Chibnall deve aver pensato bene di far fare alla sua serie, questa Broadchurch alla sua ultima stagione, il grande salto di qualità allontanandosi da un racconto “poliziesco” canonico ed andando ad affrontare una costellazione di temi di grande impegno e delicatezza.
Quando si arriva all’ultima annata di una serie che consiste, in realtà, di tre sole stagioni, si dev’essere pronti a correre il rischio e giocare le proprie carte migliori per far sì che quanto raccontato finora possa trovare una chiusura all’altezza dell’esperienza breve ma – si spera – intensa. Chibnall, l’autore principale, ne è ben consapevole e sembra conoscere le regole del gioco: senza dubbio, infatti, questa terza annata di Broadchurch è quella più ambiziosa di tutte, che si porta dietro il peso di doversi riprendere da una serie di passi falsi che hanno caratterizzato lo scorso anno e sui quali, ragionevolmente, non torneremo in questa sede.
In che modo, dunque, gli autori stanno conducendo la partita? Prima di tutto, si è deciso di muoversi lungo una nuova direttrice che, pur non essendo assolutamente nuova nel panorama televisivo tout court, è pur sempre una boccata d’aria fresca in un genere, quello poliziesco, che ormai da anni ha anestetizzato il proprio pubblico che passa da un cadavere all’altro senza sentirne più i contraccolpi a livello umano. Se il primo anno si era scosso lo spettatore con la morte di un bambino ed i vergognosi ed oscuri sospetti che serpeggiavano all’interno di una ristretta comunità, stavolta è il turno di un possibile stupratore seriale da anni in attività, la cui ultima vittima non è altro che una donna normale e madre di famiglia.
È proprio questo punto di partenza l’aspetto più interessante del discorso sino a questo momento: se la coppia Miller-Hardy è infatti di nuovo insieme alle prese con le investigazioni e la necessità di risolvere un nuovo caso, stavolta si ha a che fare con qualcosa di più subdolo e che soprattutto apre ad un mondo di implicazioni parallele che vale davvero la pena affrontare.
A partire dal finale del quarto episodio, infatti, diventa sempre più palese che i casi di stupro con cui i due investigatori si trovano a fare i conti aumenteranno ulteriormente: dal singolo episodio, deprecabile ma in qualche modo “rassicurante” (mi si passi il termine) all’interno di una società, proprio in quanto evento circoscritto, ad un vero e proprio stupratore seriale (ma sarà davvero così? E se i casi fossero più di uno, indipendenti tra loro nonostante le evidenti somiglianze?). L’idea dunque di un predatore all’interno del gregge del piccolo villaggio della provincia inglese richiama ancora una volta la vicenda di Joe Miller. La differenza, però, stavolta è sostanziale: perché se nessuno può avere alcun dubbio sulla crudeltà dell’omicidio di un bambino e/o sul sospetto di un caso di pedofilia, ben diverso è ciò che accade quando al centro dell’attenzione è un caso di stupro.
Ecco, dunque, la novità necessaria rispetto al racconto fatto sinora: questo caso non è solo una vicenda poliziesca da una trama intricata ma affascinante da seguire (le varie svolte hanno quel sapore di thriller da cui la serie non può che trarre giovamento), ma è soprattutto uno sguardo sulle ipocrisie della società contemporanea che si ritrova ancora ed ancora a non considerare le violenze, fisiche e morali, subite da una donna con la giusta serietà e la severità necessaria. Il fenomeno dello slut-shaming, una delle più aberranti tendenze con cui troppe volte ci si ritrova a dover fare i conti in casi come questo, ritorna nella dichiarazione della donna che non ha avuto il coraggio di denunciare il proprio stupro per il timore del giudizio altrui.
La sua colpa sarebbe stata quella di essere ubriaca e magari disinibita, come se l’alterazione del proprio stato psicofisico ed il modo in cui sceglie di vestirsi possano davvero essere considerate delle attenuanti. L’intelligenza autoriale, dunque, è in primo luogo quello di gettare una più forte luce sul tema, stando ben attenta a non banalizzare l’argomento attraverso una drammatizzazione eccessiva; anzi, le parole di Laura non fanno altro che confermare quanto in profondità una violenza fisica possa penetrare nell’animo di una donna che, anche due anni dopo, non può e non riesce a lasciarsi dietro le spalle quanto subito. E certo non è d’aiuto il rendersi conto che la società intorno, pur senza avere il coraggio di ignorare il suo stato, ha pur sempre la vergognosa tendenza a chiudere un occhio e a trovare motivazioni per far sentire la vittima un po’ meno vittima agli occhi generali. Se poi a questo aggiungiamo che la prima vera messa in discussione della veridicità dello stupro viene avanzato da una donna, il quadro è completo ed ancor più generale perché va a coprire uno spettro umano più ampio e più complesso di quanto inizialmente creduto.
Il tema, però, risulta essere nel quinto episodio ancora più complesso ed approfondito di quanto s’era ritenuto sino a questo momento: la vicenda della figlia di Hardy apre infatti a quella che è un’altra forma riprovevole di violenza nei confronti di un essere umano, come al solito più frequente ai danni di una donna. La diffusione, in modo speciale tra gli adolescenti, di immagini private ed intime fatte girare attraverso i social network è qualcosa di estremamente attuale e degno di un’attenzione vigile. La fuga o il furto di immagini e video personali senza il proprio consenso è un argomento di strettissima attualità (e purtroppo anche drammatica, a volte), ed è l’ennesima dimostrazione di come ci si muova oggi con estrema leggerezza in un ambito così personale ma dai risvolti così pericolosi. Il tema al momento è solamente accennato e non è chiaro come ci si vorrà muovere – ma non è un caso l’aver fatto vedere gli amici della ragazza, simbolo che probabilmente tra di loro si troverà chi ha diffuso quelle immagini –, ma l’argomento merita tutta la considerazione, in una stagione che sta concentrando le proprie attenzioni sulle storture e le ipocrisie della società contemporanea, tanto più in una società ristretta – e dunque perfetta come esemplare – com’è quella di Broadchurch.
Nel frattempo, però, si porta avanti, con maggior calma, anche il filone narrativo più strettamente legato agli anni passati e che riguarda, ancora una volta, Joe Miller e la morte del piccolo Danny. Mark Latimer è quello intenzionato a farsi vendetta da solo ed è ormai in possesso della precisa informazione su dove si trovi l’aguzzino del figlio. Questa parte narrativa è al momento il più chiaro collegamento con quanto raccontato nelle stagioni precedenti, con quel caso mai del tutto compreso e risolto; il problema è che non sembra al momento saper dire qualcosa di nuovo, al punto che in effetti avanza con estrema lentezza proprio perché non foriero di nessun nuovo e vitale filone. E se è drammaticamente immaginabile dove si voglia andare a parare, non altrettanto è il capire perché gli autori sentano così tanto il bisogno di sottrarre tempo a quel che pare indubbiamente una sezione narrativa più interessante com’è quella principale.
Ultima stagione, dunque, significa alzare costantemente il tiro e prepararsi per un grande finale. Non possiamo ancora sapere come andrà a finire la stagione, per ovvie ragioni, e se Chibnall ed i suoi sapranno mantenere le promesse fatte sino a questo momento, ma senza dubbio Broadchurch avanza a passo sicuro e con una maturità acquisita di grande rispetto.
Voto 3×04: 8
Voto 3×05: 8½