Per una serie dallo stampo antologico come Inside No. 9, arrivare alla terza stagione mantenendo la stessa ottima qualità delle prime due non è affatto un’impresa facile: in quanto show fortemente ancorato all’originalità della narrazione diventa sempre più macchinoso continuare a reinventarsi, ma Pemberton e Shearsmith sembrano esserci riusciti per l’ennesima volta.
Del resto i rischi non erano pochi, visti gli occasionali passi falsi della scorsa annata e il calo di Black Mirror a cui abbiamo assistito solo pochi mesi fa, a dimostrare come perfino i più grandi contenitori di idee e spunti tematici possano scontrarsi con alcune difficoltà – siano esse negli sviluppi o nel concept stesso del racconto in questione. Inoltre, la struttura ricorrente di Inside No. 9 (l’ambientazione che è sempre un interno, la necessità di convergere spesso al plot twist conclusivo) è accompagnata da un inevitabile rischio di ripetersi perdendo il senso di freschezza degli inizi, con la possibilità che le soluzioni proposte non siano altro che una versione alternativa di quelle già viste in precedenza; è per questo che aprire la terza stagione con uno special natalizio è stata senz’altro un’idea riuscita, anche se le ragioni per cui l’episodio funziona non si fermano di certo a tale motivo.
Come già accaduto con “Cold Comfort“, lo spaesamento dello spettatore arriva subito a causa di una scelta registica particolare: un uso della multi-camera da serie BBC degli anni Settanta introduce una storia volontariamente forzata e posticcia, una sorta di versione antiquata dei racconti che sono soliti uscire dalla penna di Pemberton e Shearmith. Dopotutto, gli elementi ci sono tutti: l’arrivo in una location nuova ed estranea (la famiglia è inglese, in vacanza in Austria), l’inquietudine provocata da un qualche tipo di mito o racconto (in questo caso, la tradizione di Saint Nicholas e del Devil of Christmas), la progressiva realizzazione di tale paura, il twist conclusivo (in questo caso doppio).
Se la storia fosse rimasta quella raccontata nel primo piano della narrazione, “The Devil of Christmas” sarebbe stato uno special del tutto credibile: un po’ troppo scolastico e prevedibile, certo, dato che le svolte previste fanno parte, si diceva, di una struttura che siamo fin troppo abituati a riconoscere come normale, ma proprio per questo nessuno avrebbe potuto invocare l’assurdità di quello che ci viene mostrato. Fermarsi a tal punto, insomma, sarebbe stato un po’ giocare sul sicuro.
Ma ecco che, a pochi minuti dall’inizio (a dire il vero fin dalla primissima inquadratura) viene introdotto il secondo piano, quello metatestuale ed extradiegetico, in cui l’elemento più satirico dello show prende il sopravvento e comincia a scorporare e spiegare tutti gli aspetti produttivi del racconto in questione; curioso come una scelta del genere arrivi proprio nella chiusura del 2016, un anno in cui il tema è stato sviscerato più e più volte (Westworld e American Horror Story, per citarne due). In ogni caso, la scelta risulta certamente azzeccata e ben sviluppata: a parte per gli spunti comici offerti (le lamentele verso la troupe che sbaglia a posizionare il quadro, la descrizione della scena della cena in famiglia), quello che si viene a creare è appunto un altro strato del racconto, in cui i personaggi non sono più quelli interpretati dagli attori ma gli attori stessi, esseri umani che gli autori riescono a caratterizzare con pochi semplici passaggi (l’interprete che ha fretta di recitare perché ha un altro provino, l’attrice che invece ne è gelosa e rallenta tutto).
Nascono così due tipi di personaggi: quelli falsi, presi in giro ed iperbolicamente bidimensionali della fiction (dopotutto, è la televisione degli anni Settanta) e quelli più umani e realistici che li interpretano. La lettura interessante che ne consegue sta nella riflessione sul concetto di artificio, sul fatto che gli individui che risaltano perché più veri e sfaccettati di quelli che interpretano sono personaggi a loro volta, creazioni di un’altra mente ancora (Pemberton e Shearsmith) che mette in scena, quindi, il proprio ruolo in un gioco di scatole cinesi dai grandi spunti tematici. È anche per questo che si riesce a sfuggire l’insidiosa sensazione di “già visto”: lo svolgimento dell’episodio nasconde una parodia della produzione televisiva e della serie stessa, ragionando con la maturità che solo una serie alla sua terza stagione può permettersi senza, per questo, perdere di vista il primo piano del racconto.
Si arriva infine alla parte conclusiva dell’episodio, in cui il narratore ci accompagna nel doppio colpo di scena in chiusura della storia (in pieno stile Inside No. 9) e il racconto pare finito, archiviato; dopotutto, l’operazione presentata all’inizio della puntata si è conclusa, entrambe le storie (quella della produzione e quella interna alla fiction) hanno visto il loro epilogo e pare non ci sia più niente da dire. Ed è esattamente in questo momento, dopo aver tranquillizzato anche il più vigile degli spettatori, che Pemberton e Shearsmith si inseriscono nuovamente con un’ulteriore svolta narrativa, un gioco di prospettive che in una manciata di secondi ribalta l’intera struttura messa in piedi fino a quel momento e pone il tutto sotto una luce ben più macabra.
Si potrebbe ribattere che spesso i plot twist della serie abbiano il mero obiettivo di far saltare sulla sedia il pubblico, che siano dei semplici giochi fini a se stessi e spesso privi di un ulteriore significato; è una critica comprensibile e talvolta giustificata, certo, ma in questo caso è davvero difficile trovare qualcosa da ridire sulla conclusione dell’episodio. Una volta appurato che Inside No. 9 è, in effetti, uno show incline al ribaltamento della narrazione e delle prospettive messe in scena in ogni episodio, non si può non apprezzare la maestria con cui gli autori riescono a dissacrare il genere horror per poi renderlo più tangibile che mai con un semplice passaggio narrativo; e, se si può ancora parlare in un certo senso di “giocare” col racconto, non si può negare che si tratti di un gioco meravigliosamente gestito, che nasconde dietro lo spavento del momento una costruzione ed un lavoro sul genere di altissimo livello.
Comincia quindi con una piacevolissima sorpresa la terza annata di Inside No. 9: si potrebbe pensare che una serie antologica di questo tipo abbia esaurito il suo potenziale dopo due ottime stagioni, ma Pemberton e Shearsmith hanno senz’altro fatto il possibile per rassicurarci del contrario. Certo, un inizio di questo tipo non può garantire in assoluto per i restanti episodi, ma di sicuro ha dimostrato che il talento tutto british degli autori nasconde ancora delle grandissime potenzialità da sfruttare.
Voto: 8½
Prima di tutto, recensione davvero bella e centrata sui punti chiave, è stata un piacere leggerla. Per quanto riguarda l’episodio, un inizio del genere aumenta così tanto le aspettative per il futuro che forse era meglio iniziare un po’ meno bene. Oppure le prossime saranno altre bombe e va bene così. Non aggiungo niente perché hai detto tutto tu nella rece. Inizio davvero ottimo.
Grazie mille Davide! 🙂
In effetti è vero, un inizio così riuscito dà alla stagione l’inevitabile rischio di deludere le aspettative: io, ahimé, rimango dell’idea che se Pemberton e Shearsmith non riescono a distaccarsi dalla solita struttura con plot twist finale i prossimi 5 episodi non potranno che nascondere qualche passo falso (come avvenuto nella scorsa stagione, nonostante alcuni picchi molto alti). Il problema è che una struttura così ricorrente e in qualche modo prevedibile nella sua imprevedibilità nasconde tante, tantissime insidie; d’altra parte, però, questa premessa valeva anche per questo speciale di Natale, che è riuscito ad aggirare i rischi con grandissima eleganza. Insomma, mi sembra abbastanza sicuro dire che non tutto è perduto. Vedremo!