Dopo soli due episodi, Billions è già stata rinnovata per una seconda stagione, e la fiducia che Showtime ha nella sua nuova creatura è di certo un incoraggiamento per continuarne la visione. Siamo solo all’inizio, ma ci sono già molti elementi positivi di cui parlare e altrettante zone d’ombra che lasciano perplessi – e questo aspetto di complessità è l’altro incentivo per andare avanti.
Sin dal pilot, Billions è partita come una serie che non vuole sbagliare nulla e lo mette bene in chiaro cercando di costruirsi una base solida, nonché di sicuro richiamo per il pubblico: sceglie un cast d’eccezione, ritmo veloce nel raccontare e un’ambientazione sicuramente affascinante che, nonostante le mille rivisitazioni, i punti di vista e le storie che hanno provato ad inquadrarla, rimane ancora un essere mitologico dai mille volti. La serie creata da Brian Koppelman e David Levien punta soprattutto su una visione generalista e sistemica della finanza, cioè senza la volontà di sviscerare la materia (almeno per il momento), ma provando ad usarla come lo sfondo contemporaneo per una riflessione dei confini tra bene e male.
1×02 – Naming Rights
Quindi l’impressione che persiste anche in questi due nuovi episodi è la volontà della serie di essere ben strutturata, misurata al millimetro in ogni minima mossa grazie a dialoghi, situazioni ed incastri cuciti alla perfezione, pensata per personaggi da manuale e con una tridimensionalità praticamente già definita. Billions è insomma una sorta di “prima della classe” e in questo si vede anche il suo primo limite: è così evidente in alcuni passaggi la voglia di essere impeccabile che molte volte rischia di essere solo una caricatura di quello che vorrebbe davvero essere. Ma se appunto il primo episodio metteva in risalto queste perplessità, “Naming Rights” arriva invece a ricalibrare il nostro interesse, a mettere in pieno risalto le grandissime potenzialità della serie e a farci capire cosa vorremmo vedere sullo schermo: imprevisti. Il momento in cui arriva un inaspettato controllo da parte della SEC (The U.S. Securities and Exchange Commission) alla Axe Capital sospettiamo subito che la situazione non sia così semplice, ma il secondo twist in cui Bobby rivela la sua messinscena ai collaboratori riesce a spiazzare comunque lo spettatore e a rendere meno prevedibili situazioni del genere. Perché è qui il problema: è come se, ad ogni passo, vedessimo costantemente il canovaccio che c’è dietro e questo fa sì che, per quanto sia facile apprezzare cosa stiamo vedendo, allo stesso tempo quel cosa non stupisca mai fino in fondo; ecco perché questi elementi, queste schegge che riescono a rompere lo schema, fanno apprezzare di più la serie.
Altra variabile positiva e che speriamo si imponga come terzo pilastro è il personaggio di Wendy che, oltre ad avere un’attrice straordinaria come Maggie Siff a darle volto e corpo, è la variabile più imprevedibile e il personaggio con più potenzialità che Billions abbia inserito nella sua meticolosa mappa. Il primo merito è sempre architettonico e sta nell’averla voluta come punto equidistante tra Bobby Axelrod e Chuck Rhoades, collaboratrice di lunga data per il primo e moglie del secondo, e facendone così l’esempio per antonomasia del conflitto di interessi, materialmente ma soprattutto moralmente. Se nel pilot veniva fuori in tutta la sua forza e nella caparbietà con cui sa difendere se stessa dagli attacchi di entrambi gli uomini più influenti della sua vita, in questo secondo episodio le sue relazioni diventano più sfumate, piene di interrogativi e non così facilmente inquadrabili; non a caso l’esempio migliore è il momento di faccia a faccia tra lei e Bobby.
Dopo il bel momento di messinscena con la finta ispezione, il personaggio di Damien Lewis sprofonda per qualche minuto nel cliché del pissing contest: licenzia come esempio per la popolazione uno dei suoi trader migliori e toccherà a Wendy andare a sedarne la rabbia, ricordandogli che un rapporto con Bobby Axelrod non termina praticamente mai. Ed è qui che Wendy e di conseguenza l’intero episodio prendono tutt’altro spessore, trasformando il match tra maschi alpha in una sorta di campionato mondiale, dove nessuno può dirsi salvo. Chiunque è messo alla prova da Bobby e nessuno può vantare rapporti privilegiati o di favore con lui, perché in un modo o nell’altro tutti devono sempre guadagnarsi un posto al suo fianco, esattamente come ha fatto lui per tutta la sua infanzia: ha dovuto lavorare sodo per arrivare ad essere chi è oggi. Perciò la voglia di dare il proprio nome ad un luogo – a quello e non ad un altro qualsiasi –, e riuscirci grazie ai suoi soldi, è la prima, grande affermazione di sé (molto più che con la casa sulla spiaggia), perché in questo gesto c’è anche il pieno sapore della rivincita del self-made-man che batte la facile eredità di una qualsiasi famiglia alto-borghese.
1×03 – YumTime
Ad uno sguardo superficiale, lo US Attonery Chuck Rhoades dovrebbe essere la controparte di Bobby, il suo opposto speculare: il bene e il male perfettamente contrapposti, da un lato la giustizia e dall’altra parte il crimine, l’illegalità. In realtà questa netta opposizione renderebbe la serie solo irreale, perché bene e male non sono due forze che esistono in maniera assoluta, ma sono facilmente corruttibili e si influenzano tra di loro tanto da non poter mai definire un vero e proprio limite. E Chuck ne è l’esempio perfetto: nato da una benestante ed influente famiglia, crede fermamente in quello che fa e nella ricerca della giustizia sopra ad ogni cosa, nonostante i paradossi (l’incontro con una delle sue “vittime” nel secondo episodio ne è la crudele rappresentazione) e i conflitti che si vengono a creare soprattutto a causa dei suoi natali.
Infatti “YumTime” si focalizza maggiormente su questo aspetto, ma rispetto all’episodio precedente purtroppo è un vero e proprio passo indietro, che si macchia di fin troppe ingenuità e lo fa soprattutto quando entra in gioco il personaggio interpretato da Paul Giamatti. In “Naming Rights” si sentiva in ogni momento la gravità di ciascun frangente e di come potrebbero esserci moltissime conseguenze a quanto accaduto; qui invece, tutto il meticoloso giro di giostra organizzato da Bobby per colpire indirettamente Chuck si chiude invece attorno ad un’unica e misera partita, fatta ancora di vendette dal passato. Quando Bobby entra in azione per se stesso funziona, quando si prova ad allargare il tiro e ad entrare nel merito del conflitto tra i due uomini, ecco che tornano le problematicità viste nel pilot e tutto viene schiacciato sulla superficie del già citato pissing contest, dove accade la cosa peggiore: i due vengono polarizzati e messi di fronte, perdendo così tutte le sfumature. Infatti Bobby ne esce come un bimbo arrabbiato che, grazie ai miliardi accumulati, va un in giro a riscattare quello che gli è stato negato nell’infanzia, mentre Chuck come un uomo che prova a perseguire il bene e la giustizia nonostante tutto e tutti, ma che inevitabilmente si ritrova impigliato nei suoi stessi paradossi. Il problema è che, per quanto sulla carta questo conflitto interiore sia potenzialmente interessante, ne vediamo di fatto solo un’ombra, un qualcosa che non ha ancora una vera consistenza, ma rimane solo nel mondo della metafora (la passeggiata con il cane che apre e chiude l’episodio).
La sensazione è quindi che manchi molto coraggio nel rendere davvero interessante il personaggio di Chuck, o almeno che manchi quel coraggio di sottintesi che invece continua a collezionare soprattutto Wendy, che nuovamente possiamo eleggere come migliore personaggio dell’episodio: in lei il conflitto, la voglia di fare ma non potere fino in fondo, l’intelligenza di riuscire lo stesso ma mettendosi sempre più scomoda sul filo del rasoio, sanno di bomba ad orologeria pronta a scoppiare – ma non sappiamo quando. Ed è ciò che vorremmo infatti vedere anche per tutti gli altri protagonisti, invece che assistere ad una brutta versione di Mean Girls da country club, dove due signorotte si sfidano a chi ha più influenza in giro per le palestre e le università degli States – diventando così solo la brutta copia di quello che accade nel campionato dei grandi (per non dire, in maniera sessista, degli uomini – perché sì, c’è anche questo aspetto).
Insomma, Billions ha davvero tutte le carte in regola per essere il nuovo grande dramma da aspettare nel fine settimana, perché al suo interno c’è tutto e con in più il vantaggio di parlare di un ambiente che è lo specchio per eccellenza della contemporaneità, dove non si vince solo con la casa più grande o la macchina più alla moda, ma soprattutto con le idee, con la capacità di influenzarle e con l’astratto. Il grande quesito che però rimane immutato dopo tre episodi è se la serie riuscirà davvero ad usare tutto il suo potenziale, provando di essere non soltanto un bell’esercizio di stile.
Voto “Naming Rights”: 8
Voto “YumTime”: 6,5