller per addentrarsi in territori più introspettivi, psicologici, a tratti esistenziali. Ne esce un affresco disturbante e stratificato, che interroga lo spettatore sulla natura della sopravvivenza e sul prezzo della memoria.

Uno dei tratti distintivi di Yellowjackets è sempre stato l’uso sapiente del doppio registro temporale, ma è nella terza stagione che questo espediente assume un valore profondamente esistenziale. Il passato non è più un semplice contesto narrativo, ma un vero e proprio organismo vivente che contamina il presente. Le protagoniste adulte della serie non ricordano: rivivono. I flashback non hanno solo funzione informativa, ma diventano invasioni, scosse telluriche che rimettono in discussione identità che sembravano ormai consolidate.
Shauna, che si rivela essere la “Antler Queen”, incarna questa ambiguità in modo emblematico: sopravvissuta, madre, assassina, regina – tutte queste identità coesistono e si sovrappongono. La sua incoronazione non arriva come un colpo di scena, ma come una lenta e inesorabile manifestazione di un destino già scritto nei suoi sguardi, nelle sue omissioni, nei suoi silenzi.

Se nelle prime due stagioni della serie Showtime il cannibalismo era suggerito o quasi, in questa stagione diventa esplicitamente parte del quotidiano. Ma Yellowjackets non si limita alla rappresentazione dell’orrore: lo ritualizza. Le scene dei pasti – quasi sempre collettive, lente, sovraccariche di tensione e simbolismo – raccontano un gesto che smette di essere disperato per diventare parte integrante della costruzione di un’identità di gruppo: mangiare insieme è, paradossalmente, ciò che tiene unite le ragazze nella disperazione.
Yellowjackets - Stagione 3Il corpo dell’altro diventa non solo cibo, ma totem; il dolore si trasforma in appartenenza, la morte in comunione. È una delle operazioni più forti e disturbanti della serie: usare l’orrore non per spaventare, ma per interrogare. Qual è il limite della società? Quali sono i paletti morali che ci mettono fin dalla nascita per vivere in modo “normale”? Paletti che sono stati divelti con lo schianto dell’aereo e che le ragazze non hanno mai più ritrovato. E probabilmente non lo vogliono nemmeno.

L’elemento della “wilderness”, introdotto nelle stagioni precedenti come possibile entità soprannaturale o metafora del caos, assume qui una dimensione ancora più pervasiva, diventa ideologia. Le protagoniste, e in particolare Lottie, costruiscono un sistema di valori alternativo, legato alla selva, alla fame, al sacrificio. Non è più solo la sopravvivenza a dettare le regole, ma la convinzione che quel mondo, così brutale e viscerale, sia più vero del mondo civile che hanno lasciato. Lo ammette finalmente senza misure anche Shauna, nel biglietto che scrive da sola in cucina alla fine della stagione: è inutile nascondersi ancora, è inutile far finta di aver dimenticato tutto quello che è successo, perché quello che le ragazze hanno vissuto è forse quello che queste donne sono davvero. Forse sono proprio quei mesi passati nel bosco quelli più veri e, per assurdo, più belli della loro vita.

Nel presente, le protagoniste adulte vivono in un eterno tentativo di contenimento. Misty, come sempre, è il personaggio più emblematico di questa tensione: capace di gesti estremi in nome dell’affetto, di atti violenti mascherati da cura. La scena in cui indossa la giacca di Natalie è tragica e tenera allo stesso tempo, ed esplicita il vero tema del presente narrativo: cosa fare, ora, di quel passato che non smette di agire?
Uno degli aspetti più interessanti di questa stagione è la riflessione sul valore stesso del racconto. Le protagoniste si interrogano – implicitamente o esplicitamente – su cosa significhi ricordare, raccontare, confessare. Il trauma non è solo ciò che è accaduto, ma anche ciò che si sceglie o si rifiuta di dire. In questo senso, Yellowjackets parla anche di potere: chi ha il controllo della narrazione, ha anche il controllo del significato. Questa meta-narratività non viene mai esplicitata, ma lavora in profondità, rendendo la serie anche una riflessione sul linguaggio. I silenzi, le contraddizioni, le mezze verità diventano strumenti per analizzare la complessità dell’identità post-traumatica.

Tecnicamente, la terza stagione conferma la grande cura messa nella realizzazione del prodotto. La fotografia alterna toni caldi e saturi nella foresta a tonalità fredde e spente nel presente, ribaltando i consueti codici cromatici e sottolineando come la civiltà, paradossalmente, appaia più morta della natura selvaggia. Le inquadrature si soffermano spesso su dettagli inquietanti, sul volto umano come spazio di mutazione, e su paesaggi che sembrano vivere di una vita propria.
Yellowjackets - Stagione 3La colonna sonora rimane un elemento chiave dell’identità della serie. I brani anni ’90 non sono semplici strumenti di evocazione nostalgica, ma veri e propri dispositivi narrativi. La musica dice ciò che i personaggi non riescono ad articolare, e accompagna l’azione come una voce interiore che grida sotto la superficie.
Registicamente, la serie osa ancora di più: sogni, allucinazioni e simbolismi si moltiplicano, ma senza perdere il contatto con il realismo emotivo. L’effetto è quello di un disorientamento controllato, che rispecchia la condizione delle protagoniste: continuamente sospese tra due mondi.
A proposito delle protagoniste, si aggiunge al cast anche un pezzo da novanta: Hilary Swank, infatti, va a completare una squadra che era già di altissimo livello. Sicuramente sarà una delle protagoniste della prossima stagione (che ancora non è stata confermata, ma sarebbe un delitto fermarsi qui).

In definitiva, la terza stagione di Yellowjackets è, in un certo senso, la più audace e la più contemplativa. Meno interessata alla costruzione del mistero, più dedicata alla decostruzione dell’umano, la serie riesce nell’impresa di trasformare una storia di sopravvivenza in un racconto mitico sulla perdita dell’innocenza, sulla trasformazione del dolore in linguaggio, sul bisogno umano di credere – anche, e forse soprattutto, nell’oscurità. Non tutto funziona con la stessa efficacia: un esempio su tutti è l’ascesa di Shauna al trono di Regina. Se da un lato è assolutamente credibile e forse anche meno di impatto come colpo di scena di quanto ci aspettassimo, dall’altro sembra tutto un po’ troppo affrettato, con il pedale spinto sull’acceleratore degli avvenimenti nelle ultime puntate.
Resta comunque l’atmosfera generale del prodotto – densa, stratificata, inquietante – a rendere questa serie un oggetto televisivo unico, capace di affondare le mani nella carne della narrazione e restituirci la domanda più difficile: chi siamo davvero, quando tutto ciò che ci resta è sopravvivere?

Voto: 7 ½

 

Informazioni su Ste Porta

Guardo tutto quello che c'è di guardabile e spesso anche quello che non lo è. Sogno di trovare un orso polare su un'isola tropicale.

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