Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente.
Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?
Il lungo speciale di Natale che ci ha appena regalato Channel 4 rompe finalmente il silenzio che si è fin qui trascinato dai tempi di “The Waldo Moment“, e lo fa nella maniera più sottile, strisciante e per questo fragorosa che spettatore ricordi – forse paragonabile solo all’impatto ottenuto con il debutto assoluto della serie (“The National Anthem“).
Riesce ad avere questo risultato proprio perché risponde ad una necessità ben precisa: ogni epoca ha bisogno di raccontarsi, estremizzarsi e descriversi tramite iperboli ed esagerazioni, materializzando distopie che ne diventano una specie di obbligatoria catarsi – o almeno uno specchio parlante. Infatti l’intero progetto Black Mirror è stato pensato e realizzato come un overstep, un avanzamento, uno spostamento in avanti temporale e visionario, capace di concretizzare al massimo le nostre paure e le nostre ossessioni, e di farlo in maniera disturbante ed impietosa.
Quando la realtà diventa complessa e inestricabile, l’appello alla finzione sembra l’unico palliativo possibile per cercare di orientarsi nel buio del proprio baricentro. E a noi è toccata in sorte la lucida penna di Charlie Brooker.
Part III – IV. Well, that’s what you are. […] A copy of you.
Ormai più di un secolo fa, qualcuno scriveva: il meccanismo della rimozione può attivarsi quando si è costituita una netta separazione tra l’attività psichica cosciente e quella inconscia, e la sua essenza consiste nell’allontanare qualcosa dal conscio e tenervelo a una certa distanza.
La mente è vista quindi come totale artefice e responsabile di se stessa, capace di affrontare l’enormità dei cambiamenti, di gestire la grandiosità dell’inaspettato, di destreggiarsi nel bel mezzo di crisi imprevedibili e che possono cambiare, in un nanosecondo, qualsiasi cosa. Nel corso di un centinaio d’anni, il complesso sistema del pensiero umano ha trasceso i suoi stessi confini e, dalla complessità di cui si caratterizzava, lo abbiamo volontariamente ridotto ad una semplice stringa di codice, da inserire in un cookie e visibile come un piccolo puntino azzurro. O almeno è così che il bianco Natale di Brooker ci rappresenta.
La puntata è divisa in sei segmenti, e non a caso la terza (e più breve) parte ne è a tutti gli effetti il vero e proprio cuore pulsante: nucleo visivo e narrativo che funge da raccordo e da faro, è il punto che sintetizza e catalizza tutta la superficialità dell’illusione umana.
Matthew (uno strepitoso Jon Hamm) lavora per la Smartelligence, società che, oltre ad un nome ridondante, garantisce ai suoi clienti un netto miglioramento della qualità della loro vita al costo di un semplice ed innocuo taglio sulla tempia. Al minimo prezzo fisico corrisponderebbe il massimo del beneficio: impiantato un cookie vuoto nel cervello, questo nel giro di una settimana carica (upload) e copia i dati della persona ospitante; questi vengono poi chirurgicamente scaricati (download), quindi estratti e materializzati all’esterno. Quella che potevamo definire coscienza, a voler rispolverare un nome desueto e vecchia maniera, va quindi educata ad eseguire gli ordini del suo vecchio corpo, a prendersene cura come un vero e proprio oggetto. Pena l’isolamento.
Nella sinistra contemporaneità che ci travolge e che alimentiamo è abolita qualsiasi distanza tra dentro e fuori, tra conscio ed inconscio: la stereotipata “vocina nel cervello”, da complice e protettrice, si è trasformata in un inutile ingombro ed ostacolo. Ed ecco che per farla tornare funzionale, bisogna relegarla nel non-luogo asettico che le ha messo a disposizione l’high-tech: il viso attonito ed alienato della piccola Greta, interpretata da Oona Chaplin, rende perfettamente l’assopimento e l’assuefazione di quell’io nascosto, troppo faticoso da tenere a galla. Meglio schiavizzare la mera copia che l’io mondano ha pagato per avere.
Noi siamo esattamente ciò che esibiamo, anzi: noi siamo il “chi” che esibiamo, poiché a dare la misura del reale, del vero, dell’esistente, è la realtà, cioè il corpo, la fisicità, la presenza (try to blow on my face), che deve esprimersi in una serie ordinata di vacui appuntamenti ed impegni. Pena l’invisibilità.
Part I – II. People want to be noticed. They don’t like to be shut out. It makes them feel invisible.
Rispetto a The Entire History of you o Be Right Back dove, rispettivamente, la tecnologia diventava complice controproducente o sostituto irrinunciabile, qui Brooker compie un passo in più. Si (ci) interroga sugli effetti strettamente identitari che l’intelligenza artificiale può produrre (produce?) su ciascun individuo: come pensiamo noi stessi e quanto si sono di conseguenza modificate, nel loro profondo, le relazioni umane?
Oltre che per il suo lavoro principale, una sorta di cinico mentore-trainer per nuovi cookies, Matthew usa le proprie abilità manipolatorie per aiutare dei loser ad abbordare ragazze. Poiché siamo immersi nel flusso del costantemente pubblicato, la convinzione di cui si nutre questo nuovo e perverso Cyrano non è solo di conoscere e saper interpretare la mente umana o le dinamiche amorose, ma che queste cose siano nulla più che la somma finale degli ambienti in cui ci si trova, delle persone che si frequenta, e della vuota sequenza di appuntamenti segnati su un’agenda virtuale e immortalati da foto e localizzazioni. Nessuno vuole essere isolato e invisibile, queste sono infatti le due torture che Matthew usa su Greta per costringerla a lavorare: facendo un piccolo spostamento dello stesso concetto per adattarlo agli umani, ecco che si materializza il decalogo del buon seduttore, colui che costruisce la naturalezza dei rapporti sull’artificiosità di un vero allenamento. Ma isolato ed invisibile rispetto a chi, rispetto a cosa? Come si decide quale sia la misura della realtà? Quando siamo davvero reali? Basta incontrare una variabile impazzita sulla propria strada per sentire che può cambiare tutto, per poter davvero vedere il limite sottile tra la verità e la superficie.
I social network hanno fagocitato il mondo e, da vetrine che erano, hanno inglobato ogni singolo tassello della vita tangibile, cosiddetta reale, fino a schiacciarla e a ridurla ad una superficie esterna e visibile, uno schermo dove ogni azione è una performance e per esistere deve avere un pubblico pagante. Conoscere e vedere coincidono, sono sinonimi. Gli inamovibili Z-eyes (forma estremizzata e spaventosa dei Google Glass) ne sono il simbolo perfetto: fanno entrare in contatto con il più alto numero di informazioni e quindi convincono che, una volta letto su uno schermo, l’altro sia già immediatamente conosciuto. Unico punto dove l’invadenza della tecnologia non riesce ad arrivare, o si rivela alla fine dei conti fallimentare, è l’esperienza più piena ed egoistica cui l’uomo non può sfuggire: la morte, cioè lì dove isolamento ed invisibilità si compiono drasticamente. Se la presenza di un corpo è l’unità irrinunciabile per essere, rinunciare alla carne significa tagliarsi volontariamente fuori dal mondo sociale e conquistare una profondità perduta e quindi, fino a quel momento, inesistente; perciò il rito di Jennifer celebra la confusione tra dentro e fuori, l’eccezione di chi (uno su un milione) subisce e sente su di sé il peso delle contingenze esterne. Tristemente, il solo modo per riappropriarsi paradossalmente del dentro coincide con la sua stessa scomparsa. E Jimmy viene trascinato nello stesso vortice proprio a causa della leggerezza contraria: l’idea malsana che l’altro sia nulla più che una sfida e che la superficie non può ingannare, ma va soltanto arginata per conquistarla usando un’altra tecnica, abbordandola in altra maniera. Ma se anche la superficie, l’esibizione, la vista possono fallire, è rimasto qualcosa di veramente sincero cui aggrapparsi?
Part V-VI. I confess.
I segmenti iniziali, dominati da Matthew, e finali, dove prende la parola Joe, sono l’emanazione crudele e sorprendente di quanto raccontato nella parte centrale, dove nessuna variabile non preventivata è entrata a disturbare il bianco accecante (da laboratorio, non a caso) della casa di Greta. Proprio alla fine, attraverso le parole di Joe, ogni cosa, ogni tassello, ogni input del racconto fin qui dipanato si riavvolge ora ossessivamente su se stesso, come un nastro impazzito che manda in loop sempre la stessa identica canzone (qualcuno ha detto Kubrick?).
Il luogo appartato e fuori dal mondo dove si trovano Joe e Matthew somiglia – e ci viene lasciato credere che sia – una sorta di rifugio di montagna popolato dai due da ben cinque anni; un luogo tre volte reale perché isolato, invisibile e volontariamente scelto così. E invece, soprattutto qui, si materializza sotto i nostri occhi e quelli attoniti di Joe come tutto sia il contrario di tutto: siamo immersi in una complessa e inestricabile galleria di specchi, dove si riflette sempre la stessa immagine, una superficie contro l’altra, fino a non distinguere più quale sia la sagoma vera e quale la mera proiezione. Il problema è che non interessa più a nessuno tornare all’origine e dare una forma, un’identità, un nome alla sagoma. E questa indifferenza e incapacità di vero, sincero contatto con l’altro è l’argomento principale di White Christmas: l’unilateralità dei rapporti umani, la scomparsa della comunicazione, la difficoltà del confronto, la codardia che si nasconde sotto un unico tasto che dice blocca.
Il “blocking” non è il perverso sistema per cui diventa possibile la rimozione del trauma causato da una persona, cioè quell’evento che bisogna allontanare dall’ormai schiava coscienza, ma quello che realizza quanto di più disturbante possa accadere: la rimozione tout court della persona stessa. Se la vita è il social network, cioè ne segue le stesse regole e gli stessi sistemi, allora anche la parte di protezione è inclusa nel prezzo. Ma anche qui, se si elimina qualcuno dalla propria vita facendo in modo che non esista, che sia silenziato e quindi neutralizzato, il concetto di proteggersi non si ribalta nel suo contrario? Ignorare, ostracizzare e manipolare l’altro impedendogli totalmente di comunicare, di parlare, di chiedere, di ascoltare non coincide a questo punto con una vera e propria tortura? Joe viene bloccato su due piedi da Beth senza troppe spiegazioni, appena ha saputo di essere incinta, facendo in modo che l’uomo non sapesse neanche il sesso del proprio figlio. Per cinque anni, fino alla morte di Beth che permette di annullare il blocco, Joe vive un intero anno della sua vita aspettando un unico giorno: non a caso, il giorno di Natale. Un circolo ossessivo che si chiude sempre nelle stesse ventiquattro ore e che racchiude in sé tutta la tristezza e le convenzioni che porta una data rossa sul calendario. Ogni categoria della realtà è svuotata del suo significato e in primis il Natale, che qui non è una semplice cornice, ma il livello narrativo primo e ultimo che esemplifica come non esista più nulla di autentico. Non gli affetti, non la vicinanza fisica ad una persona: tutto si riduce ad una serie di feste aziendali, per esempio. Infatti Joe, vedendo gli occhi a mandorla della piccola May, si rende conto della sua cecità davanti al vero amore, quello tra Beth e Tim; nessuna tecnologia, neanche gli Z-eyes, possono arrivare a compensare i limiti naturali dell’uomo.
Brooker non ha lasciato il minimo dettaglio al caso e chiude con un’unica e magistrale morsa questo grande disegno. Punisce il gesto avventato di Joe contro il padre di Beth (e indirettamente contro la piccola May), chiudendolo nell’unico luogo davvero reale del racconto e ribaltando anche quella casa nascosta nel nulla in un luogo finto, riprodotto e impossibile da lasciare. Joe è costretto a rivivere sempre lo stesso giorno di Natale, riascoltare la stessa canzone, torturarsi sullo stesso rimorso. E tutto ha luogo grazie alla manipolazione del suo cookie perpetrata da Matthew, cioè colui che invece cerca il riscatto dalle sue azioni: ma se tra dentro e fuori non c’è differenza e la vita è performance, allora un omicidio in streaming non può che essere punito in pubblico mentre si è assenti dallo stesso. Un’immagine rossa in un mondo di vacue immagini bianche: è l’azzeramento della comunicazione. Anche l’unico legame dell’unilateralità è per lui reciso.
Non esistono conclusioni per la rappresentazione di qualcosa che è in costante movimento, che accade mentre parliamo, mangiamo, interagiamo, dormiamo, che ci striscia accanto mentre viviamo. Non esistono conclusioni perché l’unica cosa da fare è solo un atto di coscienza, di revisione e di ripensamento proprio alla vigilia del Natale, che forse può tornare ad essere davvero qualcosa in più, forse l’occasione giusta per (ri)cominciare a parlare, comunicare ed entrare veramente in contatto con chi ci siede accanto, e non solo con chi è dall’altra parte di uno schermo.
Grazie Charlie Brooker, buon Natale anche a te.
Voto episodio: 10 (da qui inizi l’ammenda di ciascuno di noi)
Commenti dall’Angolo delle Discussioni sull’episodio:
seriangolo forum
Chapeau a Brooker e all’episodio e perché no? anche alla recensione.
Le avete notate le citazioni agli episodi precedenti? Altro tocco di classe anche se un paio non le ho ancora scoperte
Spettacolare. Non riuscivo a staccare gli occhi dallo schermo e l’angoscia finale era all’estremo.
Nulla da aggiungere. Ineccepibile recensione. Episodio ansiogeno e profondamente distopico ma attuale come da sempre ci ha abituati questa magnifica serie. Passare la vigilia guardando questa puntata in frecciarossa mi ha fatto riflettere tanto visto che intorno a me avevo praticamente 16 persone con le cuffie…4 ore di viaggio senza che nessuno si scambiasse una parola…
abominio della società odierna.
Dopo questa visione non posso fare altro che riflettere e nel mio piccolo fare ammenda.
Piccola nota di colore:
“Anyone who knows what love is” stupenda canzone ripresa da uno dei migliori episodi precedenti di black mirror se ricordo bene…
Non sono d’accordo con il tuo esempio delle cuffie… non ho mai pensato fosse questo il problema delle nuove tecnologie, anche perché meccanismi di isolamento dagli estranei li attuiamo da secoli, ben prima dell’avvento di smartphone e i-pod. Ma soprattutto perché quella che puoi avere in treno non è la VERA comunicazione di cui parla Sara o di cui parla Brooker! Il problema non è la comunicazione mediata dalla tecnologia, ma il modo in cui viviamo la comunicazione e la nostra stessa vita ora che la tecnologia la sta modificando. Ci si può mentire, illudere di conoscere l’altro e attribuirgli colpe, meriti, difetti e pregi che non ha anche faccia a faccia, si può decidere di ignorare una persona anche avendocela davanti. Il punto non è questo: il punto è l’esperienza che abbiamo di noi stessi ora che possiamo esporla come mai in passato, ora che possiamo “esternalizzare” una parte di noi come potrebbe essere la coscienza di cui parla Sara (anche se io non sono per nulla convinta dell’accostamento tra il cookie di Oona Chaplin e la coscienza quale “vocina nel cervello”, anzi trovo sia l’unica pecca di questa altrimenti splendida recensione). Anche in passato i “diversi”, i “mostri”, i “colpevoli” venivano ignorati ed isolati dal mondo, anche in passato la comunicazione era falsata. Semplicemente oggi esistono modalità comunicative differenti che influenzano queste dinamiche e che possono portare a derive inconsapevoli. C’è chi direbbe che la sorte toccata al personaggio di Jon Hamm sia giusta, che essere pubblicamente esposti e contemporaneamente incapaci di comunicare gli stia bene e che rappresenti un’ottima forma di tutela per gli “innocenti” (cosa in parte condivisibile… ma a che costo? Mi piacerebbe vedere Brooker alle prese con la questione carceraria, secondo me darebbe il meglio di sé). La colpa di tutto questo è delle nuove tecnologie? Chi la pensa così, lo pensa solo perché ha a disposizione uno smartphone?
Colgo il tuo ragionamento e lo condivido ma dubito che in passato ci fosse una forma di autoalienazione come quella che viviamo oggi. I colpevoli sono i social network e l’avanzamento tecnologico?non credo. Credo che la corpa sia nostra e di come la società rifletta su se stessa un impartimento di valori e principi base assolutamente fuorvianti. In una società dove l’avere e l’apparire surclassano l’essere e il conoscere l’utilizzo dei social ed in generale della tecnologia non può far altro che danni. Entra in un qualsiasi ristorante e vedrai almeno la metà delle persone alle prese con tablet e cellulari anzichè i una conversazione aperta e genuina xol proprio commensale, entra in una qualsiasi scuola elementare e non troverai bambini senza cellulare o adirittura tablet, entra in una qualsiasi pagina facebook e non vedrai contenuti ma autogossip delle singole persone intente a raccontarci dove e cosa mangiano, dove e cosa vedono, come e quando vivono qualsiasi momento. La nostra privacy è ormai stuprata volente o nolente e siamo noi stessi a farlo, siamo noi stessi che abbiamo accettato passivamente il ruolo di grande fratello di noi stessi. Esasperata al massimo questa situazione porta, in un mondo distopico come quello narrato in black mirror, a situazioni paradossali e preoccupanti come quelle evidenziate nell’episodio. Ma dove iniziano e dove finiscono le responsbilità di ognuno di noi e dove iniziano quelle della società, del mondo dell’istruzione e della famiglia? Io credo che i mondi narrati da black mirror per quanto possano sembrarci lontani siano in realtà gia molto attuali. Parlare di una serie tv, piuttosto che di un film o di una partita o di politica su un social o su un forum è un vantaggio che noi creiamo, sfruttiamo per poter abbattere le frontiere che ci separano ed è qualcosa di bellissimo. Dare un cellulare ad un bambino di 10 anni perchè possa non sentirsi “escluso” è una mattanza di cervelli è una violazione dei diritti umani volendo esagerare. Quale beneficio ne potrebbe trarre? nessuno. Postare ogni singolo momento della propria vita a chi importa davvero?a nessuno. E’ solo un modo che l’uomo contemporaneo si è creato per sentirsi importante, rilevante e non sentirsi una goccia d’acqua nell’oceano della vita. Flirtare con una donna sotto istruzioni di un guru è prostituzione intellettuale, non è ne più ne meno che pagare una escort per ottenere un servizio ma da l’illusione di preservare una propria moralità. Impedire che la gente possa comunicare fra loro è molto più disumano che rinchiuderla a guantanamo perchè si priva l’uomo della possibilità di scoprire, conoscere, scegliere, amare, odiare. Sono cose gia tremendamente attuale. Oggi c’è gente, ci sono adolescenti e non solo che danno di matto o vanno in depressione per un “mi piace” mancato o un follower in meno. Oggi si fa politica tramite tweet e non tramite dialogo costante o leggi di buon senso. Oggi affidiamo la nostra vita ad un PC volenti o nolenti con vantaggi e svantaggi che ne derivano ma ci priviamo sistematicamente, a meno di sempre più rari casi, della nostra stessa umanità.Forse sto straparlando ed andando off topic ma black mirror scatena in me anche se non soprattutto questo tipo di riflessioni e mi sembrava giusto lanciare questa riflessione in questa sede per vedere cosa ne pensate.
Recensione perfetta, davvero impeccabile. La puntata è stata straordinaria, un vero e proprio capolavoro ma da Brooker me lo aspettavo: solo lui poteva concepire uno special di Natale (il periodo probabilmente più ottimistico dell’anno) così dark. La visione di ogni puntata di Black Mirror fa male perchè, pur trattando storie apparentemente di fantasia (ma non troppo), tocca in maniera eccelsa tutti i temi caratterizzanti il nostro tempo. E si, il futuro che ci aspetta, guardando Black Mirror, è davvero terrificante (oltrechè verosimile).