Per una serie antologica come Inside no.9 scrivere un finale di stagione all’altezza presenta diverse insidie: non solo l’episodio deve essere capace di creare nello spettatore l’aspettativa per una nuova stagione, ma soprattutto deve riuscire a chiudere le fila del racconto dando una nuova lettura ai frammenti mostrati.
Con questo “Private View” possiamo affermare che Pemberton e Shearsmith abbiano ampiamente superato la sfida. L’elemento che più colpisce di questo finale e rende l’episodio così unico ed al contempo speculare ai suoi predecessori è una tendenza già evidenziata nello Speciale di Natale: una rivisitazione di generi, personaggi e situazioni all’insegna di colpi di scena sempre più complicati. La continuità stilistico-contenutistica è quanto mai evidente in questo finale di stagione, che in fondo nulla di nuovo dice sulla poetica dei due autori né sulla loro opera di rilettura di generi, ma che ha il grande pregio di consegnarci una lettura metatestuale della serie molto più profonda di quanto sembri. “Private View” parla allo spettatore in ogni suo fotogramma, comunicando in modi diversi cosa gli autori pensino della loro creatura e di come si rapporta la serialità odierna ai vari generi trattati.
“Fragments” is an immersive work that seeks to answer those big important questions – “Who are we?”, “How did we come to be here?”
Attraverso le parole della presentazione alla mostra inizia quel processo di auto-riferimenti che investe l’intero episodio: le parole dell’artista si soffermano su alcune interrogazioni apparentemente scontate ma che sottolineano il lavoro certosino svolto dagli autori in queste tre stagioni, nel tentativo di imprimere negli episodi – che altro non sono se non frammenti di una storia più grande – una parte della loro visione della vita e del modo in cui questa può essere e viene rappresentata tramite il mezzo seriale.
“If all the world’s a stage then where does the audience sit?” sottolinea il voice over del creatore della mostra, Elliot Quinn, evidenziando con grande forza quello che sarà il vero leitmotiv dell’episodio: perché se all’apparenza questo “Private View” poteva sembrare una semplice rilettura di un genere così codificato come quello dell’horror, i due autori ci tengono subito a sottolineare il contrario. Il fine principale dell’episodio è infatti raccontare se stesso ed il modo di intendere la narrazione seriale da parte degli autori, e lo fa attraverso un meccanismo quanto mai caro alla serie: l’accumularsi di indizi e sottigliezze che portano allo svelamento del colpo di scena finale. L’importanza di questo segmento iniziale viene evidenziata anche dal gioco di proposizione della figura dell’autore della mostra: il suo viso viene proiettato su una scultura magnificente – che ricalca la tradizione dei busti dell’antichità pur esagerando volutamente nelle dimensioni – così che la sua breve presentazione venga rivestita di un’aura di importanza che altrimenti non avrebbe avuto.
And then, of course, they all split up, which is something you would never do in that situation, and, before you know it, there’s another one gone.
Il grande pregio di questo season finale è la capacità di non prendersi troppo sul serio: i due autori sono ben consci dei limiti insiti nella struttura codificata della loro creatura, dal minutaggio all’ambientazione, ma non tentano di nasconderli né cercano giustificazione per gli stessi. Al contrario, cercano di sfruttarli a loro vantaggio creando un ulteriore livello di lettura della serie. Nel caso specifico dell’episodio, la narrazione atona di Patricia – il personaggio che risulta più di tutti estraneo alla mostra – accarezza lo spettatore e racconta una storia che si sta quasi svolgendo da sola, arricchendo la scena di ulteriori significati. Non è solo una semplice rivisitazione del genere horror quella a cui siamo di fronte: ma è soprattutto un dialogo a cuore aperto con lo spettatore, che dopo tre stagioni di plot twist eclatanti e di macchinazioni imprevedibili, è capace di comprendere che non si tratta più di una serie geniale nella sua originalità, ma che si tratta di un discorso ben più ampio, le cui radici affondano fin nella prima stagione. Cosa vuol dire guardare una storia quando ci si convince di conoscere quasi inevitabilmente l’esito? Cosa vuol dire guardare un episodio di Inside No.9, consci del fatto che invece la risoluzione della storia, ben lontana dalle nostre previsioni iniziali, sarà quanto più imprevedibile possibile?
I once tried to write a murder mystery, but it’s much harder than it seems.
La risposta a questa domanda ci viene proprio dal monologo centrale cui abbiamo dedicato la nostra attenzione, come riporta la frase in calce. A questo proposito, appare evidente quanto gli autori tentino di andare oltre la semplice lettura dell’episodio, creando delle piste interpretative che possono essere colte in vario modo. Ancor più evidente è il fatto che la varietà di storie trattate faccia sì che il pubblico non possa mai essere del tutto deluso da una stagione, riuscendo facilmente ad immedesimarsi in un frammento in particolare. Ciò che agli autori di Inside no.9 preme maggiormente è continuare a creare un prodotto innovativo, capace di stimolare l’attenzione dello spettatore e di non annoiarlo con colpi di scena troppo deboli, pur rispettando le esigenze di una trama che nella maggior parte dei casi riesce a ben allacciarsi alla struttura atipica dell’episodio.
Ma – e lo ammettono gli stessi autori nel corso dell’episodio – scrivere di “un omicidio misterioso” è molto più difficile di quanto si pensi: sostenere tre stagioni all’insegna dell’idea vincente e del plot twist capace di polarizzare l’attenzione del pubblico talvolta non si accorda bene con la riuscita dell’episodio. Purtroppo, in parte, è il caso del finale di questa puntata, che, nel tentativo di ricercare il colpo di scena perfetto, finisce inevitabilmente per eliminare per detrazione quella carica orrorifica che l’episodio aveva ottenuto grazie soprattutto all’ottima performance di Fiona Shaw, capace di dipingere in poche battute un personaggio che riesce ad eludere qualsiasi rischio di cliché. (“I could barely keep mine in one piece” è forse la battuta migliore dell’episodio). Nonostante qualche nota stonata, l’episodio svolge egregiamente la sua funzione di finale di stagione, riuscendo a cogliere quanto seminato nel corso dell’annata ed al contempo creando un ottimo terreno per il futuro.
“Private View” è la dichiarazione d’intenti che gli autori hanno voluto lasciare agli spettatori: un’ulteriore ed ancor più complessa chiave di lettura per una serie la cui cifra stilistica è la complessità narrativa, basata su intrecci sempre più stratificati. Al netto dei suoi inevitabili difetti, “Private View” si dimostra un episodio solido per concludere una stagione che ha fatto della consapevolezza narrativa il suo punto di forza più grande, contribuendo a creare un equilibrio tra gli episodi non così facile da raggiungere.
Voto 3×06: 8-
Voto stagione: 8