L’inizio di questa puntata, in cui assistiamo ad un dialogo telefonico piuttosto interessante tra i due protagonisti, sembra un’implicita ammissione da parte della serie di quello che è stato fino ad ora il problema più grande con cui fare i conti: la montagna inesauribile di cliché presi più o meno da qualunque parte e mescolati in modo grossolano e senza alcuna perizia.
Ora, sentire Carroll dire a Ryan che il suo problema con l’alcol è “a tired cliché, however true”, e ascoltare la risposta di Hardy per cui anche il suo “love conquers all” non è da meno, poteva fare ben sperare: se persino i personaggi riconoscono la scarsa originalità dei loro stessi comportamenti, forse il racconto ora subirà un’inversione di rotta, una svolta inaspettata, il plot twist migliore dell’anno!
Ovviamente, no. A fronte di un paio (ma giusto un paio) di buone idee nell’episodio, assistiamo al trito e ritrito rituale di sacrificio della vita di Ryan – la persona più raggirata della storia, evidentemente – e soprattutto alla presa di coscienza piuttosto bizzarra del nostro Capo Di Sette Preferito.
I always wanted to live in New York.
Partiamo da Ryan, che, se non fosse così ben interpretato da un sempre-sia-lodato-Kevin-Bacon, probabilmente ora avrebbe già suscitato in noi i peggiori istinti omicidi. Hardy è un ex agente con un problema di alcolismo che pare (anzi, in questa puntata è più che evidente) essere stato messo lì solo per dare un’aria un po’ tormentata al protagonista, dato che per tutto il resto questo problema non ha davvero alcuna conseguenza a livello di trama. Basta un dialogo con la Parker, che gli dice quanto abbia bisogno di lui, e subito Hardy torna a lavoro; basta che lui ritorni al suo fianco con queste premesse e subito la vita della Parker in pericolo viene da lui magicamente salvata, così da avere la conferma nell’arco di una sola puntata di quanto la donna abbia davvero davvero bisogno di lui. La sensazione finale, tuttavia, è che non ci sia scioglimento del dramma perché il dramma non c’è mai stato: tutto ciò che vediamo (dall’alcolismo al suo auto-isolamento dal caso) sono solo momenti funzionali ad altri momenti, che però nell’insieme non costituiscono un’evoluzione del personaggio, bensì solo un modo come un altro di creare finte angosce e finta suspense.
La scena stessa del campo di addestramento ne è un esempio: un luogo labirintico, buio, teatro di un inseguimento che dovrebbe farci saltare sulla sedia. Invece si punta tutto su luci e ombre a intermittenza in un modo che risulta perfino artificioso, tanto più che (con le premesse del dialogo precedentemente illustrato) era evidente che non potesse finire male per la Parker.
A questo si aggiunge Molly, un personaggio che sottolinea maggiormente quanto la vita di Ryan non sia più nemmeno sua, ma solo un giocattolo nelle mani di Carroll. L’idea di base non è né brutta né sbagliata, ma il risultato è perfino ridondante: se uniamo questo alle caratteristiche di Hardy raccontate poco sopra, ne emerge un personaggio ingiustamente inconsistente, determinato dagli altri più che da se stesso. Tutto ciò che ci viene raccontato di Ryan è una conseguenza di vicende esterne a lui e la metafora di questo è la sorte della sua famiglia, quasi interamente decimata dagli eventi del caso, ma che nella sua ottica egoriferita trova una motivazione solo nella sua stessa essenza di “maledetto dalla morte” o, più prosaicamente, “portatore di sfiga universale”.
I am here now.
L’altro protagonista della serie, Carroll, si muove in questo episodio tra due grossi conflitti, uno di potere e uno di amore.
Il primo ha il merito di essere l’unico punto davvero positivo dell’episodio: Roderick non se ne starà buono ancora per molto e questo per un’evidente ingenuità di Carroll, che sarà pure il nostro Capo Di Sette Preferito, ma fa lo stesso errore che fanno tutti quelli al suo posto. Se infatti la leadership di Roderick era necessaria con Joe in carcere, ora che è tornato il nostro CDSP rivuole tutto il potere per sé, ignorando il fatto che in una massa indistinta di adepti ci sarà sempre qualcuno in conflitto con l’eccesso di centralizzazione del potere, in genere poi sempre il braccio destro. Non dico per amore della statistica, ma almeno per un po’ di letteratura che dovrebbe conoscere, il nostro caro CDSP avrebbe dovuto prevedere la cosa con largo anticipo. Ma non l’ha fatto, e questo per noi spettatori è un grande punto a favore della serie: vedere solo gente plagiata da Joe alla lunga (ma anche alla brevissima) annoia, mentre, così facendo, si prevedono momenti decisamente più succosi e degni della nostra attenzione.
Dall’altra parte abbiamo il confronto di Joe con Claire, a seguito del quale possiamo ufficialmente escludere qualunque ipotesi di collaborazione passata tra i due, ma non certo futura. Non è però questo il punto più importante: se infatti all’inizio Claire cerca di stare al gioco per poter vedere suo figlio, durante la cena non riesce più a trattenersi e affronta il CDSP che, con una nonchalance invidiabile, se ne esce con un discorso che più WTF non si può. Innanzitutto per la motivazione: Carroll si fa l’autodiagnosi e si definisce come uno che soffre di “a monomaniacal need to kill” e, siccome sa già che “non andrà mai via, anzi, aumenterà e basta”, ha deciso di abbracciare questa sua natura; poi, siccome è un CDSP, ha capito che anche altri soffrono del suo stesso problema e ha deciso di aiutarli per non farli sentire soli.
Ecco dunque a cosa si riduce il personaggio di Joe Carroll: ad una versione psichiatrica, ma autocosciente, egotica, ma incredibilmente altruista, di Dexter Morgan. E no, non ne sentivamo il bisogno.
L’autoanalisi condotta in questa puntata è la buccia di banana su cui un personaggio come Carroll non poteva permettersi di cadere, perché quel poco di interesse ancora rimasto per la serie girava tutto intorno allo sviluppo della sua figura (e alla figaggine di Kevin Bacon, ma quella non se ne andrà mai, anzi, citando Joe, potrà solo aumentare, quindi non ci rimane che accettarla col sorriso sulle labbra).
Ci sono davvero pochi passi positivi in questo episodio, che riguardano Roderick e la strana eppure interessante Haley Mercury, tuttavia protagonista dell’ennesima finta questione morale interna all’FBI (salvarla o usarla per arrivare a Carroll?) che si conclude con un nulla di fatto dopo pochi minuti.
Per il resto la puntata non fa altro che compiere gli stessi errori e, quando se ne allontana, lo fa solo per crearne di nuovi.
Voto: 5
ennesimo episodio schifoso non dico altro