Se c’è da identificare una delle migliori comedy prodotte da Netflix, il pensiero va sicuramente alla serie di Judd Apatow, Leslie Arfin e Paul Rust. L’eccezionalità della prima annata trova nella seconda stagione la sua sfida più grande: la difficoltà di confermarsi come un prodotto capace di trascendere e innovare il genere della commedia romantica, anche attraverso la fruizione moderna del binge-watching.
Senza indugiare oltre, si può affermare che anche quest’anno Love non delude le aspettative, anzi. La serie non si limita, infatti, a ripercorrere lo stile narrativo e visivo vincente della prima stagione, ma cerca di esplorare ancora più alacremente la particolare relazione amorosa che lega i due protagonisti, gli splendidi Paul Rust – già citato come uno degli autori dello show – e Gillian Jacobs, partendo proprio da dove l’avevamo lasciata lo scorso anno. Se la prima annata aveva introdotto i due personaggi facendoli viaggiare principalmente su binari tra loro paralleli – coincidenti solo in alcune occasioni – con la chiara esigenza di farli dapprima conoscere agli spettatori, il secondo ciclo di episodi focalizza maggiormente l’attenzione sul concetto di coppia.
Una delle tante innovazioni che Love ha portato nella ridefinizione dei canoni del suo genere di appartenenza è quella di averci regalato due protagonisti tendenzialmente insopportabili. I caratteri di Gus e Mickey sono, in modi diversi, ben lontani dall’essere perfetti, se non addirittura inadeguati e inadatti alla relazione con gli altri. Essendo una storia che parla prima di tutto di relazioni – sentimentali ma non solo – questo è un bel problema, perché mette in luce le evidenti difficoltà che emergono nella vita quotidiana quando si cerca di creare un legame con qualcuno. Dopo aver seguito da spettatori le loro (dis)avventure durante la prima stagione, nessuno direbbe che Gus e Mickey siano delle brutte persone, tutt’altro; eppure il limite drammatico di questi personaggi sta proprio nell’impressione sbagliata di loro stessi che danno all’umanità che li circonda e che cerca di avvicinarli. Quello che li porta ad unirsi e a cercarsi è proprio un sentimento di rifiuto da parte del mondo, la ricerca di un legame con qualcuno che convive con un dolore simile al proprio.
Il dolore di Gus è chiaramente la ripercussione del suo carattere iper-espansivo e pedante. È un ragazzo alla costante ricerca di approvazione, che vuole piacere a tutti ma che proprio per questo non piace a nessuno. E proprio la sua insistenza e il suo animo buono si combinano in un mix letale di emozioni che pesa come un macigno sulla relazione tra lui e Mickey, lacerandola lentamente e dandole il colpo di grazia durante la separazione forzata degli ultimi episodi. I suoi difetti prendono il sopravvento e mostrano un lato di sé che era rimasto nascosto alla donna per tutto l’idillio vissuto nella prima metà di stagione. L’esilio di Atlanta porta Gus a confrontarsi con i suoi personalissimi demoni e ad empatizzare per la primissima volta con la co-protagonista, realizzando di non poter plasmare a suo piacimento l’immagine di Mickey – come tenta di fare per la maggior parte della stagione – ma di dover provare a cambiare atteggiamento per aiutarla davvero nel suo percorso.
Il percorso di Mickey è ancora più complesso e articolato, poiché il suo dolore non risiede nell’aspetto esteriore del suo carattere ma ha una connotazione esistenziale. La sofferenza è parte di lei da sempre, ed è complicato dire quanto questa sia definitoria delle sue scelte di vita: è possibile che proprio un sentimento inconscio di insoddisfazione continua la porti a cercare in Dustin quello che crede non possa avere con Gus, o che la spinga a convincersi di aver bisogno dell’aiuto dei gruppi di sostegno contro le numerose dipendenze che la affliggono. Da qui risulta fondamentale conoscere qualcosa di più del suo passato attraverso il personaggio di Marty Dobbs, suo padre, figura chiave per identificare una delle cause dei problemi relazionali della donna. Da questo incontro/scontro si evince una delle caratteristiche più esplicite di Mickey: non sopporta chi cerca di interpretare i suoi sentimenti o prova a dirle come dovrebbe comportarsi. Che sia Gus con la sua accondiscendenza, Greg con la sua convinzione che sia innamorata di lui, lo stesso Marty che non vorrebbe che identificasse nell’alcolismo un problema, o Dustin che tenta di allontanarla dal personaggio di Paul Rust perché si ritiene migliore, tutti fanno l’errore di provare a controllare le reazioni emotive dell’animo indomabile della donna che avrebbe bisogno di trovare stabilità e, conseguentemente, serenità.
In questa seconda stagione non c’è stato, però, solo il rapporto tra Gus e Mickey in evidenza, ma anche tutta una serie di temi contingenti e personaggi secondari che esprimono un’importante soggettività. Bertie, per esempio, ottiene un meritato spazio in ottica del suo rapporto con Randy: la sua famosa ingenuità ed eccessiva generosità la portano ad interrogarsi sui suoi reali desideri e sui motivi per cui la sua vita non sia colma di felicità come invece il suo carattere vorrebbe mostrare. Il personaggio di Randy è, invece, una lente privilegiata per una digressione molto più profonda sulla realizzazione personale dell’individuo: la disoccupazione, e la conseguente dipendenza costante da qualcun altro, è la causa di un disagio interiore – come dimostrano i sogni inquietanti in cui vorrebbe uccidere qualcuno – che non ha la forza di ammettere e neanche la voglia di cambiare. Mentre Gus e Mickey cercano costantemente di realizzare se stessi anche attraverso il lavoro – lui vorrebbe diventare uno sceneggiatore e insiste con il regista di Liberty Down per co-scrivere il film, lei riesce ad ottenere la produzione di un programma radiofonico –, lo stesso non avviene per Randy che viene assunto come modello di uno stile di vita sempre più diffuso: un disagio generalizzato che affligge chi, abbandonata ogni speranza di poter raggiungere i propri sogni, sceglie di smettere di inseguirli perché è semplicemente la scelta meno faticosa.
Per quanto riguarda le scelte narrative, questa seconda stagione si conferma come un laboratorio sempre più ricco. Ben consapevoli che la serie, come molti altri prodotti Netflix, ha la necessità di essere analizzata e giudicata nella sua totalità stagionale, si nota come Apatow e il resto degli sceneggiatori abbiano lavorato molto bene sull’equilibrio generale degli episodi: l’evoluzione del rapporto tra Gus e Mickey e la loro maturazione come coppia viaggia attraverso tappe ben definite e sempre riconoscibili. La stagione è chiaramente divisa in due tronconi: i primi sei episodi, che terminano con il bellissimo “Forced Hiatus”, mostrano l’esaltazione e la bellezza dell’inizio di un nuovo rapporto attraverso la fuga dalla quotidianità (“A Day”) e le nuove esperienze che aiutano a conoscersi (“Shrooms”); la seconda parte verte invece sul declino dell’idillio e l’inizio dei problemi, con scheletri che escono dagli armadi (“The Work Party”), l’emergere dei limiti della vita di coppia (“Housesitting”) e le conseguenze disastrose, ma necessarie, della distanza sul rapporto (“Liberty Down” e “The Long D”). L’episodio finale “Back In Town” è la summa del cammino che hanno compiuto i protagonisti, il riavvicinamento finale e l’inizio di una nuova fase del rapporto, con una nuova consapevolezza nei confronti del futuro.
Dov’è l’amore che dà titolo allo show in tutto questo? La risposta di Judd Apatow e compagni probabilmente sarebbe: ovunque. Love definisce l’amore come quella forza che spinge due persone ad avvicinarsi e a trovare la felicità insieme, ad essere tanto più infelici e in difficoltà quanto sono distanti. Eppure c’è amore anche nei percorsi personali tanto di Mickey quanto di Gus, nel tentativo di superare i propri scogli emotivi che non permettono il totale abbandono alla felicità della coppia. L’amore è quindi un sentimento doloroso, che necessita delle difficoltà e degli imprevisti di una relazione per raggiungere la sua forma più pura.
Non è solo il concetto di amore che emerge dalla visione a rendere la seconda stagione di Love a tratti ancora più riuscita della precedente; è tutto l’insieme a risultare uno splendido affresco sul quale si muovono i due protagonisti. Tanti sono gli elementi che concorrono a questo successo, e alcuni meriterebbero addirittura un intero articolo di approfondimento dedicato, come l’importanza della meta-narratività di Witchita, lo show televisivo per cui lavora Gus, oppure la definizione di una generazione in crisi, sempre in bilico tra eccessi e mancanze. L’unico vero limite individuabile di Love potrebbe essere la particolare comicità che sottende la narrazione, sicuramente non adatta a chiunque, e uno stile ricercato che non vuole necessariamente piacere a tutti.
Al netto delle due stagioni già trasmesse, Love è una serie completa, uno di quei prodotti che saranno piacevolmente ricordati anche anni dopo la loro messa in onda, perché artefici di una rivoluzione narrativa che mira a generare nuovi punti di riferimento per la serialità del futuro.
Voto: 9
Complimenti Davide, hai scritto un’ottima recensione, sottolineando con precisione il gran lavoro fatto dagli autori sui personaggi. In un momento in cui si cercano furiosi twist narrativi o esagerazioni stilistiche spesso fini a se stesse per auto-conferirsi una qualsivoglia personalità televisiva, Love procede nella sua marcia con una trasgressiva radicalità, prendendosi tutto il tempo che serve per lavorare sulla coppia in maniera acuta, accompagnando mano nella mano i suoi protagonisti nella loro graduale evoluzione. Molto bello il discorso che fai sulla relazione meta-narrativa tra Love e Wichita
Grazie! Anche se come ho scritto secondo me il rapporto Witchita-Love che ho accennato meriterebbe più di un semplice accenno, ma purtroppo non potevo dilungarmi ancora. Poi il sesto episodio, quello della chiusura della serie, penso sia il migliore della stagione.
Non sono completamente d’accordo sul finale di stagione.
Le prime sei puntate sono state fatte per celebrare l’amore tra i due o l’amore in generale facendo vivere a Gus e Mickey la loro straordinaria e al tempo stesso comune storia d’amore. Il tutto condito con i soliti imprevisti, la leggerezza e l’ironia che ha contraddistinto la serie nella prima stagione.
Nella seconda parte della stagione (non ricordo se dalla settima o ottava puntata) inizia il declino tra i due. Gus vorrebbe che Mickey risolva i suoi problemi legati all’alcolismo ma lo fa in modo un po’ troppo “appiccicoso”, mentre Mickey vede Gus come un nerd rompipalle. E quindi spuntano dubbi, incertezze e interessi personali che prevalgono sulla relazione. Durante il periodo di separazione, con Gus ad Atlanta, Mickey ritrova se stessa, ha più tempo da dedicare al lavoro e migliora anche con le sedute degli alcolisti anonimi. Il problema sorge quando Mickey, presa forse da una sorta di incomunicabilità e vuoto interiore che Antonioni levati, decide di tradire Gus con il suo ex. Il tradimento non dura un giorno o due ma per tutto il periodo in cui Gus è lontano (circa 20 giorni). Mickey stabilisce un vero e proprio rapporto con quest’uomo, lui viene a cena da lei e lei si intrattiene nel suo giardino di casa, illudendolo per tutto il tempo. In tutto questo Mickey mantiene comunque la relazione a distanza con Gus con una freddezza e un distacco sorprendente. Quando Gus torna, con le intenzioni di continuare il rapporto pur sapendo di dover modificare il suo carattere, lei fa di tutto per nascondere il tradimento. Lascia in un minuto e mezzo l’uomo con cui aveva passato l’ultimo mese e ritorna con Gus, utilizzando una serie di bugie e nascondigli alquanto squallidi e veramente poco comici.
Le ultime due puntate sono di una tristezza infinita, le ho passate aspettando solamente il momento in cui Gus venisse a sapere del tradimento, ma ciò non avviene e Mickey la passa liscia nella scena finale dove riesce a tenersi come “riserva” anche l’ex con frasi molto convincenti e mentre il terzo incomodo è nascosto fuori al balcone sale Gus con le bibite in mano. I due si baciano e parte la canzone romantica in sottofondo come se l’amore avesse trionfato su tutto e tutti.
Storie del genere non devono per forza finire con lo stile della “telenovela argentina”, ma neanche far diventare la protagonista una specie di mostro cinico e insensibile.
Il tradimento in questo caso viene esclusivamente esaltato, non c’è un ripiegamento dei personaggi su Mickey e neanche un pentimento minimo della protagonista.
Forse l’unica parte delle ultime due puntate che mi ha dato soddisfazione, e non me ne vogliano le femministe, è quando l’ex fidanzato di Mickey (non ricordo il nome), dopo essere stato mollato in una maniera assurda, le urla una parola che forse riassume perfettamente la parte finale della serie: “puttana”.
Lei prova a sentirsi offesa e a passare per una vittima ma se ne va, forse consapevole.