A due episodi dal finale, American Gods inizia finalmente a delineare un quadro coerente della propria mitologia, forse ormai però troppo tardi per potersi far apprezzare nelle sue potenzialità e dare all’intera stagione un senso che non sia puramente introduttivo.
Rimasto orfano della sua creatura Hannibal, Bryan Fuller si è buttato su questo nuovo progetto di Starz e il pubblico che ha seguito le vicende del noto cannibale sapeva cosa aspettarsi: grande visionarietà, uno stile molto lirico, tempi dilatati, dialoghi ricercati. Se questi ultimi due episodi hanno un merito, è quello di aver saputo dare a tutto ciò una solidità e una maggiore organicità in grado di dare alle visioni dell’autore un minimo di sviluppo narrativo, finora quasi assente nella grande confusione e dispersività dei primi episodi (perlomeno al pubblico non familiare alla materia letteraria da cui la serie è tratta).
Al di là del fascino dell’ambientazione, della bravura degli attori (alcuni), e della bellezza visiva delle singole scene, ciò che mancava alla serie era una direzione in mezzo all’accozzaglia di personaggi, momenti lirici, stoyline introdotte e poi scomparse. Unico minimo comune denominatore erano infatti le vicende di Shadow e Wednesday, circondate però da un alone di troppo mistero circa intenzioni, scopi e senso della loro storyline, spesso trascinata unicamente dal magnetismo di Ian McShane. Come spesso accade a Fuller quando non trova un equilibrio tra il suo stile e la narrazione, tutto diventa un accattivante spettacolo per gli occhi che manca però di sostanza e che non va al di là di un compiaciuto indugiare su dettagli al ralenty ed elementi onirici.
Questi ultimi due episodi rappresentano una parziale e felice inversione di tendenza, seppure con modalità differenti. Il primo dei due, grazie soprattutto alla bellissima scena alla centrale di polizia, inserisce la storia in un orizzonte narrativo finalmente ben definito: sappiamo che c’è una guerra, vediamo per la prima volta i nemici, scopriamo parzialmente le ragioni del conflitto e quali sono i termini in gioco. In mano ad un trio d’attori (Ian McShane, Gillian Anderson e Crispin Glover) in grande spolvero, finalmente anche lo spettatore completamente ignaro del materiale narrativo di Neil Gaiman capisce dopo cinque puntate di cosa parla queste serie, un po’ tardi considerando gli appena otto episodi di cui è formata questa stagione.
La puntata successiva è invece il primo caso in cui l’unità episodica si carica di un significato tematico riconoscibile fin dall’inizio ed espresso in diverso modo in tutti i personaggi e le storyline, dando appunto un senso di organicità che era mancato nel miscuglio confusionario di metafore delle unità precedenti. Si parla in questo caso dell’ipocrisia insita nella fede (Gesù ucciso da mani che brandiscono insieme fucili e rosari), ma anche della contradditorietà di un’America che fa dell’industria bellica della morte lo strumento di espressione della sua presunta moralità religiosa. Del resto, forse, proprio questo voleva essere American Gods, ovvero la rappresentazione delle tante identità che differenti culture hanno portato in America, in un’illusione di conciliazione che invece ha portato solo conflitto e caos.
Peccato che questa sia la prima volta che questo orizzonte tematico emerge in tutta la sua natura grottesca, nonchè la prima volta in cui i lunghi dialoghi non si perdono in un orizzonte vuoto di bei paroloni, ma acquistano un senso ben preciso e pieno di mordente (si pensi a tutti gli scambi tra Wednesday e Vulcano). È il famoso equilibrio che Fuller era riuscito a trovare in Hannibal (per poi perderlo nuovamente nella sua ultima stagione) e che qui per la prima volta si palesa dopo cinque episodi in cui i tempi sono stati estremamente ed inutilmente dilatati, facendo perdere al racconto incisività, ritmo e senso.
Molti dei problemi della serie risiedono anche nel fatto che i tanti personaggi presentati mancano ancora di un proprio scopo. La carrellata di vecchie divinità che ha costellato queste prime puntate, per quanto interessante sia stato vedere il loro inserimento nella società moderna (il che però non va oltre il gioco di identità fine a se stesso che un qualunque Once Upon a Time potrebbe portare avanti in maniera efficace), è infatti totalmente priva di focus. Molto più importanti, perché poco conosciute e perché dotate di un maggior magnetismo, risultano le divinità moderne (Mr. World e Media), ancora appena accennate ma finora sicuramente più incisive.
La scommessa di Fuller con American Gods è dunque ancora lontanissima dall’essere vinta, ma perlomeno questi due episodi rappresentano un piccolo passo avanti nella direzione giusta. Purtroppo arrivano a due episodi dal finale a correggere una rotta che per i primi episodi non era mai stata intrapresa, e non certo per i tanti personaggi da introdurre, quanto per la lunghezza esasperante di alcuni segmenti che non portavano il racconto da nessuna parte. Nonostante molte cose ancora da correggere, American Gods rinnova però così almeno la speranza che il finale (spesso il fiore all’occhiello della produzione fulleriana) riscatti la nostra pazienza.
Voto 1×05: 6½
Voto 1×06: 7
speriamo davvero, perché di pazienza ce ne vuole tanta, purtroppo