Con “Red Team III” si chiude una fetta importante di questa seconda stagione di The Newsroom, nettamente superiore alla precedente, soprattutto per via di una struttura profondamente innovativa in grado di esaltare le qualità di scrittura di Aaron Sorkin e di mettere a proprio agio personaggi in passato ingabbiati in castranti stereotipi.
Sono tanti i fattori che fanno di questo settimo episodio una sorta di season finale anticipato, primo tra tutti il suo essere la coda conclusiva di una vicenda complessa e articolata durante tutta la prima parte della stagione, che si concluderà, non a caso, con due episodi estremamente circoscritti e isolati anche dal titolo (“Election Day”). Per questi motivi stavolta non c’è spazio per giri di parole narrativi, non c’è più tempo per avventure sentimentali scollate dalle principali direttrici tematiche stagionali: il cerchio si stringe, i nodi vengono al pettine facendo deflagrare le numerose mine piazzate durante l’intera stagione e tutta la squadra è lì, sulla stessa barca, a doverle fronteggiare.
Guerra e giornalismo, si sa, sono state da sempre legate a doppio filo: spesso, e vale ancor di più per gli Stati Uniti, i conflitti si sono combattuti al di fuori del territorio nazionale e la figura del reporter ha rappresentato il tramite tra i soldati e i familiari, tra il fronte e il cosiddetto “fronte interno”. Non è un caso che per realizzare la seconda stagione della sua nuova creatura il suo veneratissimo autore abbia messo al centro una vicenda legata allo scenario bellico, sia per la sua rilevanza mediatica, sia per la complessità di tematiche che potenzialmente una questione del genere è capace di mettere sul piatto. Questa volta il cuore del problema riguarda una presunta notizia mandata in onda circa l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito americano. L’accertamento della verità è in questi casi fondamentale, sia per la pesantezza dell’accusa, sia per la delicatezza degli equilibri che si andrebbero a muovere in Medio Oriente. A questo proposito è maniacale la cura con cui viene mostrata la redazione alle prese con la decisione circa la messa in onda o meno della notizia. L’incastro tra presente e futuro, nel quale si capisce sin dall’inizio che qualcosa è andato storto, che la notizia non era aderente alla realtà, è meticoloso nel far emergere, sequenza dopo sequenza agli occhi dei protagonisti il baratro nel quale rapidamente hanno iniziato a sprofondare.
Se l’uso o meno di armi chimiche è pietra angolare di quest’episodio e della stagione intera, sono numerosi i punti di vista con cui è possibile identificarsi, molteplici gli sguardi con i quali empatizzare. Non ultimo Jerry Dantana, colui che nel finale della puntata precedente si scopre essere l’artefice del maquilage, colui che ha tagliato il video del testimone di guerra facendo in modo di ricavare una confessione da una frase ipotetica. Se per Sorkin il dietro le quinte è da sempre stato più interessante della vetrina principale, neanche l’intervista al testimone principale fa eccezione: è alle spalle della superficie che si nascondono le insidie così come le soluzioni ai più inspiegabili arcani. Se il trucco di Dantana viene smascherato dal cronometro della partita di basket, l’errore è dovuto solo alla sua bramosia di ricavare la scoop col massimo dell’effetto posizionando il generale Stomtonovich vicino ai premi ricevuti in guerra. Coincidenza vuole che la televisione con la partita di basket, condizione posta dal testimone per la realizzazione dell’intervista, fosse proprio accanto alla poltrona, partita il cui cronometro sarà la chiave di volta per la scoperta del video contraffatto.
Guardando per un attimo le cose più dall’esterno, rimane sbalorditiva la capacità di Aaron Sorkin di leggere il suo tempo, di interpretare quasi come un veggente la realtà politica che lo e ci circonda: è così che proprio nei giorni di un possibile attacco punitivo dell’Occidente alla Siria di Assad, rea di aver usato il gas Sarin contro i ribelli, l’HBO trasmetta una serie, The Newsroom, la cui stagione in corso è impostata proprio attorno a una vicenda relativa all’uso della terribile arma chimica. Non solo, proprio come nella più stringente attualità, all’ordine del giorno c’è proprio il dubbio sulla certezza dell’uso delle sostanza illegali. Potrà sembrare una coincidenza, ma il fattore caso viene nettamente ridimensionato se si pensa che Aaron Sorkin è lo stesso che diversi anni fa nella sua serie più nota, The West Wing, raccontò di un giovane afroamericano destinato a diventare presidente degli Stati Uniti d’America, molto prima che questa profezia si avverasse con l’elezione di Barack Obama.
Dopo settimane di salti temporali inframezzati da avventure sentimentali fuori porta e infatuazioni per giovani rivoluzionarie, siamo alla resa dei conti, dove tutto si stringe attorno alla squadra capitanata da Charlie, Mac e Will. Il futuro prende il sopravvento sul presente, diventandolo a sua volta e spingendo nel passato la temporalità che fino all’episodio precedente è stata protagonista. Al centro c’è il “processo”, l’indagine contro la redazione e i rapporti con il passato sono strettissimi. Nulla, in questo episodio, può prescindere dal geometrico movimento di vai e vieni tra le due differenti dimensioni temporali, quella dell’inchiesta e quella della messa in onda della notizia. Il movimento ondulatorio che porta l’istanza narrante a soffermarsi prima su un tempo e poi su un altro, mettendoli costantemente in dialogo, è un modus operandi irrinunciabile in quest’episodio, che dimostra tutta la sua efficacia nel rapporto tra le dichiarazioni dell’interrogatorio e la messa in mostra degli accadimenti raccontati. Le stesse storyline secondarie sono riacciuffate da questo infallibile meccanismo narrativo (e mostrativo), come viene fatto in modo esemplare per quella di Jim: se parte della responsabilità della disattenzione del gruppo viene attribuita a Jim, reo di essere scappato col cuore infranto in New Hampshire, questi in occasione della riunione sulla messa in onda della notizia si comporta da “globulo rosso”, ossia da membro del Red Team, antivirus di sistema, mente fresca in grado di offrire uno sguardo dall’esterno, un’opinione che non a caso si rivelerà più che ragionevole quantunque inascoltata.
La sequenza della riunione è senza dubbio la principale dell’episodio e probabilmente dell’intera stagione, sia per la sua organicità, sia per la capacità di mettere al centro tutti i personaggi e i rispettivi affluenti narrativi che li riguardano. Ovviamente Jerry Dantana è il collante di tutto, ma anche il vettore della focalizzazione dello spettatore: il pubblico infatti sa già cosa è successo e intuisce perfettamente come andrà a finire, avendo visto il momento della contraffazione del filmato; in questo modo si crea quell’effetto suspense per cui lo spettatore conosce più di ciò che conoscono i personaggi ed è portato a partecipare emotivamente alla loro ricerca in modo che questi si mettano in pari. Nel litigio tra Jim e Jerry è facile prendere le parti del primo, sia perché alla luce dei fatti avrà ragione, sia perché – e qui riemerge la sua storyline – l’altro non è nulla di più che il suo sostituito, il tampone a una mancanza, riflesso di quella mancanza d’amore che ha costretto Jim a scappare. Più complessa è la scelta di Will: in questo caso è a lui che viene lasciata l’ultima parola, sia in quanto annunciatore dello show sia in quanto personaggio più carismatico della serie, il quale sceglie da perfetto moderato di non scoprirsi, di non prendere le parti né di Jim, né di Jerry, ma di seguire il cuore e fidarsi di Charlie e Mac.
É sempre da una dimensione privata, intima, che viene fuori la soluzione dell’enigma; sempre dai due protagonisti quelli per il cui amore tutto il pubblico tifa, che partono le illuminazioni decisive. L’America di Sorkin è da sempre stata quella dello scontro tra sessi e dei maschi alfa, ma non esiste ruolo senza contesto e si fa fatica e trovare qualcuno che padroneggi meglio la politica, il giornalismo e l’immaginario statunitense dell’autore di The Newsroom. America vuol dire retorica, narrativa e comunicativa, vuole dire quindi un susseguirsi di metafore, tra cui non può esimersi quella sportiva. Se la competizione è al centro dell’individualismo americano di matrice anglosassone, lo sport è certamente il cuore di una certa cultura nazionale – non a caso a livello universitario i risultati sportivi contano quasi quanto il profitto accademico. Dopo aver raccontato il rapporto tra sport e società in quella bellissima metafora dell’America che era Moneyball – L’arte di vincere (e prima ancora con Sports Night, prima sua creatura televisiva), Sorkin mette in scena l’ennesimo parallelo, declinandolo attraverso il rapporto tra l’Uomo e la Donna della serie, Will e Mac. Alter ego dell’autore per eccellenza (e non a caso l’unico a non subire la derisione degli avvocati durante il processo) Will, quasi seguendo le istruzioni di un ipotetico manuale dei generi nell’immaginario sorkiniano, con la razionalità che lo contraddistingue spiega a Mac il mondo, le insegna le regole (in questo caso dello sport); Mac, di tutta risposta, esempio di intuito adamantino, dimostra di aver appreso la lezione mettendola a disposizione del proprio talento, smascherando così Jerry Dantana grazie al cronometro della partita di basket.
L’unica leggera imperfezione, di un episodio altrimenti impeccabile, risiede nella caduta della certezza delle fonti in merito all’uso di armi chimiche. Se il graduale crollo spicca per la sua (de)costruzione, tuttavia la vicenda legata a Charlie travalica le regole del realismo, esagerando fino a prestare il fianco a una lettura involontariamente comica. L’informatore segreto che si vendica con Charlie a causa della morte del figlio, immediatamente successiva al licenziamento subito dalla redazione di News Night, è una caduta di stile che va ad intaccare la perfezione e la misura con cui tutta la vicenda è stata gestita sino a quel momento. È pur vero che, aspettarsi un racconto realistico da Sorkin solo perché parla di cose che hanno a che fare col reale è a mio avviso l’approccio sbagliato per osservare le sue storie: il suo modo non è la rappresentazione di ciò che esiste, bensì la sua idealizzazione; non esistono redazioni siffatte, essa è piuttosto l’ideale a cui tendere, e i relativi eroi (e tra questi c’è anche ovviamente Charlie) rispondono dunque a quell’ideale donchisciottesco per il quale si adattano anche insidie irreali come quella che capita a Charlie.
Prima di concludere non si può non menzionare il finale dell’episodio, vera e propria ciliegina sulla torta, dominato (è il caso di dirlo!) da una Jane Fonda incredibile, mattatrice incontrastata della scena, donna con la D maiuscola (e non si dica più che Sorkin è maschilista!) in grado di annichilire tutti, Wil compreso, dispensando carattere e ironia per chiunque.
Così si chiude il miglior episodio di The Newsroom fino a questo momento.
Voto: 9
Non ho visto TWW (pensavo infatti che il presidente nero lo avesse inventato “24”), però sì, pensando a quello che accade in Siria, e alle prove sul gas usato che dovrà esaminare il Congresso americano, non si può non rimanere indifferenti di fronte alla capacità divinatorie (?) di Sorkin. Episodio talmente denso e stratificato (ma quante battute ci saranno state? Millemila?) che alla fine non puoi fare altro che domandarti “e negli altri due che raccontereanno”? Ad aumentare la confusione ci si è messa pure la pausa in pezzo. Sarebbe stato davvero un perfetto season finale, invece è solo il migliore episodio di NR visto finora. L’altra forzatura un po’ stonata, oltre a quella legata a Charlie che hai già citato, è che non si capisce perchè Dantana abbia rimontato il video, quando in realtà bastava modificare solo l’audio! Vabbè, è Sorkin, se è solo questo il prezzo da pagare per ricevere in cambio episodi così avvincenti, anche questa gliela perdoniamo.
Che puntata, che puntata! Devo dire che sono molto soddisfatta di questa stagione di The Newsroom, che secondo me è riuscita a sistemare quasi tutti i difetti della prima (triangoli e altri poligoni amorosi compresi); la capacità di concentrare tutto su un caso e di raccontarlo su linee temporali diverse è stata un’ottima idea (anche se in qualche puntata ho avvertito anche un effetto un po’ confuso… voglio pensare che sia stato fatto apposta per noi eheh)
sulla questione Charlie: con tutto il bene che possiamo avere per gli ideali donchisciotteschi e per le cose poco probabili, il troppo per me stroppia comunque e il fallimento della fonte di Charlie è stata una scivolata che mi ha fatto storcere il naso.
Comunque Jane Fonda è la migliore della puntata XD la storia di Daniel Craig è fantastica, ma poi, quando ha detto, da mezza sversa, quello che prova davvero per l’azienda, mi ha quasi intenerito. Brava, brava, brava.
Quando gli dice alzati e poi risiediti non gli somigli stavo morendo.
Cmq lo script di questa puntata sarà lungo quanto una stagione di altre serie tv, per numero di pagine!
ahah vero, lì è proprio pazzesca!
La storia del sarin è comunque incredibile come coincidenza… quando hanno cominciato a parlarne per la Siria mi è preso un colpo, giuro che per un momento ho pensato di aver sentito male e di essermi fatta condizionare da the newsroom. Invece, purtroppo…