Scienza e fede. Alieni e diavolo. Sesso e castità. Operazioni e frustate. Sodomia e sogni erotici. Asylum è anche tutto questo, che sia in forma dicotomica o sviluppato in modo diacronico. Per alcuni una minestra confusa con ingredienti messi “un tanto al chilo”, per altri molto di più.
Chi si lamenta della narrazione debole di American Horror Story non ha effettivamente capito il senso di questa operazione. Lo show si posiziona sui binari di un pensiero che ha le sue radici alla fine degli anni Settanta (J.F. Lyotard – La condition postmodern), che si sviluppa al cinema dall’inizio degli anni Ottanta e che si fa mano a mano dominante nelle forme di cultura popolare di ogni sorta negli anni Novanta e Duemila. Non esistono più narrazioni forti, ci hanno detti i filosofi della postmodernità (Derrida in primis), tutto ciò che si doveva dire è già stato detto, così come tutto ciò che doveva essere mostrato. Il cinema lo ha capito immediatamente e Tarantino ne è stato (e in parte è ancora) l’esponente più rappresentativo, quello che più di altri ha intaccato l’immaginario collettivo visuale. La tuta gialla di Black Mamba non è altro che la quella di Bruce Lee ne L’ultimo combattimento di Chen, la citazione si fa forma estetica, figura retorica dominante, anello di congiunzione tra la cultura alta e quella bassa.
American Horror Story affonda le radici in questo terreno, lascia andare al loro passato gli archi narrativi solidi, così come per gli eroi tradizionali, preferendogli figure malleabili e flessibili, vettori comunicativi più che oggetti d’identificazione. Naturalmente l’ironia è una componente centrale, matrice di ogni discorso metanarrativo o metatestuale. L’atteggiamento ludico con il quale lo show gioca con la Storia è emblematico in questo episodio, dove gli anni sessanta da contesto divengono soggetto narrativo, materia da plasmare a proprio piacimento, da cui emerge arbitrariamente la memoria (anestetizzata) del trauma di Auschwitz o la paranoia relativa alle invasioni aliene, la nobiltà della personificazione di Anne Frank o la rozzezza di uno stile da film di serie b.
Proprio come il cinema postmoderno, anche American Horror Story si serve della Storia, facendo su di essa dell’ironia e al contempo una sferzante e caustica critica. Allo stesso modo de I predatori dell’arca perduta, gioca con il nazismo e i suoi perversi esperimenti scientifici, facendone oggetto di scherno con la convinzione che la parodia sia il modo più adatto per mostrare e comprendere l’orrore. Non si prescinde infine da una coscienza metalinguistica di fondo che traspare in ogni episodio (la sigla, ad esempio, con le sue numerose citazioni cinematografiche quasi fosse un bignami di storia dell’horror) e in questo in particolare con la scena della terapia, che ha nella “cura Ludovico” di Clockwork Orange il suo diretto referente.
A proposito di consapevolezza e di metalinguaggio, è proprio grazie all’abbandono delle strategie narrative di una volta che la serie può sfidare nuove frontiere, giocare con tutte le narrazioni al contempo e fare dell’ospedale psichiatrico una cassa di risonanza metanarrativa, una grande metafora del what if, mettendo in scena l’esistenza degli alieni e le conseguenti reazioni di individualità antitetiche tra loro (scienza e fede, ancora). Allo stesso modo la serie si prende gioco e soprattutto gioca con i grandi personaggi della Storia e in particolare in questo episodio resuscita Anne Frank, portando sullo schermo una donna trasfigurata e a suo modo blasfema, come d’altronde è tutta la l’opera(zione). Cosa sarebbe successo se gli esperimenti nazisti fossero stati denunciati all’interno di un luogo del genere? Che tipo di risonanza avrebbero una volta usciti all’esterno e arrivati ai mass media? E ancora, passando alla dimensione più strettamente diegetica, cosa succederebbe se Lana riuscisse a ribaltare tutto e vincere la sua kafkiana battaglia contro i vertici dell’ospedale? Anche in questo caso i personaggi sono oggetti comunicativi, vettori del senso, agenti di mondi possibili, specialmente il Dr. Oliver Thredson (straordinario Zachary Quinto).
Quando si toccano certe corde, quando si mira a certi orizzonti, forma e sostanza si compenetrano in maniera imprescindibile e se l’autoreferenzialità contenutistica emerge come il fattore maggiormente evidente, è tuttavia palese il gioco con gli stili di ripresa, la continua citazione di linguaggi diversi e antitetici l’uno dall’altro. In questo modo si ha il piacere di assistere a scene di dialogo pensate sul calco del grande cinema della modernità europea, con quello tra Lana e Oliver a fare da apogeo, con la sua alternanza tra long take e campo e controcampo. Sul versante opposto il riferimento è ciò che di più lontano c’è dal “film d’arte”, ovvero lo stile delle grindhouse degli anni Settanta con le loro esplosioni splatter e slasher, ma anche quello italiano di serie b dei maestri Bava (La maschera del demonio) e Fulci (Non si sevizia un paperino).
Alla fine, ma solo alla fine, c’è la trama, che in fondo non rimane immobile. Sappiamo qualcosa in più del trauma di Kit, delle tremende conseguenze sul suo equilibrio psicofisico che lo portano ad essere ormai un personaggio estremamente umorale e disturbato. Ancora più interessante è la vicenda di Grace, anch’essa con alla base un enorme trauma (incesto, pedofilia), della quale conosciamo tante cose in più. A questo proposito ciò che merita più attenzione non è cosa, ma come viene mostrata la sua storia, ovvero il doppio flashback in cui la donna è prima vittima e poi carnefice.
Anche suor Jude non resta dove l’abbiamo lasciata, ma la sua evoluzione si rapporta in maniera efficace al what if narrativo relativo ad Anne Frank, utilizzando quel personaggio come propria coscienza interiore, stimolo a tirare fuori il coraggio per approfondire i suoi sospetti sul perfido Arden.
Un episodio ancora più teorico del solito, carico come sempre di scene ad effetto (non ultimo il finale) e avente come unica pecca il personaggio interpretato da Joseph Fiennes, che purtroppo non sembra ancora aver trovato una sua effettiva ragion d’essere.
Voto: 8,5
Ora ho capito perchè la recensione ha tardato qualche giorno; questo grosso lavoro è una vera e proprio lezione didattica di cinema… Grazie per il lavoro fatto per spiegare, a noi profani, cosa si celi dietro ad un lavoro del genere… Anche io avevo associato questa presenza di Anna Frank fuori dal suo reale contesto storico ad Hitler in “Bastardi senza gloria”, ma sinceramente non avevo approfondito tutte le altre connessioni con la storia recente del cinema… Ancora complimentoni 😉
Ps:Spero che questa riscrittura della storia non venga male interpretata in futuro e spero soprattutto (e non sto scherzando,ho veramente paura che possa finire così), che fra 10 anni i bambini ed i ragazzi che non hanno vissuto il periodo della seconda guerra mondiale, della sua memoria e dello sterminio degli ebrei non pensino che Anna Frank non sia veramente morta in un campo di concentramento e che Hitler sia stato ammazzato in un attentato in un cinema parigino xD
Rinnovo anche qui i miei complimenti ad Attilio, una grandissima recensione per una grandissima serie tv!