Giunti al quindicesimo episodio di una stagione altalenante e non proprio soddisfacente, “Targets” si configura come una puntata pienamente rappresentativa delle due anime di The Good Wife: quella dell’ottima serie che è stata e quella di ciò che è diventata, soprattutto in questa stagione.
.
La sensazione generale, giunti a questa ormai ultima annata, è che si sia faticato a capire che direzione far intraprendere non solo ad Alicia (cosa che sarebbe stata legittima oltre che plausibile), ma anche a molti dei personaggi, che navigano in acque poco chiare dall’inizio della stagione: e se l’imprevedibilità può essere un elemento a favore di una serie, non lo è quando ciò che ne emerge è confusione e apparente no-sense.
Si prenda a questo proposito la Lockhart,Agos&Lee, uno studio gestito da tre personaggi che, seppur in maniera diversa, hanno alle loro spalle momenti gloriosi nella serie; Diane, in particolare, è stata rappresentante insieme a Will di una delle coppie lavorative seriali più soddisfacenti di sempre, complice il legame amichevole ma mai scontato tra i due.
Cosa rimane di questo studio? Mettendo da parte i molteplici e inutili cambi di guardia, di cui si è già ampiamente discusso, qual è l’eredità che questa firm lascia alla serialità televisiva? Un covo di serpi, per lo più vecchie (e non si parla necessariamente di età), pronte a guardarsi alle spalle per tutto il tempo: e se detta così la questione può anche avere un suo discreto fascino, alla resa dei conti – come in questa puntata – appare come una totale e assoluta perdita di tempo. Con così pochi episodi che ci separano dalla fine, era davvero necessario dedicare così tanto spazio ad una questione logora e stantia come quella di un ipotetico (e nuovo) cambio di gerarchie, per di più basato su una concezione di uno studio al femminile che ad oggi non avrebbe alcun senso? Ad oggi, certo, perché qualche tempo fa la complicità tra Alicia e Diane aveva potuto far pensare a qualcosa di simile; ma, come lo scorso episodio ci ha ricordato (e anche bene), il rapporto tra le due non è più quello di una volta. Appare quindi difficile che questa supposizione possa avere anche solo una parvenza di fondamento; rimane l’opzione che sia stata usata solo per mostrare il livello sempre più tangibile di paranoia interno alla firm, ma, di nuovo, non se ne sentiva il bisogno. A meno di qualche capovolgimento da qui alla fine, questa puntata non fa altro che confermare il triste destino di uno studio che è stato un tempo sede di scene e casi memorabili, la cui forza nostalgica trapela di continuo proprio dal deprimente confronto con il presente.
Tom is a service animal.
He’s an emotional support chihuahua.
Per fortuna il resto della puntata viaggia su tutto un altro livello. Certo, non ci sono apparenti novità con il ritorno dell’NSA e l’indagine su Peter, ma, come vedremo, nonostante una trama forse un po’ macchinosa il risultato si sta dimostrando convincente e, soprattutto, imprevedibile nel senso giusto del termine.
Partiamo quindi dal grande ritorno di questa puntata, una Elsbeth Tascioni il cui valore in questi anni è stato proprio nella misura centellinata con cui ci è stata offerta (ed è per questo che uno spin-off, di cui si vocifera da qualche tempo, potrebbe fare più male che bene). Il suo intervento e il conseguente conflitto di interessi di cui si trova vittima gettano le basi per una trama molto più complessa di quanto avessimo previsto, ma regalano al contempo un po’ di quella sana ironia che i King hanno saputo offrirci in più occasioni; l’inserimento dell’ex marito Michael, unito alle sempre apprezzatissime macchinazioni di Eli, conferiscono a questa sezione della puntata – che si muove su binari abbastanza noti – una variazione sul tema, risultando soddisfacente e sufficientemente intrigante. È da notare come Michael Tascioni (Will Patton) sia uno (tra gli ultimi, per ovvi motivi) rappresentanti di una delle più grandi eredità di The Good Wife, ossia la capacità stupefacente dei King e della loro squadra di conferire caratteri diversi e caratteristiche specifiche a personaggi nuovi in pochissime pennellate: un’abitudine mai scomparsa ma che si è un po’ sbiadita con gli anni, e che fa sempre piacere ritrovare.
“What material has he provided?”
“Bodies… you asked how he materially supported the enemy.
He’s supplied the bodies for the bombs.”
Nonostante la discutibile scelta di portare Alicia lontana per tutto un episodio da quell’ufficio a cui è appena tornata (lasciando da sola Lucca, ridotta a mero megafono della folle situazione alla L/A&L), il caso di cui la donna si occupa per il Pentagono è uno di quelli che abbiamo aspettato per parecchie puntate. Sappiamo tutti quanto i King siano al passo con i tempi, a volte forse anche oltre; era quindi solo questione di tempo prima che si trattasse, in un modo o nell’altro, una vicenda correlata all’ISIS. Come sempre viene scelto un punto di vista originale e mai scontato, in cui alla già complicata questione relativa alla motivazione per uccidere un uomo che non ha (ancora) effettivamente fatto nulla, si aggiunge quella della cittadinanza.
C’è tuttavia qualche macchia in questo racconto, che pure ha – e si vede – le migliori intenzioni: il modo con cui viene rappresentato, la rapidità con cui viene liquidato (la notizia della morte di Tahan di cui siamo informati quasi per sbaglio, tra una scena e l’altra), e soprattutto il ruolo strumentale che assume per arrivare alla questione NSA, sono tutti fattori che depotenziano il valore di un argomento del genere. Le riflessioni poste non sono certo di poco conto (basterebbe il concetto di “imminente” applicato ai giorni nostri per descrivere i tempi bui che stiamo vivendo e al contempo l’arbitrarietà di scelte che hanno un peso altissimo); pur non essendo stata di certo un’occasione persa, appare tuttavia come un’opportunità non sfruttata del tutto.
La vicenda NSA subisce di conseguenza questo collegamento, ma, si sa, la nota Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana è sempre stata introdotta in modo bizzarro all’interno della narrazione, forse proprio a sottolineare l’impossibilità di incasellare in un racconto ben preciso un’entità onnipresente e tuttavia inafferrabile per sua stessa natura. Nonostante tutto, la rappresentazione dell’NSA attraverso alcuni suoi collaboratori (tra cui spicca sempre l’ottimo Michael Urie) continua a funzionare, ed in questo acquisisce ancora più interesse se correlata alle vicende dell’indagine dell’FBI in corso: come si intersecheranno queste due sezioni? Quali ripercussioni ci saranno sui Florrick e su Alicia in particolare? Potrebbe accadere di tutto, e questa volta pare davvero qualcosa di positivo: vedremo se The Good Wife sarà in grado di sfruttare queste ultime occasioni per mettere a segno ancora qualche punto importante.
“Targets” risulta un episodio in deciso miglioramento rispetto alla media di questa stagione, che in generale ha purtroppo riservato ben pochi motivi per gioire. La decisione stessa di portare avanti il rapporto tra Alicia e Jason in un modo leggero eppure non sciocco – “You want things simple, I want things simple, too” – si inserisce bene in un episodio strutturato, ricco e potenzialmente importante per la conclusione della serie. Spiace constatare come accanto a questi elementi permangano dei difetti di cui The Good Wife sembra non riuscire a disfarsi nemmeno ad un passo dalla fine: tuttavia se la media di queste ultime puntate sarà come quella di questo episodio, potremo concludere questo viaggio di certo senza particolari entusiasmi, ma anche senza grandi rimpianti.
Voto: 7/8
– Seguite The Good Wife Italia su Facebook per aggiornamenti sulla serie.