
Quest’anno Homeland ha avuto l’indubbio pregio, come segnalato in altre occasioni, di iniziare la stagione mettendo in evidenza molto più che in passato i collegamenti con la nostra situazione geopolitica attuale, fino all’estremo realismo dell’inserimento di una citazione ai fatti di Parigi nell’episodio scorso. Al contempo, tuttavia, durante questa annata quelle che sembravano delle ottime intenzioni si sono spesso perse nel marasma del racconto; gli autori, con degli evidenti passi indietro rispetto a quanto promesso, hanno preferito per molti episodi concentrarsi su dinamiche ormai note – il rapporto altalenante tra Carrie e Saul, il ruolo di Quinn come variabile impazzita del trio – rendendo meno pregnante tutta quella parte che sembrava costituire, e in modo innovativo, la base di questa stagione.
Gli ultimi episodi hanno certamente recuperato terreno dal punto di vista del plot, puntando da una parte sull’effetto adrenalinico della scoperta (benché non priva di difetti) di Allison, dall’altra sull’attentato imminente; ma è solo con questa puntata che Homeland decide di scoprire tutte le sue carte, con una riflessione che gioca sul fondo di ogni singola storyline e delle decisioni di ogni personaggio: in tempi di crisi, di guerra, di paura e terrore, esiste un limite alle misure straordinarie che si possono adottare? Fino a che punto si possono giustificare scelte estreme in nome dei tempi terribili in cui viviamo?

Noi spettatori vediamo così tanti film e serie tv da sapere come questa sia una scelta usata e abusata; siamo abituati a vedere uomini e donne in fin di vita risvegliati giusto per il tempo di dare l’informazione chiave, quella che ci farà procedere nella storia. In genere questo funziona, con buona pace di chi poteva avere anche solo un dubbio etico a riguardo; la priorità dell’emergenza su tutto il resto, insomma, fa in genere dimenticare le implicazioni che ha una scelta di questo tipo – che gioca con la vita e la morte di un individuo. Qui, invece, si decide di mostrare la cruda realtà, ovvero la spesso inutile tortura che si nasconde dietro questi tentativi. Seith Mann (regista di un altro ottimo episodio della scorsa stagione, “There’s Something Else Going On”) indugia con la camera sul volto di Peter e non censura nulla della crisi respiratoria dell’uomo, degli spasmi del corpo, della difficoltà dell’intubazione; c’è spazio solo per i volti spaventati e preoccupati di Saul e Carrie, responsabili di questa decisione difficilissima e posti davanti ad una terribile scelta – se sia meglio vivere col rimorso di aver ammazzato Quinn o il rimpianto di non aver provato a scoprire il luogo dell’attentato. Esiste un limite in queste situazioni d’emergenza? E se c’è, dove si trova?
Biometrics? Is that really necessary?

Dimenticare quelli che sono i più basici diritti umani in nome di un’emergenza è come porre una pallina su un piano inclinato: ben presto la velocità avrà la meglio e ogni cosa sembrerà sacrificabile; ogni diritto calpestato avrà la sua giustificazione nella circostanza estrema, nella situazione straordinaria vissuta. Homeland decide non solo di mostrare le terribili conseguenze di questo comportamento, ma anche di inserire, con una frase apparentemente innocua, un’ulteriore riflessione sull’inutilità di certi tipi di interrogatori: “Do you want me to make something else up? Because I will” è la dimostrazione di come, sì, forzare la mano quando si ha davanti una persona colpevole forse può condurre ad avere delle informazioni; ma farlo con un innocente può avere l’ulteriore aspetto negativo di portare a confessioni inventate pur di uscire da quella situazione.
If I’m not allowed to speak to Faisal Marwan immediately, I will release the remaining 1,360 classified documents in my possession.
Ma non è solo nel caso singolo che viene trattata la questione dei limiti. Cosa succede a livello governativo quando uno stato vuole forzarne un altro a prendere misure straordinarie? Al di là di qualunque teoria contemporanea sui complotti, il discorso tra Allison e Erna Richter, che porterà la prima a comunicare il luogo sbagliato dell’attentato, si basa sul medesimo concetto portato alle estreme conseguenze: “The West needs a wake-up call”, dice Erna, e in questa terribile ottica l’obiettivo val bene la morte di centinaia di esseri umani.

Ecco che però qui anche l’unica voce che sembrava cercare di dare un senso a quanto accade si incrina: per dei motivi che possono essere considerati più che legittimi (la liberazione di Faisal), Laura finisce col fare quel medesimo gioco che stava denunciando e passa alla minaccia. Finisce anche lei con l’utilizzare misure straordinarie (il ricatto dei documenti ottenuti da Numan) per momenti straordinari (la detenzione illegittima di Faisal). Homeland decide così di fermarsi e di guardare il quadro nel suo complesso, per dimostrare come sia facile, anzi facilissimo, cedere agli “estremi rimedi” quando si crede che sia necessario; ed è così che Laura finisce col mettere in ginocchio il governo con una minaccia che, lungi dall’essere innocua, avrebbe anzi la terribile conseguenza di aprire più Stati a vulnerabilità delle quali qualunque terrorista potrebbe approfittarsi. E quindi: salvare un innocente come Faisal vale l’ipotetica uccisione di centinaia di esseri umani in potenziali nuovi attentati?
You’re damaged goods.


È tuttavia innegabile che, tolte queste ingenuità, l’operazione porti a risultati più che sufficienti, soprattutto nel momento in cui Carrie decide di recarsi comunque alla stazione seguendo il suo istinto; certo, forse avremmo fatto a meno di scene costruite ad hoc come quella del cellulare che non prende, ma se guardiamo al discorso generale descritto fino a qui non è difficile inserire anche questa scena nell’ottica di “quello che siamo diventati” a seguito del terrorismo: persone diffidenti nei confronti del prossimo, pronte a liquidare chiunque chieda aiuto per paura che si tratti di qualcuno che, in un modo o nell’altro, possa essere pericoloso.
La puntata termina con diversi punti di domanda, che ci conducono dritti al finale. Cosa farà Carrie ora che sta entrando nel tunnel? Che conseguenze avrà la fuga di Allison, scoperta da Saul? I dubbi di Qasim, che non porta a termine la sua parte della missione, a cosa condurranno?
Non è possibile dire che questa stagione di Homeland sia quanto di meglio la serie è stata in grado di offrire, e anzi, la discontinuità dei suoi risultati è probabilmente il suo difetto più grande. La costruzione della strada per il finale, al netto di tutta la parte su Allison e di qualche ingenuità, è stata ben gestita e di sicuro c’è grande attesa per il finale della stagione. Di certo, però, il merito più grande di una puntata come questa non si trova nel plot, quanto nelle tematiche sollevate: i difficilissimi dilemmi morali che viviamo costantemente ci vengono sbattuti in faccia insieme alle conseguenze che possono avere da entrambi i lati, senza offrire risposte ma anzi alimentando l’ambiguità di qualsiasi tipo di soluzione. E non bisogna mai sottovalutare, né dare per scontato, uno show in grado di farci riflettere sui nostri tempi in questo modo.
Voto: 8
Nota:
– Il titolo, “Our Man In Damascus”, è un riferimento al libro “Our Man in Damascus: Eli Cohn” di Eli Ben-Hanan, che racconta la storia di Eli Cohn, agente segreto israeliano riuscito, nel 1960, ad infiltrarsi in Siria arrivando ai massimi livelli – un evidente riferimento ad Allison.

Sono sostanzilmente d’accordo con la recensione di Federica. La puntata ha un ritmo rapido, adrenalinico e coinvolgente, ma la storyline di Alison è decisamente irreale e implausibile e, inoltre, fa fare una figura da polli a Saull, Dar Adal e a tutti gli agenti della Cia. Le sottotrame tendono a convergere nell’attacco chimico alla metropolitana di Berlino (sperando che gli jihadisti non ne prendano spunto per un vero attentato), ma la sospensione dell’incredulità richiesta allo spettatore è, a tratti, decisamente troppo alta e rischia di mortificare una stagione che, nei suoi alti e bassi, ha offerto una narrazione discretamente avvincente.