Di solito le grandi serie TV si riconoscono grazie alla grande capacità di dare equilibrio alla propria narrazione, alternando episodi più drammatici ad altri più leggeri. The Good Wife è capace di fare entrambi i lavori nello stesso episodio e “Dear God” ne è una lampante dimostrazione.
Se la serie dei King continua a resistere in un panorama televisivo sempre più competitivo è soprattutto per via di giudizi critici eccelsi, dovuti in gran parte al perfetto bilanciamento tra le varie anime della serie, capace in questo modo di intercettare ogni fascia di spettatore. Quest’episodio spiega perfettamente tale natura, rispondendo ai segnali di paura che hanno anticipato questa annata: riuscirà The Good Wife a ripetersi? La straordinaria quinta stagione non rischierà di rivelarsi un boomerang, una palude da cui è difficile uscire? A queste domande la risposta è delle più azzardate: la serie decide di rischiare ancora e di rischiare tutto e questo terzo episodio si palesa come l’ennesimo punto di svolta, ribadendo l’enorme maturità della serie.
Mr Agos? A-gos?
In perfetta continuità con i due episodi precedenti, questo terzo segmento porta al centro il personaggio di Cary Agos, dedicandogli addirittura tutte le fasi iniziali e inserendolo in diverse storyline. Con gli stravolgimenti avvenuti l’anno scorso, è il suo personaggio (e non quello interpretato da Michael J. Fox, come inizialmente ci si aspettava) a trarre maggior beneficio; in effetti erano anni che Cary Agos risultava il carattere potenzialmente più dirompente ma anche quello meno sfruttato. In questo inizio di stagione tutto sembra prepararsi per il meglio, dalla relazione con Kalinda (splendidi i ricordi della notte d’amore) ai conflitti con Diane e Alicia. Il prologo della puntata è poi l’inizio di una sequenza a episodi che vede prima Cary, poi Alicia e Diane al cospetto di un’intervista che sarà intervallata dai loro ricordi, legati al question & answer, i quali mostreranno tutto lo iato tra verità e menzogna e tra la dimensione pubblica e quella privata. Tutta la questione del processo a Cary, trama seminale di quest’annata, ha anche un’altra fondamentale valenza: questa volta i King vogliono porre l’attenzione sulla possibilità della giustizia di perseguitare un libero cittadino e sull’irrinunciabile bisogno di garantismo che hanno le democrazie moderne, tema caldissimo in tempi di privacy violate giorno dopo giorno, e ancora più bollente nell’Italia degli ultimi vent’anni a seguito di vicende legate a personaggi molto noti della vita pubblica e politica del Belpaese.
The longer I live, the more I realize that everything is a Kafka in action.
Il caso della settimana è un’altra perla partorita dagli autori della serie, il quali sono stati capaci di costruire una vicenda che riesce a essere al contempo piena di ritmo, esilarante perché sempre sul crinale del paradosso e legata alle trame orizzontali dei protagonisti. Si parla di produttori di alimenti e di monopoli e in men che non si dica inizia uno scontro tra i più aspri che coinvolge i loro avvocati. I due clienti però, come fossero delle pecorelle smarrite della cintura del grano, decidono di abbandonare il processo e rivolgersi a un arbitrato evangelico con la speranza di eliminare i dissapori e venire al più presto a capo della questione. Alicia e Cary si trovano totalmente spiazzati da questa condizione e con loro tutti gli spettatori: le norme basilari della giurisprudenza sono totalmente sovvertite, le obiezioni non valgono praticamente più e tutte le regole dialettiche sono sostituite da precetti evangelici e dagli insegnamenti delle parabole cristiane.
La cosa, oltre a essere divertentissima, torna a porre l’accento sul rapporto tra Alicia e la figlia Grace: la madre va a chiedere consiglio alla ragazza su come comportarsi e come poter usare le dritte della Bibbia a proprio vantaggio per vincere il processo, ma in questo modo si scontra con l’evidenza di un rapporto che ha un terribile bisogno di essere alimentato da stima e fiducia reciproca. L’arbitrato nasconde la solita caustica critica all’integralismo religioso operata da uno degli show più laici in circolazione, capace di sferrare delle frecciate avvelenate nonostante vada in onda su uno dei canali più “limitati”. Ovviamente Alicia riesce ad applicare alla Bibbia il suo straordinario talento e la sua conoscenza della giurisprudenza, e porta a casa l’arbitrato.
It’s a bad idea to run, Alicia. Very few saint survive oppo research.
Nel corso della puntata c’è anche modo di tornare sulle questioni legate ai due studi e in particolare alla nuova conformazione che sta prendendo la neonata firm di Alicia e Cary, specie con l’arrivo di Diane. Lo strumento d’indagine è quello dell’inizio, ovvero l’intervista, dispositivo narrativo attraverso cui passano prima Alicia e poi Diane. Tra bugie e mezze verità emergono tutti i dubbi e tutte le questioni maggiormente spinose legate al rapporto tra Alicia e Cary e alla loro collaborazione lavorativa, che si regge su una grandissima competizione ma anche su un viscerale affetto reciproco. Alicia mente su tutti i dissapori perché i panni sporchi si lavano in casa, come da ormai molti anni ha imparato. Quando arriva il momento di Diane siamo ormai a fine puntata, ma proprio per questo capiamo a che cosa stiamo andando incontro: “Dear God” è la prima puntata in cui è completamente assente la (ex) Lockhart/Gardner, non esattamente un dettaglio da poco. Quando Alicia e Cary sognavano di essere the new Will e Diane, pareva stessero farneticando; ebbene, oggi lo sono diventati, sono loro il centro narrativo e professionale della serie, con Diane, fuori dalla sua vecchia firm, a fare da terzo personaggio, quasi un elemento disturbante, quantunque estremamente interessante.
I don’t think I’m genetically built to believe in God.
Dove si gioca la partita di questa stagione? Non su Cary, sebbene questi sia definitivamente entrato tra i protagonisti della serie. Non sul rapporto genitori figli, già troppo sfruttato nel corso delle annate passate. Non più neanche sull’amore di Alicia, vista la morte di Will, arrivata tra l’altro al momento giusto, proprio quando tutta la questione stava iniziando a diventare un po’ usurata. Questa stagione scommette tutta la posta in palio puntando sul rapporto tra Alicia e la politica, ribaltando, tra l’altro, quella che nel finale della scorsa annata sembrava solo una provocazione, un modo per chiudere il season finale con un colpo di scena e al contempo con una risata e un applauso. No, non si trattava di una battuta. O meglio, da quella battuta i King sono stati perfetti nel riuscire a incastrare una serie di batti e ribatti dall’andamento paradossale, kafkiano, in cui Alicia tenta progressivamente di sfuggire a un destino ineluttabile, la sua candidatura a state’s attorney.
Dopo questo terzetto iniziale il vero capolavoro degli autori sta tutto qui, nell’essere riusciti a farci credere che la questione legata alla candidatura di Alicia stesse completamente nella testa di Eli, per poi farla riprodurre come un virus all’interno delle maglie narrative, fino a innestarla nel cervello e nelle ambizioni di Alicia. Quando afferma di non essere geneticamente predisposta a credere in Dio, oltre a sottolineare nuovamente la sua estraneità verso ogni forma di religione, Alicia sta parlando della politica e di quanto sia sempre più difficile per lei rinunciare alla nuova carriera che le si sta aprendo davanti agli occhi. Quando Eli, verso il finale, le dice not everything is about you, è davvero convinto del fatto che in quel caso le strategie sono legate alla salvaguardia della campagna di Peter, ma Alicia è ormai con la testa alla candidatura e probabilmente non ne uscirà. La presenza eccezionale di Gloria Steinem, giornalista e storica attivista femminista americana, dà un’altra scossa importante alla decisione: a lei Alicia non riesce a dire no perché è una sorta di modello di riferimento alla quale è praticamente devota. Geniale in questo senso la presenza della Steinem che lega perfettamente reale e finzionale.
Altro episodio raffinatissimo di The Good Wife che ingrana la quinta anche in questa sesta stagione.
Voto: 8,5
Menzione speciale a Eli, perfetto in alcune delle sue battute di dialogo come thank you Nora, your precognitive powers amaze me.
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Mah come sempre TGW inizia bene ma poi – come a smentire il vecchio detto – chi ben comincia è a metà dell’opera, [EDIT: Il messaggio è stato interamente editato dalla redazione in quanto conteneva spoiler importanti sulla puntata 4, e questa è la recensione della puntata 3.
Vi preghiamo di rimanere in topic e di attendere le recensioni delle puntate successive per parlare degli svolgimenti.
La redazione]