A un passo dal finale, possiamo iniziare a tirare le somme di quella che forse è stata l’annata più discontinua – e deludente – di You’re the Worst, in bilico tra ottimi spunti e una realizzazione quasi sempre lontana dai fasti della passata stagione.
L’intenzione di creare un racconto speculare che, a fronte del riuscitissimo focus su Gretchen e la sua malattia dell’anno scorso, avesse come fulcro l’approfondimento di Jimmy, mantenendo al tempo stesso un tono più corale, non ha infatti portato i risultati sperati, complice una scrittura inspiegabilmente poco a suo agio con la gestione dei diversi registri della narrazione.
In quest’ottica i due episodi, pur rappresentando un deciso passo avanti rispetto a ciò che li ha preceduti, si portano inevitabilmente dietro tutti i difetti che hanno caratterizzato il percorso dei personaggi fino ad ora, inficiandone in parte la riuscita. Il fil rouge di questa stagione sembra infatti essere rappresentato dalla ricerca di una maggiore consapevolezza di se stessi, dei propri difetti e dei propri desideri, che ha coinvolto tutti protagonisti – da Jimmy a Paul – e che qui finisce col mostrare tutti i suoi limiti, portando tutte le relazioni a un punto di rottura.
Se la scelta di ricondurre l’origine – vera o presunta – dei problemi esistenziali di Jimmy e Gretchen al rapporto con i rispettivi genitori continua a tradursi in una rappresentazione spesso superficiale del loro disagio, sbilanciata verso la ricerca della risata a tutti i costi (pensiamo alla competitività di lei o alle continue invettive contro il padre di lui), con “Talking to Me, Talking to Me” inizia finalmente a emergere con una maggiore incisività quanto la crisi vissuta da entrambi sia tutto fuorché vicina a una risoluzione e come questa non possa non avere delle ricadute sulla loro stabilità sentimentale.
Mentre Gretchen è alle prese con una fallimentare ricerca della mindfulness che ha come momento più alto gli insegnamenti di Lindsay sul vivere qui e ora, Jimmy, dopo aver vissuto l’ennesima epifania legata alla scomparsa del padre, giunge a mettere in dubbio la totalità delle sue scelte, divenendo il principale artefice della crisi di coppia che investe lui e Gretchen. L’espediente della lista dei pro e contro risulta azzeccato non solo perché perfettamente in character, ma per anche per il modo in cui fa da collante alle due anime dello show, riuscendo così ad armonizzare momenti comici (ad esempio la scena d’apertura, in cui Jimmy elenca i pregi e i difetti di sciarpe e pinzatrici) e un finale dalla forte portata emotiva, in cui la confessione di Jimmy colpisce come un pugno allo stomaco non solo Gretchen ma anche lo spettatore. L’inconsapevole spietatezza di Jimmy, frutto di un egocentrismo che continua a impedirgli di vedere al di là di sé, distrugge l’ostentata e artificiosa sicurezza mostrata dalla donna, spogliandola dell’illusione di aver finalmente capito come si sta al mondo. Pur essendo per certi versi una scelta prevedibile, la crisi tra i due riesce quindi a dare compattezza e spessore ai loro rispettivi archi stagionali, facendoli finalmente convergere in maniera convincente.
Al contrario, le vicende di Lindsay e di Edgar stentano ancora a riacquistare questa organicità, restando vittime delle esigenze comiche e narrative della serie. La decisione di Lindsay di abortire rappresenta forse la più grande occasione sprecata dello show, che in un colpo solo riesce a gettare alle ortiche l’enorme potenziale che la rappresentazione dell’aborto come una reale alternativa alla gravidanza – rarissima nei prodotti statunitensi – portava con sé. Senza dimenticare che, in fin dei conti, stiamo parlando di una comedy, è infatti innegabile che quello che avrebbe dovuto rappresentare un vero e proprio momento di svolta per il personaggio di Lindsay finisce con il rimanere soffocato dalle esigenze comiche e di approfondimento della figura di Gretchen.
L’impressione è che, dopo averci fatto scorgere un’inaspettata tridimensionalità, gli autori tornino a concentrarsi unicamente sul potenziale comico di Lindsay (pensiamo ad esempio alla scena alla tavola calda o all’accordo prematrimoniale) senza preoccuparsi, almeno per il momento, di far dialogare questa scelta con il desiderio di famiglia che l’ha preceduta e privandola così totalmente di qualsiasi peso. Più difficile da interpretare è invece la scelta degli autori di concentrarsi sulla crisi lavorativa, e non solo, di Dorothy, che negli ultimi episodi ha avuto come conseguenza l’appiattimento del personaggio di Edgar; quest’ultimo, dopo essere stato protagonista dell’episodio più riuscito della stagione, avrebbe forse meritato maggiore spazio e non una risoluzione – anche se momentanea – così frettolosa.
Una menzione a parte va infine all’ottima regia di Wendey Stanzler dell’undicesimo episodio, in cui i lunghi piani sequenza, lungi dell’essere una mera esibizione virtuosistica, riescono a comunicare in maniera efficacissima il senso di disorientamento che accomuna e lega tutti i protagonisti, oltre che a donare al racconto un ritmo sostenuto che giova anche ai tempi comici. A rendere ancora più incisivo il tutto troviamo poi il ritorno all’ambientazione nuziale del pilot, perfetta cassa di risonanza dei sentimenti dei personaggi in grado di veicolare un senso di chiusura che lascia intuire l’imminente arrivo di cambiamenti radicali.
In definitiva “Talking to Me, Talking to Me” e “The Inherent, Unsullied Qualitative Value of Anything” dimostrano che lo show di Falk, nonostante una stagione appannata e qualitativamente disomogenea, non ha ancora esaurito del tutto il suo potenziale, facendo ben sperare per un season finale in grado di risollevare, almeno in parte, le sorti di questa annata.
Voto 3×10 “Talking to Me, Talking to Me”: 6,5
Voto 3×11 “The Inherent, Unsullied Qualitative Value of Anything”: 7/8