What the fuck is happiness? In maniera diretta e spregiudicata la nuova serie targata Showtime imposta un’intera riflessione sul concetto di felicità e sulla sua infinita ricerca, ponendosi la domanda per eccellenza: esiste davvero qualcosa come la felicità?
La prevedibilità del tema viene aggirata tramite situazioni e personaggi ben congegnati, sfaccettati ma al contempo emblematici di una determinata fascia sociale. A differenza di quanto potrebbe sembrare, tuttavia, non è solo il tema della felicità a caratterizzare la narrazione, capace di districarsi attraverso tematiche diverse e ponendosi un fondamentale obiettivo, che si può dire raggiunto con successo: raccontare la storia di una famiglia apparentemente perfetta – felice – nelle sue contraddizioni e dubbi, nelle microstorie che si vanno ad intersecare trovando una sintesi nell’unità superiore del nucleo familiare.
I’m the fucking problem.
Il voice over che accompagna i primi minuti del pilot appartiene al padre di famiglia, colui che più di tutti, fin dall’inizio, appare sempre più imprigionato in una realtà apparentemente idillica – a partire dal suggestivo scenario – ma che si rivela essere sempre più costrittiva e limitata. La differenza che caratterizza la serie rispetto ad una comedy qualunque sta nelle modalità in cui si decide di affrontare il rapporto tra i due coniugi, che diffidano dalle semplici banalizzazioni riuscendo a costruire, in una manciata di scene, l’immagine di una coppia salda e fedele, capace di contare l’uno sulle debolezze e le forze dell’altro.
La figura di Thom, plasmata innanzitutto sul rapporto con la moglie e con il figlio, risulta ulteriormente credibile alla luce delle contraddizioni che l’accompagnano: la salace autoironia che si mescola alla sfiducia per la propria posizione sociale e culturale – un pubblicitario che vorrebbe diventare uno scrittore (Fuck Mad Men!); il rifiuto del nuovo, incarnato dagli Svedesi, che mal si accorda all’attraente moglie amante dell’arte ed allo stesso sogno nel cassetto. Il mito della felicità perfetta ed irraggiungibile, capace di appagare l’animo più turbolento, è in realtà una prospettiva fasulla: ogni uomo può sopportare un certo livello di felicità, prima di rifiutarla nei modi più disparati. La lezione che impara il protagonista serve a fornire le coordinate della serie stessa: una volta terminata la futile quest della ricerca della felicità, all’uomo moderno tocca lottare, con le unghie e con i denti, per conquistare il proprio posto nella società, guadagnandosi quel po’ di imperfetta felicità che gli spetta.
[…] because it’s one thing to have a shitty mother, it’s another to think that you’re the only one with a shitty mother.
Così come il pilot riusciva nell’intento di utilizzare una materia prevedibile – la crisi dell’uomo di mezz’età, la ricerca di un senso alle nostre azioni – trasformandola in maniera originale tramite una buona scrittura ed un ottimo personaggio principale, così il secondo episodio tenta di fare lo stesso con la controparte femminile della coppia, riuscendo nell’intento di creare una figura forte e complessa, in grado di sorreggere il peso della puntata. Nel corso dell’episodio lo spettatore viene a conoscenza della storia personale di Lee, e al contempo del tortuoso rapporto che la lega alla madre. Il pretesto – vero e proprio elefante nella stanza – è l’ennesimo regalo della nonna nei confronti del nipote, capace di scatenare una serie di reazioni ai limiti dell’assurdo. La decisione sull’accettare o meno il regalo occupa l’intero episodio, ma è la presenza dello stesso, quasi fosse un’ombra che ricorda la figura del genitore, a far rivivere i ricordi di un’infanzia difficile e a determinare dei surreali dialoghi tra la donna e la scatola stessa. La consueta ironia riesce a smussare i contorni della storyline, che non risulta né troppo pesante né completamente avulsa dalla realtà.
Because you don’t fuck with my fucking bubble.
Proprio tramite lo sgradito regalo veniamo a conoscenza di uno dei precetti della famiglia Payne per sfuggire alla contaminazione della società di oggi, con le sue paure ed i suoi affanni: lo scenario idillico non è più casuale, ma risponde ad una serie di scelte ben ponderate e dall’alto valore simbolico. Vivere in mezzo al nulla significa vivere lontano da tutto ciò che potrebbe compromettere quel piccolo bozzolo di felicità, fatto anche di piccole infelicità, creato così faticosamente da Thom e Lee. Ma significa sopratutto sottrarsi a quella modernità e mondanità da cui entrambi, seppur in misura diversa, si sentono inevitabilmente spaventati.
Nel corso dei due episodi osserviamo la famiglia Payne alle prese con situazioni talvolta paradossali, capaci però di renderci un quadro completo delle psicologie dei loro componenti. Con un mix di ironia e una grande capacità di guardare nell’animo dei personaggi, Happyish si presenta come una novità da tenere d’occhio e su cui riflettere con attenzione.
Voto 1×01 “Starring Samuel Beckett, Albert Camus and Alois Alzheimer”: 8 Voto 1×02 “Starring Marc Chagall, Abuela and Adolf Hitler”: 7,5
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