David Simon e Eric Overmyer in due stagioni hanno messo in piedi una serie dura e pura, senza compromessi, un caso più unico che raro anche all’interno della stessa HBO. Appena iniziata la terza annata è stato reso noto quale sarà il destino della serie: ancora una quarta stagione per concludere tutte le storie. Il traguardo è all’orizzonte e ogni fotogramma si fa più prezioso.
Treme non scende a patti con nessuno, non solletica la pancia dello spettatore, non gli offre quello che vuole, non gli propina facili cliffhanger o retorica più o meno raffinata: non c’è spazio per alibi a New Orleans, o così o niente. Simon e Overmyer sono stati grandiosi nel riuscire a portare avanti per due stagioni una serie vista da pochissimi e, ringraziando la generosità della HBO, riusciranno anche a dare al loro lavoro la conclusione che merita.
Trattandosi di una serie estremamente corale, con un parco personaggi variegato e dinamico e con un centro di volta in volta diverso per posizione e dimensione, il primo episodio di questa terza stagione deve per forza avere una natura principalmente introduttiva, di raccordo. Così infatti è, senza però che questo indebolisca l’energia con la quale la città comunica o viceversa la malinconia attraverso cui emergono tutte le ferite del recente passato.
Il nono episodio della scorsa stagione è paradigmatico della serie e di grande aiuto, se si vuole rientrare nell’universo dello show: “What Is New Orleans” infatti si proponeva sin dal titolo di sintetizzare l’essenza (o almeno una delle tante) della città e ci riusciva benissimo con uno stupendo finale nel quale vita e morte convivevano alla perfezione, dove all’uccisione di uno dei personaggi più rappresentativi della città veniva affiancato un raggiante concerto per strada, montaggi paralleli, raccordati da volanti della polizia in corsa, volti ad affiancare realtà diversissime per uno spettatore normale, ma inscindibili se si vuole capire a fondo l’anima della città.
“Knock with Me, Rock with Me” dà avvio alla terza stagione in una maniera molto simile: un gruppo di musicisti sta suonando a tarda notte per strada in memoria di un compagno scomparso, quando la polizia, allertata dalle lamentele di alcuni nuovi abitanti del quartiere, interrompe le celebrazioni portando via anche un paio di suonatori. Questa scena è sostanziale non solo per l’immagine che gli autori vogliono offrire della città, ma anche per l’interpretazione dell’episodio: “Knock with Me, Rock with Me” ha una struttura ciclica e il finale è una variazione sul tema dell’inizio, riconciliato dall’energia che la musica sprigiona, forza che non lascia scampo ai nuovi arrivati, non concede loro la possibilità di cambiare le regole del gioco. Meno male, diremmo noi, sotto imbeccata degli autori: perché la puntata è tutta incentrata su una dicotomia, quella tra dentro e fuori, in particolare in riferimento alla città, cuore pulsante della serie e motivo scatenante di ogni scelta formale. I due opposti sono probabilmente Albert Lambreaux e l’ex moglie del poliziotto Terry Colson: quest’ultima non ha nulla a che vedere con New Orleans, non ne comprende la natura, sin da prima dell’uragano considera i suoi abitanti come “dreamers and drunks”; Albert è New Orleans, è la tradizione che si fa forma, è lo spirito di resistenza di un popolo tra i più antichi d’America, è sguardo rivolto al passato e al futuro al contempo; è uno che accetterebbe molto volentieri l’etichetta di “sognatore ubriaco”, che vista dall’interno ha tutta un’altra accezione.
É ancora di interno ed esterno che si parla mostrando i personaggi di Jenette e Davis: la prima, ormai fuori dalla città in cui è cresciuta, si afferma a New York grazie alla capacità di trasportare la cultura culinaria del sud, salvo però tornare nei week end nella sua terra passando giorni e notti in preda ad una gioia che raramente prova nella Grande Mela. Davis a sua volta è osservato da entrambi i lati, grazie a due sequenze emblematiche: la prima riguarda il suo nuovo impiego come guida turistica, che risulta però fallimentare perché questi racconta e mostra una città che è tutta nella sua testa e nel suo cuore, portando i turisti a vedere posti un tempo memorabili, ma oggi abbandonati o snaturati; nella seconda riusciamo ad entrare nella sua testa, all’interno della New Orleans che ama, grazie ai suoi sfoghi in radio, alla presentazione di un nuovo progetto musicale che fonde blues e funk basato sul post-Katrina. Tutto in Davis è prima di tutto una presa di posizione politica, senza mai essere davvero politica.
Due sequenze però impressionano di più nell’analisi di questa dicotomia, due brevi battute recitate da personaggi peraltro non centrali, ma vettorialmente fondamentali per sprigionare tutto l’amore che gli autori nutrono per la città. La prima ci fa ritrovare LaDonna di nuovo nel suo bar (temporaneamente abbandonato a causa del trauma seguente allo stupro subito nella scorsa stagione), che, in preda ad una crisi di certezze, davanti ad un cliente che a prima vista incarna perfettamente il cittadino-tipo di New Orleans (anziano, nero e faccia così scavata da dare l’idea di averne viste e vissute di tutte) chiede: “What do you think about this here?”. Questi leggermente spaesato risponde: “This where?”, allorché LaDonna specifica: “This bar here. My bar, Gigi’s”. Il cliente allora risolutamente risponde: ”I don’t Know. It’s here and so am I”. Ecco, quest’ultima battuta, specie se affiancata visivamente alla faccia del personaggio che la pronuncia, incarna tutta l’ineluttabilità di una città, ma al contempo la forza di resistere ad ogni calamità. Che tu sia un poliziotto, una donna stuprata, un bar, un alcolista o un genere musicale, a New Orleans ti sentirai a casa perché ci sarà sempre spazio per dreamers and drunks.
Infine, nell’epilogo, emerge in modo straripante la penna di David Simon, che sceglie di chiudere nella maniera più magica possibile, connotando positivamente uno dei personaggi finora meno amati: Terry Colson, poliziotto che per lungo abbiamo legato alla storyline di Toni Bernette, circa a metà episodio ha una discussione amara con l’ex moglie su New Orleans che gli fa mettere in dubbio diverse certezze sulla sua reale appartenenza alla città. Nel finale, però, ritrovatosi solo con la sua desolazione, uscendo da una gastronomia notturna incontra un individuo in costume, quasi un personaggio magico in sella ad una bicicletta piena di piccole luci. I due, così diversi e al contempo così simili, hanno uno scambio di battute breve ma estremamente significativo: Terry, ammaliato dal suo essere a meta tra sogno e realtà, gli dice: “Don’t ever change” e questi di tutta risposta gli risponde: “Of course not”. Terry lo guarda andar via nella notte in sella alla sua coloratissima bici e nel suo sguardo Simon e Overmyer ci permettono di leggere gran parte dei suoi pensieri; ci dicono che Terry, nonostante non sia un nativo di New Orleans, è lì che vuole restare, è lì che vuole continuare a sognare.
Un episodio d’apertura densissimo, pieno di personaggi principali e secondari, che ci riconduce all’interno del mondo che per un anno abbiamo accantonato, ma che non abbiamo mai smesso di amare.
Voto: 9